lunedì 18 settembre 2017

Foglio Matricolare 9/2017 Parte II

Florida Bar


Quando era tornato, non c'era posto per Giani nel negozio di famiglia.
La gestione non consentiva di far vivere di quel lavoro più di una famiglia e lui voleva crearne una tutta sua.
Il 27 maggio 1933 l'iscrizione al PNF era stata dichiarata requisito fondamentale per il concorso a pubblici uffici, ma Giani aveva solo la licenza elementare e non aveva possibilità di partecipare a pubblici concorsi.
Non riteneva necessario iscriversi al PNF perché in famiglia nessuno era coinvolto in attività politiche ed il loro motto era: meglio stare fuori dalla politica.
Allora si era inventato un'attività nuova sulla Riva del Vin.
C'era suo zio Felice Centofanti che aveva aperto il Florida Bar.
Il lavoro c’era e Felice aveva bisogno di altre persone che lo aiutassero.
Il bar aveva una lunga fila di tavolini lungo la Riva del Vin che, soprattutto d’estate, erano contesi dai veneziani che volevano gustarsi un buon gelato.
Fra i clienti c’erano pochi turisti.
Non esisteva il turismo di massa.
La gente era rispettosa del centro storico non urlava, non spingeva, non ciondolava in piedi per la città.
Poi c’erano i bambini, tanti bambini soprattutto d’estate venuti lì per godersi il fresco.
C’era anche un cantante che veniva quasi tutte le sere.
Il cantante si chiamava Otto.  Era un tipo un po’ strano dal fisico asciutto, per non dire ossuto, con una voce rauca e con due spesse lenti che davano l’impressione che ci vedesse poco.
Teneva attaccato al naso un foglio, che di fatto era bianco, ma lui faceva finta di leggere il testo delle canzoni che si ingegnava di cantare colla sua voce fioca.
Come cantante era pessimo ma la gente gli voleva bene. I bambini lo circondavano con allegria e raccoglievano dai genitori le monete da mettere nel suo cappello messo a terra in bella vista.
A Nicheto il cantante era molto simpatico e per attestagli la sua ammirazione si metteva a danzare al suono delle sue canzoni e tutti ridevano di questo originale teatrino.
Quello che più piaceva a Nicheto era sedersi al fresco lungo la riva affacciata sul Canal Grande per gustarsi un gianduiotto con panna.
A Giani quel lavoro di gelataio interessava ed aveva coinvolto nell’attività anche il fratello che non aveva ancora trovato lavoro.
Bepi passava le sue giornate nella stalla come simpaticamente chiamava la sala corse.
Lì, a sentire lui, era un professore. Aveva un sistema infallibile: giocava più accoppiate su di un cavallo considerato brocco così se vinceva il totalizzatore pagava una bella somma.
Non aveva mai spiegato, però, cosa capitava se il brocco non riusciva a piazzarsi fra i primi.
Giani si applicava con impegno a questo nuovo lavoro e riusciva bene perché aveva fantasia e soprattutto aveva voglia di stare lì tutto il santo giorno a lavorare.
C'erano le prime macchine per confezionare il gelato; le pale giravano vorticose.
Giani curava che l’impasto fosse soffice, senza grumi.
Produceva un gelato gustoso fatto con ingredienti genuini; le polverine non erano ancora di moda e soprattutto Giani amava i prodotti naturali.
Faceva una crema, con l'uovo e il latte, davvero speciale, ma soprattutto aveva realizzato delle cassate alla siciliana che tutti dicevano fossero squisite.
La sua specialità erano le torte gelato.
Riusciva con la sua inventiva a creare un prodotto interessante dove i gusti più semplici, crema e cioccolato si legavano alla perfezione abbinati alle ciliegine all’alchermes di sua invenzione che erano una delizia per il palato.
I gelati di sua produzione in poco tempo erano diventati famosi e andavano a ruba tra tutti i ristoratori nelle vicinanze di Rialto; l'attività si espandeva.
Le cose andavano bene tanto che Giani pensava già di mettere su famiglia.


L’oste della Madonna


Giani aveva conosciuto una ragazza mora, figlia di Nicola l’oste della Madonna, che era una trattoria in Calle dei Cinque.
Nicola era nato 5.10.1871 a Trani, una bella cittadina dominata da un Duomo di pietra bianca affacciato sul mare.
Nicola si era sposato con Graziella Di Meo più giovane di lui, essendo nata il 24.101880, nella stessa ridente cittadina della Puglia. Poi i due si erano stabiliti a Venezia.    
Nicola era un uomo di statura normale con due baffetti bianchi che ispiravano simpatia lui mesceva il vino, mentre sua moglie Graziella stava seduta alla cassa per tutto il tempo e non le sfuggiva neppure una liretta.
Era una perfetta matrona. Faccia rotonda capelli neri con parecchi fili bianchi raccolti a crocchia sulla nuca aveva l’aria di non lasciare scappare nulla.
Tutto era sotto controllo.
Nicola e Graziella lavoravano tutto il santo giorno, ogni tanto si vedevano con i parenti naturalmente tutti tranesi.
Non vi era molta integrazione tra tranesi e veneziani: le persone si vedevano soprattutto con i propri paesani.
Tutti i tranesi si trovavano a Natale per una tombola in allegria.
C’era il fratello Leonardo Di Marzo che era sposato con la zia Francesca. Avevano una osteria in Calle Casseleria, che era una calle strettissima nei pressi di San Marco.
Abitavano sopra l’osteria in un appartamento molto grande cui si accadeva per una scala tutta in piedi con delle alzate giganti senza pianerottoli. Quando Nicheto andava a trovarli con la Cetta e giungeva in cima al secondo piano aveva una sensazione di vertigine a guardare giù il portone di accesso. 
Leonardo aveva avuto due figli Nini e Felice.
Nini era un ragazzo alto ed esile sempre elegantissimo portava dei colletti inamidati staccati dalla camicia.
Al Banco di Sicilia era considerato un damerino: sembra più il direttore che il semplice cassiere che era.
Aveva sposato una professoressa di francese che si chiamava Maria Amata. La professoressa faceva sempre i complimenti a Nicheto che secondo lei aveva una ottima pronuncia per la lingua transalpina.
Cice invece era più ruspante si occupava di commercio di carbone. Girava su di una peata enorme tutta nera da dove i carbonai andavano e venivano con delle cariole atte a trasportare il coke dalla barca alle case dei clienti. Allora le stufe bruciavano legna o carbone.
La moglie Tina erra una energica veneziana doc che comandava in casa e si occupava dell’educazione del figlio Leonardo e della figlia Franca.
C’era Nicola Di Lernia nato il 6.11.1873 morto 11.5.1940 un mese prima dell’inizio del conflitto che aveva sposato Francesca Di Marzo la sorella nata 9.6.1875 morta 9.3.1955. Erano i parenti più facoltosi visto che possedevano l’albergo Universo, vicino alla stazione ferroviaria, che conducevano direttamente.
Le figlie Maria e Nineta uscivano spesso con le figlie di Nicola erano due ragazze piene di vita sempre allegre e sorridenti.
Nino il fratello maschio preferiva altre frequentazioni, dicevano che frequentasse l’Antico Martini l’unico night club della città dove conosceva tutte le ballerine. Era un comportamento scandaloso per tutti i parenti benpensanti.
Poi c’erano i cugini Savino, Felicetto, che avevano anch’essi delle osterie nella città.
Naturalmente anche loro avevano delle figlie la Nella e la Anna due belle ragazze in cerca di marito, naturalmente che fosse meridionale magari di Trani.
Poi conobbe Rino e se andò a Trani a fare la moglie.
Anche loro grandi lavoratori, dediti tutto il giorno a mescere il vino nelle scodelle che avevano preso un colore rosso scuro.
Era un commercio buono quello del vino che si consumava in grande abbondanza nella città delle ombre. I tranesi importavano il loro vino che aveva una gradazione molto alta e lo mescolavano con i vinelli più leggeri dell’estuario ricavando un prodotto molto apprezzato e a buon prezzo.
Veniva poche volte perché abitava a Bari la sorella Pasqua Di Marzo che aveva sposato Angelo Modugno che era rimasto vedovo dopo la morte della sua amata sorella Isabella.
La Pasqua era fidanzata con Antonio ma dovette su invito della famiglia accasarsi con Modugno per accudire i figli della sorella premorta: allora si usava così e lei obbedì rispettando la consuetudine.
Nicola aveva avuto due figlie Bice, la più grande e Cetta di due anni più giovane, la terza figlia Isabella era morta di spagnola.
Le ragazze non scendevano mai nei locali della trattoria perché non stava bene per due signorine occuparsi degli affari di famiglia soprattutto in una locanda.
Così si pensava allora.    
Le ragazze dovevano stare a casa.         
A Giani interessava la Cetta ed aveva incominciato a frequentarla.
Si trovavano bene insieme anche perché avevano comuni radici pugliesi.
L’aveva portata una volta a Ca’ Giustinian nella Sala delle Colonne: un tripudio di stucchi, cascate di vetri di Murano.
Aveva fatto colpo? si sarebbero visti altre volte?
La situazione internazionale, nel frattempo, peggiorava perché i venti di guerra soffiavano soprattutto al Nord in Germania.



La Seconda Guerra Mondiale. 


La seconda guerra mondiale aveva avuto inizio il 1º settembre 1939 con l'attacco della Germania nazista alla Polonia.
L’invasione era stata rapidissima.
Giani aveva appreso la notizia dalla radio alle 18.
A quell’ora aveva finito di lavorare ed aveva lasciato il laboratorio.
Lui era tranquillamente seduto al tavolino del bar vicino alla cassa dove poteva seguire meglio il movimento dei camerieri impegnati a servire i clienti che a quell’ora cominciavano a venire per gustare i suoi gelati.
Aveva capito subito che le cose sarebbero andate nel verso sbagliato.
Successivamente le forze armate tedesche avevano invaso Norvegia e Danimarca, Olanda Belgio e Lussemburgo e Francia.
Giani seguiva il succedersi degli avvenimenti sempre sperando che le cose si sarebbero risolte in fretta.
La guerra lampo promessa dal duce sembrava una realtà.
Lui non era un interventista, era un buon uomo abituato a risolvere i problemi con la persuasione e non con la violenza 
Nel maggio del 40 era stato richiamato alle armi.
In caserma, attaccato alla radio aveva capito che la situazione andava ormai verso il disastro totale dopo aver sentito il testo della dichiarazione di guerra pronunciato da Mussolini nel discorso di Palazzo Venezia il 10 giugno 1940, alle ore 18.00.
Quel momento apparentemente così tranquillo era stato scosso dalla voce del duce:
“Combattenti di terra, di mare e dell'aria! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni! Uomini e donne d'Italia, dell'Impero e del regno d'Albania! Ascoltate!
Un'ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L'ora delle decisioni irrevocabili.
La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia.”
Il 4 dicembre 40 Badoglio presentava una lettera di dimissioni e veniva sostituito dal generale Cavallero.
Cavallero aveva indubbie doti di ingegno; aveva percorso tutta la carriera dello stato maggiore.
Il generale aveva come dote l’ottimismo e Mussolini non chiedeva di meglio. (Indro Montanelli, Storie d’Italia Vol  8, 2003, 360).
Giani non seguiva gli avvenimenti che si verificavano nelle alte sfere dell’esercito.
Non era né favorevole né contrario al cambio dei vertici militari, anche se non nutriva grande stima per Badoglio.
Faceva parte della truppa di fanteria che i grandi generali consideravano senza troppi riguardi come pedine da muovere nei loro scacchieri di guerra per ottenere onori dal Duce.
Aveva capito a sue spese che il mondo si divideva fra potenti che comandavano e truppa che obbediva, se non voleva essere passata per le armi.
Era rassegnato ad un destino che sentiva di non potere neppure tentare di cambiare.
Cosa avrebbero potuto fare lui e i suoi commilitoni che non la pensavano come il Duce per fermare l’Europa che correva verso il precipizio?
Al massimo potevano prendere un sacco di bastonate o al peggio essere fucilati come disertori.
Nel settembre del 41 giunse al 121° reggimento Battaglione Motorizzato di Piacenza.
Piacenza era un luogo storico da cui era partita la seconda crociata ed il suo capitano lo ricordava spesso per galvanizzare gli uomini.
Giani e i suoi commilitoni lo guardavano senza parlare quando cercava di convincerli che la guerra doveva essere vinta per il bene della nazione, ma sentivano in cuor loro che quella non era la loro guerra.
Il 1941 era stato già fino a quel momento un anno terribile per Giani.
La Roma era morta il 21-7-1941 di tifo per avere mangiato delle cozze crude e Angelo l’aveva seguita nel triste viaggio perché aveva condiviso con lei quel piatto così gustoso.
Quel dolore per la morte di entrambi i genitori l’aveva intristito, ma doveva reagire ad una situazione di guerra e si fece forza.
Nelle retrovie Giani non stava poi tanto male aveva persino trovato l’Avila, un antico casale, sulle prime colline della val Trebbia, vicino a Piacenza dove poteva rilassarsi nei rari momenti di pausa.
Un locale nel verde adatto a festeggiare, ballare, parlare tanto da interrompere la routine della vita militare e trovare una specie di normalità.
Nel maggio del 42 era stato assegnato in forza al 17°       reggimento di artiglieria motorizzato della Sforzesca.
La caserma Cantore, lungo lo stradone Farnese, era diventata la sua nuova casa.
Giani non sapeva ancora di essere capitato in un battaglione segnato da un destino avverso, ma nella sua sfortuna aveva una qualifica che sicuramente avrebbe contribuito a salvargli la vita.
Il suo foglio matricolare attestava fra i suoi segni particolari quello di essere un autista. 
Tanto bastava a sottrarlo dalla fanteria da montagna destinata fra non molto a muoversi a piedi nell’inverno russo.
Una vera sciagura! A Giani che soffriva di mal di macchina avere quella patente era costata molta sofferenza, ma era bravo e gli piaceva guidare.
Per abituarsi alla puzza di nafta che gli dava il volta stomaco soleva tuffare il suo naso nella bocca dello scarico dei fumi della nafta.
In questa maniera, diceva, di curare il suo mal di macchina che dopo questo rimedio inconsueto gli era passato.
Non sapeva che la sua forza di volontà ed il suo amore per i motori gli sarebbe stato utile nei momenti più difficili della sua vita.


La "Sforzesca”.


La "Sforzesca" era classificata come divisione di fanteria di montagna e come tale destinata all'impiego nei settori alpini.
In realtà la dotazione di armi e mezzi era di poco differente da quella di una normale divisione di fanteria di linea ed i fanti ne avrebbero pagate le conseguenze in tutte le fasi del combattimento in cui sarebbero stati impiegati sia all’attacco sia in ritirata.
Inviata in Russia nel luglio 1942, la "Sforzesca" era stata subito impiegata sul fronte del medio Don, sostituendo la divisione "Torino" appartenente al XXXV Corpo d'Armata (ex CSIR). A comandare la ottava armata italiana il Russia ARMIR era stato designato il generale Gariboldi.
Arrivare in zona di guerra a Giani aveva fatto una strana impressione, perché non andava a difendere la patria in pericolo, ma ad aggredire un nemico pacifico.
I russi erano contadini e gente del popolo come lui.
L’armata di Gariboldi aveva agito in pianura.
La sua insufficienza di automezzi la condannava ad una staticità che sarebbe stata componente essenziale della tragedia finale.
Giani faceva parte di quella fortunata squadra dotata di mezzi da trasporto che avrebbe avuto più possibilità di cavarsela se i Russi avessero contrattaccato in forze.
Qualcuno come il generale Cavallero, eterno ottimista, sosteneva di avere risolto gli evidenti problemi della motorizzazione non dando camion alla truppa, ma portando la tappa quotidiana della fanteria da 18 a 40 chilometri.
Davvero un vero dirigente che sapeva risolvere i problemi seguendo acriticamente le direttive di chi comandava veramente senza azzardare una diversa opinione per paura di compromettere il suo curriculum militare: un perfetto carrierista.
Chi aveva una visione realistica della situazione era stato messo a tacere.
Il generale Messe, che aveva accumulato un’esperienza preziosa sulle difficoltà e sulle esigenze della guerra, aveva capito presto che i soldati italiani venivano mandati allo sbaraglio senza un equipaggiamento ed un armamento che dessero un minimo di garanzia.
Messe aveva confidato queste sue perplessità a Mussolini, ma il Duce aveva confermato che l’Italia non doveva figurare da meno di altri alleati e doveva trovarsi a fianco della Germania su quel fronte, così come la Germania affermava la sua cooperazione con l’esercito italiano in Africa
In tal modo l’Italia avrebbe tratto vantaggi e benefici maggiori dalla presenza di un corpo d’armata piuttosto che di una sola armata.
Di queste strategie a Giani e alla maggior parte della truppa non interessava molto.
“Quando se torna a casa”.  I fanti chiedevano ai loro sottufficiali che erano lì con loro a combattere in prima linea e che erano gli unici che avrebbero fatto il possibile per riportarli indietro, anche a costo della vita, a differenza di quelli dello stato maggiore.
La ragion di Stato, o meglio le pericolose motivazioni del dittatore avevano avuto il sopravvento poiché nessuno, salvo rare eccezioni, voleva contrariare il Duce ed esprimere un parere diverso dal suo.
Secondo i comandi dello Stato Maggiore l’ARMIR aveva preso posizione sulla sponda destra del Don.
L’armata doveva lanciarsi alla conquista di Stalingrado, ma a questo compito erano state destinate la 6ª e la 4ª armata tedesca. I tedeschi non volevano dividere l’onore e i privilegi della vittoria, ritenuta in un primo momento molto facile, con nessuno.
Gariboldi doveva limitarsi a presidiare il settore del nord in vista di future minacce.
Il generale aveva protestato.
Lui aveva capito perfettamente la situazione, aveva, infatti, pensato: “Se l’attacco sovietico non verrà saremo inutili e se verrà saremo troppo deboli”. (Indro Montanelli, Storie d’Italia, Vol  8, 2003, 477).
Nell’agosto dello stesso anno, i fanti della "Sforzesca" ed i resti della 3ª divisione "Celere" avevano ingaggiato durissimi combattimenti con le forze russe.
Il 20 agosto 1942 era incominciata la prima battaglia difensiva del Don e il 79° Btg. CC.NN. era stato impegnato a contenere al fianco della 2ª Divisione fanteria "Sforzesca" gli attacchi sovietici.
Il 21 agosto all'alba un nuovo attacco aveva determinato il cedimento della "Sforzesca" che aveva abbandonato le posizioni e a Margini, comandante del 79°, era stato dato l'ordine di occupare il più rapidamente possibile le posizioni abbandonate non ancora prese dal nemico per costituire dei capisaldi.
Le posizioni abbandonate dalla Sforzesca erano state rilevate dal 79º Battaglione M del seniore Silvio Margini che ne aveva protetto la ritirata.
Per fortuna che Margini aveva fatto fino in fondo il suo dovere!
Era un battaglione di camicie nere più addestrato, più equipaggiato e più motorizzato della fanteria di montagna che aveva dato il suo appoggio determinante per salvare la vita dei fanti della Sforzesca troppo poco mobili per sfuggire agli attacchi dei russi.



La Ritirata.


I fanti della "Sforzesca" erano stati costretti a ritirarsi e questo valse all'unità l'appellativo di divisione cikai ("scappa" in russo).
A Giani quell’ingiusto appellativo non andava giù. Loro avevano combattuto, avevano dato il loro contributo di sangue, cosa dovevano fare di più?
Dopo questi combattimenti la "Sforzesca" era stata spostata sulle rive del fiume Don, all'interno del settore del XXIX Corpo d'Armata tedesco e nella parte più orientale dello scacchiere italiano, a contatto con le forze rumene.
L’operazione Piccolo Saturno contro l’ottava armata italiana aveva avuto inizio a metà di dicembre 1942, quando oramai la imminente resa, consegnata il mese successivo, della sesta armata del generale Von Paulus consentiva alle truppe russe di riprendersi il resto del loro territorio
Lo schieramento dell’ARMIR vedeva allineato, da nord ovest verso sud est, il II corpo d’armata alpino con la Cosseria e la Ravenna, il XXXV con la 298ª tedesca ed il Pasubio, il XXIX con la Torino la Celere e la Sforzesca.
Giani era lì su sul suo camion ad attendere ordini. Pensava che almeno lui era al caldo nella sua cabina mentre i suoi commilitoni della fanteria erano nel gelo.
Li vedeva passare accanto al suo mezzo di trasporto che tenevano stretta la coperta che li riparava la testa e le spalle dal vento gelido, camminavano uno dietro l’altro con la testa bassa. (Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve, 1953, 62)
I reparti siberiani erano avvolti nei loro indumenti caldi e nei loro stivali confortevoli adatti a quelle temperature polari.      
La Cosseria e la Ravenna dapprima avevano resistito, ma poi la linea si era disintegrata il corpo d’armata tedesco non aveva portato in aiuto alcuna forza combattente.
Il 19 dicembre il II corpo d’armata aveva cessato di esistere. La "Sforzesca"aveva iniziato la ritirata il 19 dicembre 1942.
Il percorso seguito dalle colonne in ritirata del blocco sud, cui appartenevano le unità della "Sforzesca", fu lungo e tortuoso, in condizioni climatiche estreme e con equipaggiamento e vestiario non idonei.
Il 28 dicembre 1942 i soldati del 54º Reggimento, primi tra tutti i reparti della divisione, erano riusciti ad uscire dalla sacca.
Giani era lì a Kantemirovka con altri trecento carri pronto per uno sgombero ordinato delle truppe. L’arrivo dei carri armati russi aveva provocato il panico.
Dal finestrino del suo camion aveva visto la massa dei fuggiaschi prendere d’assalto il suo camion ed era partito miracolosamente attraversando una folla di disperati.
Aveva preso la via della ritirata raccogliendo più fuggitivi che poteva, abbandonando armamento, equipaggiamento ed ogni cosa ingombrante.  La cosa più importante era potersi rifornire di carburante, perché senza gasolio avrebbe fatto la fine dalla maggior parte dei fanti.
La massa di fuggiaschi si era dispersa. (Indro Montanello Storie d’Italia Vol. 8, 2003, 493).
La colonna maggiore in ritirata era come una biscia nera lunga una quarantina di chilometri circa due giorni di marcia.
La colonna rallentava e si ingrossava se davanti magari una decina di chilometri avvenivano scontri o combattimenti altrimenti se non vi erano ostacoli si assottigliava e marciava veloce (Egisto Corrado, La ritirata di Russia, 2009, 127).
Giani aveva la sensazione di appartenere ad un lungo serpentone di formiche che un nemico insidioso si divertiva a schiacciare senza che le povere bestioline potessero porre difesa o scappare.
Nonostante questo il corpo d’armata alpino aveva avuto un riconoscimento del suo eroismo pagato troppo a caro prezzo (Giulio Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio, 2011, 157).
Giani non aveva mai voluto parlare a Nicheto di quei giorni. Aveva visto morire troppi amici attaccati al suo camion senza potere fare di più; non voleva impressionare il suo bambino con quei ricordi.
Sapeva che di 229.000 soldati partiti per quella assurda spedizione non ne erano tornati 74.800, senza che nessuno avesse fatto niente per limitare almeno tanto massacro.
Giani sapeva che rispetto ai 12.521 uomini in forza alla Sforzesca al 1º luglio 1942, al 1º gennaio 1943 erano stati rilevati 4.802 uomini - con una percentuale di perdite per la divisione pari al 64%. Riteneva solo di essere stato fortunato per esser potuto tornare a casa.
Aveva visto migliaia di soldati distesi sulla neve dormire per sempre con il termometro che scendeva fino ai 40 gradi sottozero e quelli che tagliavano a strisce le coperte per scaldarsi i piedi all’orlo del congelamento. (Nuto Ravelli, La ritirata di Russia, 1961, 289).
Nicheto era troppo piccolo per capire, ma avendo sentito parlare di guerra come tutti i bambini che giocavano con i soldatini voleva sapere com’era la guerra davvero e chiedeva con insistenza a Giani che gli raccontasse delle battaglie cui aveva partecipato.
Non capiva che le guerre che Giani e i suoi commilitoni avevano combattuto erano quelle contro il gelo, la fame, la paura dell’inseguitore, il timore di essere braccati in condizioni di inferiorità.
L’unica possibilità era la fuga. Erano degli invasori, certo, ma poi erano diventati solo dei soldati in fuga, in balia di un nemico che li voleva distruggere perché avevano invaso la sacra terra di Russia.

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