lunedì 18 settembre 2017

Foglio matricolare 9/2107 Parte IV

Montecatini


Dopo la vacanza a Levico Giani diventava ogni giorno più stanco.
Lui continua ad andare al lavoro.
Era un artista del gelato.
Osserva con amore la crema prendere forma, mentre la pala meccanica della macchina rimestava gli ingredienti: latte, zucchero e uova in grossi bidoni; poi effettuava un prelievo con una paletta e ne controllava la consistenza.
Nicheto lo vedeva triste e cercava di andare più spesso in gelateria finito il dopo scuola.
Non era brillante a scuola Nicheto perché lo avevano mandato alla primina e non aveva frequentato l’asilo.
Per questo aveva preso cinque in italiano dalla madre Teodosia ed aveva frignato non poco perché era certo che Giani sicuramente non sarebbe stato contento.
Temeva che la malattia si sarebbe aggravata per il dispiacere.
Giani non se la era presa molto pensando che ci sarebbe stato posto in gelateria anche per un illetterato.
Nicheto stava lì ad attendere seduto, intento a leccare un cono di crema appena fatta.
“Magna ancora che xe bon, sta solo atento a no sciopar.” diceva Giani sorridendo a quel divoratore di gelati.
Nicheto aspettava che lavorazione fosse finita per consegnare il gelato ai ristoranti della città con ‘aiuto del Marsian.

Giani continuava a lavorare mentre la malattia lo divorava, aveva un sorriso triste, ma non si lamentava; lui parlava, mentre affondava la paletta per prendere un campione del gelato dalla macchina, del progetto di una vacanza a Montecatini con la Cetta.
Bisognava partire prima di Pasqua perché lui doveva lavorare durante i giorni di festa e di vacanza per gli altri.
I medici affermavano che la cura delle acque avrebbe potuto giovargli.
Nicheto non intuiva il dramma che stava vivendo Giani che sapeva di partire per la sua ultima vacanza con le persone che amava e che fra poco doveva lasciare per un lungo viaggio senza ritorno.
Solo la fede in Dio e la fiducia nella Bice e Donato, cui sapeva di potere affidare la sua famigliola, poteva fargli affrontare il futuro con serenità.
Avvisata suor Teodosia assicurava Nicheto:
“Basta fare i compiti che ti assegno.” aveva detto “Divertiti con i tuoi genitori.”
Nicheto non immaginava proprio che un destino crudele voleva che questa fosse l’ultima vacanza da trascorrere con Giani.
Certamente Giani non poteva pensare che la cura delle acque proposta dai medici potesse risolvere i suoi problemi di salute.
Giani non si fidava più di guidare, aveva venduto persino la Balila per cui avevano preso il treno per raggiungere di Montecatini.
Giunti alla stazione Giani aveva deciso di fare un giro in carrozzella per cercare un albergo.
Non avevano fatto prenotazioni da Venezia; perché Montecatini era una stazione termale piena di alberghi, ma erano tutti occupati.
Avevano pernottato in un Albergo lussuoso.
I camerieri avevano una divisa splendente, erano saliti su di uno scalone imponente, regale. Le camere erano ampie e spaziose.
Il servizio era eccellente, ma Giani fatti rapidamente i conti aveva deciso che il giorno seguente bisognava trovare un altro Hotel o i giorni di vacanza si sarebbero drasticamente ridotti.
Giani aveva scelto un albergo un po’ più modesto, ma altrettanto confortevole.
Nicheto era molto contento perché vi alloggiava un intero corpo di ballo che faceva spettacoli nella cittadina termale.
A Montecatini c’era un teatro dove rappresentavano tutte le sere l’operetta con cantanti e ballerini.
Nicheto aveva garantito alle ballerine la sua presenza ad applaudire allo spettacolo.
Nicheto era contento di stare finalmente tutto il giorno con suo padre.
E’ bello stare con lui in vacanza senza l’assillo del lavoro e della scuola.
Giani aveva sempre una idea nuova per passare il tempo facendo cose piacevoli, non c’era un minuto vuoto nel programma che realizzava per l’indomani.
Era una fortuna che i medici lo avessero mandato a fare la cura delle acque a Montecatini.
Passata la mattina alle Terme per la cura, il pomeriggio Giani si inventava sempre qualcosa.
Lo stabilimento termale era alla sommità di una collina.
C’era un gran via vai di persone, tutti molto eleganti, non c’erano molti bambini, ma Nicheto non ci faceva molto caso perché era contento di stare con suo padre.
La vacanza cementava i rapporti.
Vivere insieme tutto il giorno senza avere impegni di lavoro o di scuola dava la possibilità di raccontarsi di stringere di più il legame con le persone care.
Le verdi colline che circondavano la città davano una sensazione di quiete e di benessere.
Con il torpedone erano andati a fare una scampagnata a Collodi.
Nicheto raccontava la storia di Pinocchio a Giani assicurava di non conoscerla e si fingeva interessato alle avventure del burattino.
Giocavano a chi trovava per primo la strada di uscita del labirinto nella Villa.
Nicheto aveva avuto un attimo di incertezza, ma Giani lo aveva rassicurato e gli aveva fatto trovare la strada per uscire.
La felicità sembrava lì a portata di mano vicinissima eppure così lontana per quella stupida circostanza della malattia.
Nicheto passava delle ore sperperando una fortuna nella sala giochi del casino di Montecatini raccogliendo i punti delle vincite alle varie partite con quelle macchinette mangia soldi.
Come premio di un pomeriggio intenso aveva ottenuto una bambolina di pezza vestita col costume tipico siciliano che sarebbe stata collocata poi al centro del salotto di casa a ricordo di una vacanza felice.
Alla sera c’era il caffè concerto.
Nicheto si divertiva ad ascoltare “Signorinella pallida.”.
Il cantante era bravissimo nell’interpretare questa storia così romantica.
Lui accompagnava da consumato attore la triste storia d’amore con dolci movimenti delle mani suadenti come la sua voce.
Il pubblico applaudiva calorosamente.
Gianni chiedeva sempre tutte le sere al cantante di interpretare questa canzone perché faceva piacere alla Cetta.
La Cetta seguiva e si divertiva, ma parlava poco e non commentava mai la malattia di Gianni, la ignorava.
“Podemo fermarse ancora papà xe beo star qua tuti insieme.” aveva detto Nicheto per scongiurare la imminente partenza già decisa.
Non si poteva fare durare la felicità più del breve spazio di tempo che ti era concesso?
No la vita doveva fare il suo corso.
Gli impegni di lavoro e quelli scolastici duravano molto, i momenti di intensa felicità volavano in un attimo.
“Dovemo tornar, ma femo un’altra bea vacanza vero Nicheto” Giani rassicurava Nicheto e la Cetta che avrebbero potuto trascorrere insieme altri momenti di serenità.





Carnevale veneziano


Giani amava lavorare al salone delle feste di Cà Giustiniani perché lo trovava veramente regale.
Lui curava il servizio di ristorazione.
Il martedì grasso organizzava una grande festa in maschera per bambini: “Vien anca ti, ti pol magnar fritole in quantità.” gli aveva detto a quel golosone di Nicheto che non se lo aveva fatto ripetere due volte.
Giani attorniato da uno stuolo di camerieri era indaffaratissimo dietro un tavolone imbandito che offriva ogni ben di Dio.
Damine e paggi in costumi veneziani settecenteschi sfilavano con maghi, Zorro, streghe, orsi, leoni e personaggi dei cartoni animati per vincere il concorso.
Applausi, risate urli e strepiti di ogni sorta accompagnavano la loro sfilata.
La claque era scatenata.
Fratelli, sorelle, genitori e parenti tutti si erano radunati e si impegnavano al massimo per far vincere i propri beniamini.
Nichetto non aveva avuto il coraggio di salire sul palco. Il suo vestito datato era stato oggetto di un difficile quanto ingegnoso lavoro per allungarlo e allargarlo perché Nichetto era in crescita.
Lui si sentiva un po' stretto in quella casacca da indiano; era solo soddisfatto del copricapo di piume colorate e del tomahawk che gli davano una certa autorità.
La Cetta ci aveva lavorato sodo ed era soddisfatta della sua opera Nichetto un po' meno.
Nichetto inoltre non aveva capito bene che Gianni avrebbe dovuto lavorare tutto il tempo.
Lui avrebbe voluto trascorrere una parte della serata almeno con lui, mangiare, ricordare le vacanze di Montecatini, parlare della madre Teodosia.
La madre era rimasta molto soddisfatta del Crocifisso nuovo che Gianni aveva comprato in sostituzione di quello vecchio caduto a pezzi solo per le insistenze di Nichetto.
Lo scolaro voleva fare bella figura nel dimostrare la devozione del genitore, Giani, invece avrebbe risparmiato volentieri quei soldi.
Pazienza ne avrebbero parlato a casa a cena, perché a mezzogiorno Nichetto mangiava a scuola dalle suore di San Giuseppe dato che si fermava al doposcuola per fare i compiti.
Quello che a Nichetto dispiaceva e che stava poco un suo padre lo vedeva poco la sera perché lui tornava dopo una cena veloce al bar a lavorare e c'era sempre poco tempo per stare insieme.
Gianni in quei scarsi momenti non parlava molto vinto dalla stanchezza ed erano Nichetto e la Cetta a raccontare le cose normali tutti i giorni.



L’Ospedale al Mare


A settembre la Cetta e Nicheto erano andati a trovare la zia Andreina, la sorella più giovane della Roma.
 “Come sta Giani.”
Si era informata la zia non nascondendo la sua preoccupazione.
“Come al solito. Speremo ben.”
Sospirava la Cetta.
Nichetto ascoltava ma non comprendeva appieno la gravità della malattia che costringeva Giani a frequenti ricoveri.
Lui quando tornava a casa diceva che non era nulla di grave.
Giani assicurava sempre i suoi che dopo quel ricovero si sarebbe rimesso e sarebbe stato finalmente bene.
Giani però era sempre più stanco, i ricoveri si facevano più frequenti.
Non andava più alla Casa di cura, aveva finalmente trovato un professore dell’Ospedale al Mare del Lido che aveva diagnosticato la sua malattia.
Quando però era riuscito a trovare l’origine del male aveva nello stesso tempo perduto anche le residue speranze: si trattava di un linfogranuloma maligno.
A questo punto si era arreso, non combatteva più.
Nichetto non riusciva a capire.
Se era stata scoperta la malattia dovevano essere tutti più contenti. Perché invece erano tutti i più tristi?
Bepi, i camerieri, Tony sbrega boche, el marzian, Zerbetto, el gobo lo zio Pasquale avevano tutti un'espressione molto triste.
Se ci fosse stato il nonno Nicola, forse sì che lui avrebbe trovato un rimedio invece se ne era andato qualche anno prima. Nichetto non se n'era nemmeno accorta di questa tragica scomparsa.
Il nonno si era messo a letto per una influenza e non si era più rialzato.
Poi gli avevano detto che il nonno era andato via per sempre e che l’avrebbe rivisto in cielo.
Nicheto non aveva capito che quella era la morte perché non aveva notato nessuna sofferenza nel volto di Nicola, che se ne era andato via serenamente senza quasi soffrire, mentre notava sempre il sorriso triste sul viso di Gianni.
L’Ospedale al Mare si affacciava sulla spiaggia del Lido.
Arrivarci da Venezia era un viaggio.
Da Rialto l’itinerario più veloce prevedeva l’imbarco da Piazza S. Marco, di fronte alle Carceri di Palazzo Ducale, sulla motonave veloce – el bateo grando - che portava al Lido.
La motonave attraccava al piazzale di S. Maria Elisabetta; da lì bisognava salire sull’autobus che ti portava all’Ospedale.
Nicheto era andato a trovare Giani con lo zio Donato.
Se non fosse stato per tutte quelle persone in camice bianco non si aveva neppure l’impressione di essere in un ospedale.
I reparti erano immersi nel verde del Lido: sembrava di essere in una delle colonie marine affacciate sul mare agli Alberoni.
A vederlo da lontano quel luogo pareva un centro di vacanza non di malattia.
Stranamente pur essendoci una spiaggia lunghissima non c’erano bambini a giocare sulla sabbia, ma persone di tutte le età che cercavano di recuperare il bene più prezioso.
Il sole e l’aria marina erano medicine portentose per ridarti la salute.
Il sole portava calore, la brezza marina energia.
Questo straordinario cocktail faceva venire voglia di vivere anche a chi stava lottando con sofferenza contro la malattia e gli passava la voglia di farla finita.
I malati in via di guarigione trascorrevano la loro convalescenza sulla spiaggia.
Sembrava che stessero trascorrendo una piacevole vacanza.
“Co ti sta megio ti va anca ti in spiaggia”.
Diceva Nicheto a Giani che faceva finta di crederci.
La bellezza dell’ambiente marino cercava invano di mascherare il dolore.
Giani era molto pallido, appariva dimagrito e stanco.
Giani non aveva paura della morte. L'aveva vista in faccia tante volte nella ritirata di Russia aveva visto il terrore negli occhi dei suoi commilitoni che non poteva far salire sul camion perché era già colmo.
Non aveva paura per lui ma aveva paura per Nicheto e per la la Cetta. Lei era una persona emotivamente instabile, una brava donna di casa, ma gestire una famiglia e dare un futuro a Nicheto era un’altra questione.
Per cui Giani preferivano parlare con loro, nei pochi giorni che pensava gli rimanessero, rassicurandoli dicendo che la sua non era una malattia grave e che sarebbero andati insieme ancora in vacanza Montecatini.
Nichetto era un bambino intelligente aveva capito che c'era qualcosa che non andava, ma preferiva come lo struzzo mettere la testa sotto la sabbia ed aspettare gli eventi.
Era contento della sua vita si trovava bene alle elementari, stava bene con gli amici del Campo San Polo, con la Cetta, con la zia Bice, con lo zio Donato, viveva una infanzia che poteva essere quasi felice.
“Ciao come va Nicheto” lo aveva salutato Giani come se spostando l’attenzione sul bambino, sulle cose che faceva, sulla scuola, sui giochi, sulla vita banale ma tranquilla di tutti i giorni, avesse potuto per un momento esorcizzare dolore e preoccupazioni.
“Varda che bela zornada che xe ancuo, se ti sta megio ti pol andar anche ti in spiaggia, te compagno mi” Nicheto indicava a Giani i degenti meno gravi che venivano accompagnati in riva al mare dai parenti.
Sembra quasi, a guardarli da lontano dalle finestre del reparto di medicina, che i malati fossero degli allegri gitanti che si deliziassero del sole tiepido di fine settembre.
“Sì, sì la prosima volta femo cussì” diceva Giani nel tentativo di illudere Nicheto con questa speranza di guarigione.
Nello stesso istante di nascosto sussurra alla la zia Bice: “Te afido Nicheto e la Ceta.”
Queste erano state le sue ultime parole.
Lo zio Donato che era un burbero era uscito dalla stanza per nascondere una lacrima.
Solo Nicheto che si ostinava a non capire restava lì a fare gli ultimi progetti di una guarigione cui non credeva più nessuno.
Era arrivato il medico di turno chiamato dall’infermiera per una difficoltà respiratoria. Gli infermieri avevano fatto uscire Nicheto dicendo che dovevano portare una bombola di ossigeno ma che non era niente di grave, avevano invitato tutti i parenti a tornare a casa che tutto era sotto controllo.
Giani era morto quella notte.
Il linfogranuloma maligno non aveva, come suo costume, perdonato.


San Michele


Nicheto non aveva mai visto la chiesa di San Silvestro così stracolma di gente.
Persone dappertutto dentro e fuori della chiesa.
Individui che la famiglia di Giani non aveva mai visto prima.
Forse quella partecipazione allo strazio dei familiari significava che Giani era stato molto amato o forse c’era solo una grande curiosità di vedere una famiglia distrutta dalla morte del suo pater in così giovane età.
Nicheto non aveva ben chiaro se la gente, che lui non conosceva, venisse al funerale per farsi vedere, per curiosare o per partecipare al dolore di chi ha perduto irrimediabilmente una persona cara.
Quel giorno la commozione era scritta nei volti di tutti i presenti alla cerimonia funebre, non si sentiva nessuno fiatare.
Il silenzio all’interno della chiesa era rotto da qualche singhiozzo.
Sentendo piangere Nicheto, che si sentiva un uomo, non riuscì a trattenere qualche lacrimuccia da femminuccia e se ne vergognò.
Fuori c’era una giornata di sole.
Nicheto era troppo piccolo per portare la bara e aveva seguito il feretro in prima fila accompagnato dagli occhi interroganti dei suoi amici dell’Oratorio cui aveva fatto un cenno di saluto. 
Non avevano mai visto prima la morte del padre di uno di loro e se ne stavano increduli e muti ad osservare.
“Ma pol morir uno cusì giovane?” sembravano chiedersi.
Gli amici del bar erano tutti in prima fila.
La zia Bice non aveva fatto andare al cimitero Nicheto, la Cetta non aveva avuto cuore di seguire la cerimonia ed era rimasta a casa.
Cice che era il secondo figlio di Leonardo aveva  preso con lui Nicheto per distrarlo da questa disgrazia.
Lui aveva due figli di poco più grandi di Nicheto che gli avevano fatto scudo nascondendo le sue lacrime.
Nicheto era andato via con loro, ma il suo cuore aveva seguito il feretro di Giani.
La cerimonia del funerale a Venezia era meno triste che negli altri comuni di terraferma.
Andare a fare una gita in motoscafo era un avvenimento per la gente normale perché il motoscafo a Venezia lo usavano solo i signori.
L’ultimo viaggio terreno era accompagnato da un corteo di motoscafi privati che portavano la salma ed i parenti a San Michele.
L’isola della laguna di fronte alle Fondamenta Nove si poteva raggiungere solo con la barca.
I veneziani andavano in motoscafo solo quando si sposavano e quando dovevano raggiungere l’ultima dimora.
Andare in motoscafo era comunque una piacevole festa.
Solcare le acque calme della Laguna seguendo i canali segnati dalle bricole che indicavano le seche mette allegria anche se la flotta di barche era destinata ad accompagnare una cerimonia funebre.
Non poteva essere triste una gita in barca anche se la destinazione era San Michele.
L’isola era il posto ideale per riposare in santa pace.
Nicheto la conosceva bene perché tutti gli anni andava il due novembre a portare i fiori al nonno Nicola alla nonna Graziella al nonno Angelo e alla nonna Roma.
I viali alberati gli davano un senso di quiete.
Il silenzio, che l’isolamento dalla terraferma accentua-va, faceva parte di un altro mondo che gli piaceva perché gli dava un senso di pace.
Nicheto aveva deciso che la laguna era la sentinella più indicata per fare da guardia all’ultimo riposo di Giani e che sarebbe andato a trovarlo il giorno dopo.



Foglio matricolare 9/2107 Parte III

Sbandato.


Nel marzo 1943 la "Sforzesca" era stata fatta rimpatriare e nel mese di aprile era stata sciolta.
A cosa era servita la sua discesa in campo?
Al fatto che il duce potesse essere presente al tavolo nel grande gioco dei potenti per contare di più e dove il numero dei morti era solo statistica.
Purtroppo le cose erano andate diversamente: non si era conquistato niente se non una ritirata e troppi morti.
Nel marzo 43 Giani era passato in forza al 21° reggimento battaglione Trieste in Piacenza.
Quelli erano giorni complicati.
L'otto settembre 1943 è stato uno dei soliti giorni di guerra.
Quello stesso pomeriggio il maresciallo Badoglio aveva annunciato improvvisamente da Via Asiago l'armistizio.
Solo i grandi capi sapevano quello che stava succedendo.
L'Italia udita la notizia, per un attimo, si era illusa che la guerra fosse finita davvero.
Un dubbio si era insinuato subito nella mente di Giani e dei suoi commilitoni.
I tedeschi? Cosa avrebbero fatto i tedeschi?
Difficile che rimanessero immobili a guardare senza prendere delle iniziative contro gli ex alleati.
Li aveva conosciuti i tedeschi sul fronte russo, sapeva che non mollavano mai fino alla fine e che volevano vincere da soli.
Loro non conoscevano alleati, ma solo subordinati.
Al 21° reggimento battaglione Trieste di Piacenza gli ufficiali e la truppa aspettavano ordini che non sarebbero mai arrivati.
Improvvisamente i carri armati tedeschi si erano presentati davanti alle caserme.
I tedeschi erano in assetto di guerra. Si erano piazzati nei punti strategici con le tute mimetiche, i mitra alla mano e le bombe infilate negli stivali.
Non c’era proprio da scherzare.
Chi aveva in caserma un vestito borghese era il più avvantaggiato. Lo indossava, si calava da una delle finestre degli uffici ed era libero di tentare di nascondersi o di raggiungere la propria casa dandosi alla macchia.
Giani aspettava l’occasione adatta.
La fuga dalla caserma fu una delle poche cose che aveva raccontato: “Gli amighi da fora ne dava i vestiti e noialtri scampavamo.”
Scappavano per le finestre delle cantine o degli uffici, sicché le fughe dei commilitoni continuavano a ritmo ininterrotto; tanto più che si era sparsa la voce di treni piombati pieni di militari, che partivano in direzione di Verona e forse del Brennero. I tedeschi, avevano fatto frequenti appelli dei militari italiani ed avevano avuto la certezza che il reggimento si stava sfaldando.
Gli ex alleati avevano individuato le probabili vie di fuga seguite dai fuggiaschi e avevano messo sentinelle armate all'entrata delle cantine e degli uffici.
Giani aveva trovato il modo di fuggire dalla parte dei tetti attraverso la soffitta.
Con un commilitone che si chiamava pure lui Giovanni e veniva da Rovereto era andato in soffitta e era salito sui tetti attraverso un abbaino. Quindi, quasi ventre a terra per non farsi scorgere dal basso, aveva cominciato a scendere. Arrivato in strada aveva trovato una porta chiusa.
A forza di bussare e strepitare, i vicini gli avevano aperto.
Non intendevano essere coinvolti in un’operazione che essi ritenevano troppo rischiosa e si erano lasciati convincere anche perché erano di origine trentina come il suo commilitone. I fuggiaschi avevano ottenuto qualche indumento estivo e quindi erano usciti da una porta secondaria: Erano liberi!
Si erano allontanati con molta prudenza per evitare le ronde fino alla stazione.
Il re, il principe Umberto, Badoglio, Ambrosio, Roatta, i generali si erano già messi al sicuro fuggendo verso Pescara: loro oramai non correvano nessun pericolo.
Per non ostacolare la loro fuga ingloriosa non avevano tenuto nessun contatto con gli ufficiali e la truppa abbandonandoli alla vendetta dei tedeschi.
Giani non aveva avuto dubbi sul da farsi.
Circolava la notizia che le prime colonne di soldati catturati dalla Wehrmacht erano state avviate alle stazioni ferroviarie con destinazione i lager tedeschi.
Lui, dopo aver buttato la divisa, aveva seguito l’istinto fuggendo in treno verso casa.
A Venezia poteva forse trovare rifugio aspettando tempi migliori.
L’unico problema era evitare i controlli della Wehrmacht che era stata spiegata a rastrellare i fuggiaschi.
I capi politici e militari italiani avevano ingannato, sorpreso e abbandonato i loro soldati dopo averli mandati a fare la guerra in condizioni tragiche.
Oltre agli equipaggiamenti e alle munizioni erano mancati persino gli ordini.
Pochi capi avevano pagato di persona per il senso dell’onore.
Per i vertici l'otto settembre era un gioco di inganni, di opportunismi, di irresponsabilità e di paura: una nera pagina di storia. Per i gregari era inevitabile lo sfascio.
Le gesta di Badoglio sono state immortalate nella loro disumana debolezza nella Badoglieide di Nuto Revelli che Giani cantava dopo la fine della guerra:
“Ti ricordi la fuga ingloriosa 
con il re, verso terre sicure?
Siete proprio due sporche figure
meritate la fucilazion.”
Era una classe dirigente strana quella di quel periodo (o è un requisito comune di chi comanda quello di nascondersi nel momento cruciale quando occorre veramente avere una guida?).
Salvo rare eccezioni chi aveva un posto di responsabilità era scappato. I capi avevano rinunciato a stare lì in prima linea quando le cose sono diventate difficili.
Si erano presi gli onori e gli oneri li avevano lasciati agli altri, ai comuni mortali, a quelli che si erano già presi i disagi di una guerra che avrebbero fatto a meno di combattere.  
Erano però pronti a ritornare a riprendersi ingiustamente i loro privilegi.
Giani nella retorica ufficiale si “sbandava” a seguito degli eventi succeduti all’armistizio del 9 settembre 1943 e conseguentemente venne conseguentemente denunciato al Tribunale speciale di guerra per non avere risposto al richiamo alle armi.
Tre sere dopo la radio annunziava la liberazione di Mussolini ad opera di paracadutisti tedeschi.
L’Italia era destinata a spaccarsi in due la situazione si stava facendo sempre più confusa.
Cosa aveva fatto Giani dopo l’otto settembre?
Sicuramente non era andato con i repubblichini, sicuramente non era andato con i partigiani.
Come tanti italiani si era eclissato confidando che la notte buia doveva prima o poi passare.
Faceva parte di quella categoria di persone che, dietro gli uomini che rischiavano la vita nella lotta quotidiana contro i tedeschi ed i fascisti, costituiva una seconda linea, estesa quanto il paese che provvedeva a sostenere, finanziare e curare tutti coloro che avevano partecipato alla lotta di liberazione. (Gaetano Salvemini, Scritti sul fascismo, 1966).
Non faceva parte di organizzazioni, gruppi sensibili al richiamo della resistenza. All’inizio dopo l’otto settembre i “ribelli” erano poche migliaia di persone che non costituivano una forza militare, privi com’erano di un comando unificato, di direttive e di una strategia. (Indro Montanelli, Storia d’Italia, 9, 2004, 58). 
Era lì a Venezia e se ne stava nascosto, per paura che succedesse qualcosa se ne stava lontano anche dalla ragazza mora, la figlia di Nicola.
Non si faceva vedere né alla bottega di biadaiolo, che era stata di suo padre, né al Bar Florida.
Lì c’era Bepi, suo fratello, che era riuscito a non partire militare perché era di qualche anno più vecchio ed ebbe una gran fortuna a non essere arruolato nella riserva.
Lui stava dietro le quinte cercando di dare una mano come poteva alla sua famiglia, cercando di nascondersi per non finire in un campo di concentramento in Germania.
Gli alleati erano sbarcati ad Anzio il 22 gennaio 44.
Nel giugno 44 i tedeschi avevano ancora il controllo di Roma. 


La liberazione.


Il 25 aprile del 1945 dopo la resa della Germania Giani era uscito finalmente fuori all’aria libera che aveva un profumo particolare. Lui non aveva apprezzato mai così tanto l’odore di salmastro che saliva dal Canal Grande e si era messo a ballare come un forsennato per le calli e le piazze di Venezia per tutto il giorno e per tutta la notte.
Il giorno seguente di buon’ora era ritornato a lavorare al Bar Florida.
Si era messo alla macchina del gelato e aveva inventato un gelato tricolore bianco, rosso e verde usando per la prima e unica volta i coloranti.
Distribuiva il gelato alla folla degli amici, clienti e passanti che cantavano ed inneggiavano alla fine della guerra.
Giani aveva le lacrime agli occhi per le immagini di tanti morti e di tante fatiche che gli passavano veloci nella mente.
Aveva perso una guerra che tutto sommato non era la sua guerra, era una guerra di conquista che per lui non aveva avuto alcun senso.
Ora aveva solo voglia di ricominciare a vivere.






La Cetta


Giani si sposò nel 1945 con la Cetta, la ragazza mora, dell’Osteria La Madonna.
Le figlie di Nicola Bice e Cetta non scendevano mai dalla loro abitazione posta al secondo piano dello stesso fabbricato perché non stava bene che due signorine frequentassero un locale pubblico, così avevano perso l’occasione di occuparsi degli affari di famiglia. A loro avrebbero pensato i futuri mariti.
La Bice era piccolina morettina aveva l’aria sveglia e conservava un librettino dove appuntava i fatti o le sensazioni della giornata; era la più intellettuale delle due anche se la sua educazione si era fermata alle medie inferiori.
Nicola, infatti come era uso, pensava che non servisse che le ragazze studiassero.
Le Cetta era una ragazza mora di altezza normale; capelli neri corvini, gli occhi grandi marrone scuro amava legger le riviste di moda, aveva l’hobby dei vestiti che si confezionava personalmente.
Era una casalinga in cerca di marito secondo le più pure tradizioni del Sud per cui accettò volentieri la proposta di matrimonio di un pugliese ben noto in famiglia. 
Due anni dopo il matrimonio con la Cetta Giani aveva avuto un figlio che secondo la tradizione di famiglia era stato chiamato Nicola, famigliarmente Nicheto, come il nonno materno.



Gli amici del Florida bar


Gli amici del Florida bar ritenevano Giani molto fortunato perché aveva iniziato una interessante attività economica, perché aveva sposato la figlia di Nicola e perché stava per avere un bambino.
Questo a Venezia di diceva “ciamar la nera”.
L’invidiare qualcuno perché aveva gli affari che gli giravano bene voleva dire chiamargli la sfortuna o quanto meno una sorte peggiore.
La peggior sorte era in agguato e non si fece attendere per molto.
Nichetto spesso scendeva sulla Riva del Vin con il nonno Nicola che era orgoglioso del suo nipotino.
Al nonno piaceva tenerselo in braccio e mostrarlo tronfio ai suoi cugini e agli amici che passavano a salutare.
Nichetto aveva cominciato a frequentare il bar fin da piccolissimo.
I camerieri lo vezzeggiavano chiamandolo el paronsin.
A lui non piaceva che lo chiamassero così perché non voleva sentirsi diverso dagli altri e soprattutto non voleva sentirsi invidiato.
I camerieri erano dei personaggi unici rappresentanti di quella Venezia popolare viva e vera che amava profondamente la propria città.
Agonia aveva un atteggiamento triste ma solo apparentemente perché era molto simpatico. Lui si era comprato per primo fra i conoscenti che frequentavano il Florida Bar la televisione in bianco e nero.
Nichetto andava con la Cetta a casa sua per vedere il programma lascia o raddoppia di Mike Bongiorno.
Il bello era che nessuno degli spettatori riusciva a rispondere alle domande troppo complicate, ma tutti si divertivano ed applaudivano i concorrenti che erano in grado di rispondere.
Tony sbrega boche era un tipo un po' spaccone che riteneva sicuramente di essere un palmo superiore agli altri.
Un po' spavaldo, sempre abbronzatissimo e sicuro di sé vantava le sue conquiste e inanellava le sue morose nelle collane infinite dei suoi amori.
El Marsian era il più giovane del gruppo. Magro con una faccia ossuta che dimostrava più anni di quanti in verità ne avesse era il figlio di un altro vecchio cameriere. Era addetto ai lavori più umili: doveva spazzare il pavimento del bar e portare in giro su di un carretto i bidoni di gelato nei vari ristoranti della città.
Nichetto lo accompagnava ma la fatica più grossa la faceva el Marsian.
El Gobo veniva chiamato così per il suo difetto fisico. Lui era abituato e non ci faceva caso, se si fosse arrabbiato allora si che era divertente canzonarlo.
La Lia era la cameriera più formosa che carina.
Se ne stava sempre zitta forse perché teneva che se apriva bocca le sue parole innescassero commenti salaci cui aveva difficoltà a rispondere.
Giani lavora tutto il giorno al Florida Bar.
Produce i gelati più buoni di Rialto.
Nichetto era troppo piccolo per aiutare nel lavoro Giani, ma andava spesso al bar perché aveva un amico da sfidare a carte.
Zerbetto era un commerciante di mobili che aveva negozio proprio a fianco del bar.
Alto con gli occhi furbi e due baffetti brizzolati che ispiravano fiducia era sicuramente una persona simpatica e soprattutto sapeva giocare a carte e aveva voglia di insegnare i suoi trucchi ad un bambino che andava alle elementari.
Aveva insegnato a Nichetto la briscola e la scopa così bene che il bambinetto era più bravo a vincere le partite che a fare i pensierini che gli assegnava a scuola la madre Teodosia.
Giani parlava poco, lavorava sempre; non c’era giorno di chiusura settimanale per tutta la stagione e nell’inverno quando di turisti non ce ne erano si trovava qualche impegno per non perdere il vizio di lavorare.
L’esperienza della Russia però lo aveva provato e gli aveva lasciato dentro un male che lo tormentava.
Così comincio la trafila dei ricoveri, degli accertamenti clinici e dei consulti.
Quando non lavora si ricoverava in Ospedale.
La sofferenza provata nella campagna di guerra lo ha reso sensibile alle disgrazie altrui.
Se c’era un qualche cliente che si lamentava perché gli affari andavano male lui era il suo primo cliente della giornata.
Giani aveva comperato l’Enciclopedia del ragazzo italiano da Andrea il rappresentante di libri. “Comprime na enciclopedia Giani go bisogno de lavorar” gli continuava a ripetere.
 “Povareto”, diceva Giani, riconoscendo che aveva bisogno di fare una certa produzione anche se allora Nicheto non sapeva ancora leggere "Tanto la te serve.” così giustificava il suo buon cuore.
La stanzetta nuova l’aveva fatta costruire apposta su misura da Gusso, detto anche pialla d’oro, un mitico falegname del trevigiano.
Certo che le misure le aveva prese proprio male: il mobile di ciliegio bianco era troppo grande per essere posto sul lato corto della stanza per questo, dovendolo posizionare sul lato lungo, l’estetica era violata irrimediabilmente.
Il tavolino si era dimostrato subito traballante - le gambe dovevano essere state attaccate con un po’ di colla di dubbia qualità – e non dava l’idea di una eccessiva robustezza, tanto che non sembrava in grado neanche di sostenere un modesto sussidiario delle elementari.
 “El ciama sempre i so amighi e i lo imbrogia sempre” diceva la Felicetta.
“El xe bon” ribadiva paziente.
“El xe tre volte bon” dicevano, invece, quelli più duri di cuore.


Il Bimbo elegante


Giani aveva più facilità rapportarsi con gli adulti che con i bambini.
A lui che aveva molto sofferto era difficile staccarsi dai suoi problemi e dalle sue angosce.
Un bambino, che cosa ne sapeva un bambino, che cosa poteva dire un bambino, che problemi poteva risolvere un bambino?
Sicuramente a Giani di preoccupazioni ne passavano per la testa lui che intuiva che il suo percorso sarebbe finito tra breve.
Cosa avrebbe lasciato a Nichetto e alla Cetta?
Giani comunque si occupava dei piccoli problemi di tutti i giorni e seguiva, seppure dal lavoro, la vita di suo figlio.
In quegli anni non c'era un gran benessere.
Il guardaroba era ridotto all’essenziale si comprava poco. 
Acquisti nei negozi posti sulle Mercerie li facevano solo i signori o il ceto medio in occasioni del tutto speciali.
Le Mercerie erano il luogo preferito per il passeggio.
La Cetta per la cresima di Nicheto aveva deciso di comperare il vestito della cerimonia alle Mercerie dal “Bimbo elegante” gestito dalla signora Nella.
Avevano appena varcato la porta d’ingresso che la signora Nella piccoletta, grassottella con le guance paffute li aveva accolti con un sorriso smagliante.
Strano, aveva pensato Nicheto, non li aveva mai visti prima e sembrava che li conoscesse da sempre.
Non sapeva il ragazzino che i negozianti dovevano essere sempre gentili con i clienti se no era meglio cambiassero mestiere.
“Voria un vestito per la cresima de sto puteo” aveva chiesto la Cetta.
“Sto principe de Galles staria proprio ben a sto bel giovinoto” aveva accennato la signora Nella sventolando sotto il naso dei clienti i suoi braccialetti d’oro e facendo tintinnare gli amuleti che pendevano dal suo polso ingioiellato.
In due secondi la signora Nella aveva inquadrato i clienti e li aveva servito proprio a puntino perché quel vestito a scacchettoni grigi piaceva veramente molto.


La Balila


Unico segno di lusso della famiglia era una Balila nera.
Per Venezia possedere una automobile era un gran lusso soprattutto se non la si usava per lavoro - ma di certo non si navigava nell’oro. La macchina era usata qualche volta la domenica.
Era sempre una gran festa andare in giro con la Balila.
Uscire dall’isola attraversando il Ponte della Libertà era sempre una emozione per Nicheto.
Il Ponte correva parallelo a quello della ferrovia cui era raccordato da una banchina.
Nicheto si divertiva ad immaginare fantasiose gare con i vari treni.
“Dai accelera che lo ciapemo quel treno!” diceva entusiasta cercando di convincere Giani a vincere la gara di velocità.
“Varda la laguna e andemo pian se no i ne da na multa.” Rispondeva Giani sorridendo.
Uscire da Venezia era come abbandonare il passato, la dolcezza dei tuoi ricordi per tuffarsi in un futuro più brutto fatto di fabbriche e di uomini vestiti tutti uguali in tuta azzurrognola da lavoro.
Era questo il progresso che però spazzava via la fadiga dei contadini della terra ferma che erano allora ricompensati dal lavoro dei campi solo con qualche fetta di polenta.
Gli stabilimenti con i loro colori tendenti al grigio intristivano l’ambiente e rendevano meno invitante lasciare la Repubblica del Leone.
Giani amava andare a passeggio in macchina per la campagna veneta a fare merenda nelle osterie.
Durante la guerra era stato camionista.
Guidare per lui non era un problema.
Gli automobilisti veneti erano sempre pronti a prendere in giro i veneziani per la loro scarsa attitudine alla guida dovuta al fatto che difficilmente usavano la macchina per lavoro.
Lo stile di guida di Giani era sicuro ed impediva commenti scherzosi.
Di solito lo scopo della gita era la ricerca delle osterie.
La sua metà preferita era da “Sporco” a Treviso una vecchia locanda dove si poteva gustare sopressa, uova sode, folpeti e baccalà fritto accompagnati da un buon bicchiere di clinton.
La Balila correva veloce nel verde del Terraglio, la strada che porta da Venezia a Treviso, in mezzo a due file ininterrotte di alberi.
Era bello respirare un po’ di profumo di erba e magari fermarsi in qualche posto in campagna a vedere, in primavera, i campi che iniziano a germogliare.
Mangiando e bevendo era facile per Giani socializzazione con gli altri clienti del locale che avevano voglia di partecipare i loro racconti o le loro barzellette per passare in compagnia le ore della festa.


Levico


A marzo Giani aveva venduto la macchina perché i medici gli avevano sconsigliato di guidare visto che la salute peggiorava; per consolarsi quell'estate era andato in vacanza con la famiglia a Levico.
Per Nicheto era stato bello essere in vacanza assieme al lago.
C’era un bel fresco lontano dal caldo vento di scirocco che a Venezia faceva sudare e appiccicava i vestiti alla pelle.
La mattina si alzavano tardi e andavano in riva al lago a fare il bagno.
Nicheto aveva scoperto che l’acqua era dolce e se ne era meravigliato molto perché era abituato a fare il bagno al Lido nell’acqua salata.
C’era molta pace lungo le rive del lago dove anatre e qualche cigno si accostavano senza paura ai bagnanti in un silenzio continuo.
Allo chalet del lago c'era di sera un'orchestra che suonava.
Giani che era un eccellente ballerino ci portava la Cetta che stava seduta e lo guardava mentre lui invitava solo le ballerine più brave e roteava nel valzer con una leggerezza che contraddiceva i suoi cento chili.
Nicheto era orgoglioso di vedere Giani che divorava la pista da ballo e non perdeva un fox trot, l’ultimo ballo di moda, che cambiava sempre ballerine e che si adeguava a tutti i ritmi passando dal valzer al tango dalla beguine al rock n' roll con la massima disinvoltura.
Per Nicheto era una gioia vederlo così felice.
La Cetta era timida e non aveva voluto imparare a ballare, ma a lei piaceva stare seduta accanto alla pista a vedete i ballerini che danzavano e a sentire la musica.



Lourdes


Qualche mese prima è stato in pellegrinaggio a Lourdes.
“Xe belo Lourdes” raccontava.
“Anca se no ti guarisi te dona tanta serenità.” Pensa che ti te fa el bagno nele pisine e ti vien fora suto”
In ricordo aveva portato una effigie della Madonna in plastica di colore azzurro tenue con un gran rosario in mano che conteneva l’acqua benedetta delle piscine.
Nichetto teneva quella statuetta di plastica come una reliquia. Sembrava che la effigie gli raccontasse sempre nuovi particolari di quel viaggio.
Vedeva il fervore nella preghiera dei malati, la loro consolazione per aver partecipato alla processione e la loro speranza quando si immergevano nella fontana confidando nella guarigione. Anche se non guarivano però diceva Giani c'era un gran conforto di essere stati lì e di aver vissuto in quei luoghi.
La statuetta aveva il potere di mantenerlo in contatto con Giani rideva pensando a ciò che li faceva ridere insieme.
Sorrideva pensando a quando Giani lo aiutava a rimettere la pala del gelato e a quando prendevano in giro Zerbetto che perdeva, o faceva finta di perdere, a scopa concedendogli delle scope in maniera spudorata.
Si ricordava di quando Gianni usciva dal bar per vederlo sfrecciare sul monopattino rosso a fare il giro delle carampane: “Dai che ti bati il record!”
Gli gridava.

Foglio Matricolare 9/2017 Parte II

Florida Bar


Quando era tornato, non c'era posto per Giani nel negozio di famiglia.
La gestione non consentiva di far vivere di quel lavoro più di una famiglia e lui voleva crearne una tutta sua.
Il 27 maggio 1933 l'iscrizione al PNF era stata dichiarata requisito fondamentale per il concorso a pubblici uffici, ma Giani aveva solo la licenza elementare e non aveva possibilità di partecipare a pubblici concorsi.
Non riteneva necessario iscriversi al PNF perché in famiglia nessuno era coinvolto in attività politiche ed il loro motto era: meglio stare fuori dalla politica.
Allora si era inventato un'attività nuova sulla Riva del Vin.
C'era suo zio Felice Centofanti che aveva aperto il Florida Bar.
Il lavoro c’era e Felice aveva bisogno di altre persone che lo aiutassero.
Il bar aveva una lunga fila di tavolini lungo la Riva del Vin che, soprattutto d’estate, erano contesi dai veneziani che volevano gustarsi un buon gelato.
Fra i clienti c’erano pochi turisti.
Non esisteva il turismo di massa.
La gente era rispettosa del centro storico non urlava, non spingeva, non ciondolava in piedi per la città.
Poi c’erano i bambini, tanti bambini soprattutto d’estate venuti lì per godersi il fresco.
C’era anche un cantante che veniva quasi tutte le sere.
Il cantante si chiamava Otto.  Era un tipo un po’ strano dal fisico asciutto, per non dire ossuto, con una voce rauca e con due spesse lenti che davano l’impressione che ci vedesse poco.
Teneva attaccato al naso un foglio, che di fatto era bianco, ma lui faceva finta di leggere il testo delle canzoni che si ingegnava di cantare colla sua voce fioca.
Come cantante era pessimo ma la gente gli voleva bene. I bambini lo circondavano con allegria e raccoglievano dai genitori le monete da mettere nel suo cappello messo a terra in bella vista.
A Nicheto il cantante era molto simpatico e per attestagli la sua ammirazione si metteva a danzare al suono delle sue canzoni e tutti ridevano di questo originale teatrino.
Quello che più piaceva a Nicheto era sedersi al fresco lungo la riva affacciata sul Canal Grande per gustarsi un gianduiotto con panna.
A Giani quel lavoro di gelataio interessava ed aveva coinvolto nell’attività anche il fratello che non aveva ancora trovato lavoro.
Bepi passava le sue giornate nella stalla come simpaticamente chiamava la sala corse.
Lì, a sentire lui, era un professore. Aveva un sistema infallibile: giocava più accoppiate su di un cavallo considerato brocco così se vinceva il totalizzatore pagava una bella somma.
Non aveva mai spiegato, però, cosa capitava se il brocco non riusciva a piazzarsi fra i primi.
Giani si applicava con impegno a questo nuovo lavoro e riusciva bene perché aveva fantasia e soprattutto aveva voglia di stare lì tutto il santo giorno a lavorare.
C'erano le prime macchine per confezionare il gelato; le pale giravano vorticose.
Giani curava che l’impasto fosse soffice, senza grumi.
Produceva un gelato gustoso fatto con ingredienti genuini; le polverine non erano ancora di moda e soprattutto Giani amava i prodotti naturali.
Faceva una crema, con l'uovo e il latte, davvero speciale, ma soprattutto aveva realizzato delle cassate alla siciliana che tutti dicevano fossero squisite.
La sua specialità erano le torte gelato.
Riusciva con la sua inventiva a creare un prodotto interessante dove i gusti più semplici, crema e cioccolato si legavano alla perfezione abbinati alle ciliegine all’alchermes di sua invenzione che erano una delizia per il palato.
I gelati di sua produzione in poco tempo erano diventati famosi e andavano a ruba tra tutti i ristoratori nelle vicinanze di Rialto; l'attività si espandeva.
Le cose andavano bene tanto che Giani pensava già di mettere su famiglia.


L’oste della Madonna


Giani aveva conosciuto una ragazza mora, figlia di Nicola l’oste della Madonna, che era una trattoria in Calle dei Cinque.
Nicola era nato 5.10.1871 a Trani, una bella cittadina dominata da un Duomo di pietra bianca affacciato sul mare.
Nicola si era sposato con Graziella Di Meo più giovane di lui, essendo nata il 24.101880, nella stessa ridente cittadina della Puglia. Poi i due si erano stabiliti a Venezia.    
Nicola era un uomo di statura normale con due baffetti bianchi che ispiravano simpatia lui mesceva il vino, mentre sua moglie Graziella stava seduta alla cassa per tutto il tempo e non le sfuggiva neppure una liretta.
Era una perfetta matrona. Faccia rotonda capelli neri con parecchi fili bianchi raccolti a crocchia sulla nuca aveva l’aria di non lasciare scappare nulla.
Tutto era sotto controllo.
Nicola e Graziella lavoravano tutto il santo giorno, ogni tanto si vedevano con i parenti naturalmente tutti tranesi.
Non vi era molta integrazione tra tranesi e veneziani: le persone si vedevano soprattutto con i propri paesani.
Tutti i tranesi si trovavano a Natale per una tombola in allegria.
C’era il fratello Leonardo Di Marzo che era sposato con la zia Francesca. Avevano una osteria in Calle Casseleria, che era una calle strettissima nei pressi di San Marco.
Abitavano sopra l’osteria in un appartamento molto grande cui si accadeva per una scala tutta in piedi con delle alzate giganti senza pianerottoli. Quando Nicheto andava a trovarli con la Cetta e giungeva in cima al secondo piano aveva una sensazione di vertigine a guardare giù il portone di accesso. 
Leonardo aveva avuto due figli Nini e Felice.
Nini era un ragazzo alto ed esile sempre elegantissimo portava dei colletti inamidati staccati dalla camicia.
Al Banco di Sicilia era considerato un damerino: sembra più il direttore che il semplice cassiere che era.
Aveva sposato una professoressa di francese che si chiamava Maria Amata. La professoressa faceva sempre i complimenti a Nicheto che secondo lei aveva una ottima pronuncia per la lingua transalpina.
Cice invece era più ruspante si occupava di commercio di carbone. Girava su di una peata enorme tutta nera da dove i carbonai andavano e venivano con delle cariole atte a trasportare il coke dalla barca alle case dei clienti. Allora le stufe bruciavano legna o carbone.
La moglie Tina erra una energica veneziana doc che comandava in casa e si occupava dell’educazione del figlio Leonardo e della figlia Franca.
C’era Nicola Di Lernia nato il 6.11.1873 morto 11.5.1940 un mese prima dell’inizio del conflitto che aveva sposato Francesca Di Marzo la sorella nata 9.6.1875 morta 9.3.1955. Erano i parenti più facoltosi visto che possedevano l’albergo Universo, vicino alla stazione ferroviaria, che conducevano direttamente.
Le figlie Maria e Nineta uscivano spesso con le figlie di Nicola erano due ragazze piene di vita sempre allegre e sorridenti.
Nino il fratello maschio preferiva altre frequentazioni, dicevano che frequentasse l’Antico Martini l’unico night club della città dove conosceva tutte le ballerine. Era un comportamento scandaloso per tutti i parenti benpensanti.
Poi c’erano i cugini Savino, Felicetto, che avevano anch’essi delle osterie nella città.
Naturalmente anche loro avevano delle figlie la Nella e la Anna due belle ragazze in cerca di marito, naturalmente che fosse meridionale magari di Trani.
Poi conobbe Rino e se andò a Trani a fare la moglie.
Anche loro grandi lavoratori, dediti tutto il giorno a mescere il vino nelle scodelle che avevano preso un colore rosso scuro.
Era un commercio buono quello del vino che si consumava in grande abbondanza nella città delle ombre. I tranesi importavano il loro vino che aveva una gradazione molto alta e lo mescolavano con i vinelli più leggeri dell’estuario ricavando un prodotto molto apprezzato e a buon prezzo.
Veniva poche volte perché abitava a Bari la sorella Pasqua Di Marzo che aveva sposato Angelo Modugno che era rimasto vedovo dopo la morte della sua amata sorella Isabella.
La Pasqua era fidanzata con Antonio ma dovette su invito della famiglia accasarsi con Modugno per accudire i figli della sorella premorta: allora si usava così e lei obbedì rispettando la consuetudine.
Nicola aveva avuto due figlie Bice, la più grande e Cetta di due anni più giovane, la terza figlia Isabella era morta di spagnola.
Le ragazze non scendevano mai nei locali della trattoria perché non stava bene per due signorine occuparsi degli affari di famiglia soprattutto in una locanda.
Così si pensava allora.    
Le ragazze dovevano stare a casa.         
A Giani interessava la Cetta ed aveva incominciato a frequentarla.
Si trovavano bene insieme anche perché avevano comuni radici pugliesi.
L’aveva portata una volta a Ca’ Giustinian nella Sala delle Colonne: un tripudio di stucchi, cascate di vetri di Murano.
Aveva fatto colpo? si sarebbero visti altre volte?
La situazione internazionale, nel frattempo, peggiorava perché i venti di guerra soffiavano soprattutto al Nord in Germania.



La Seconda Guerra Mondiale. 


La seconda guerra mondiale aveva avuto inizio il 1º settembre 1939 con l'attacco della Germania nazista alla Polonia.
L’invasione era stata rapidissima.
Giani aveva appreso la notizia dalla radio alle 18.
A quell’ora aveva finito di lavorare ed aveva lasciato il laboratorio.
Lui era tranquillamente seduto al tavolino del bar vicino alla cassa dove poteva seguire meglio il movimento dei camerieri impegnati a servire i clienti che a quell’ora cominciavano a venire per gustare i suoi gelati.
Aveva capito subito che le cose sarebbero andate nel verso sbagliato.
Successivamente le forze armate tedesche avevano invaso Norvegia e Danimarca, Olanda Belgio e Lussemburgo e Francia.
Giani seguiva il succedersi degli avvenimenti sempre sperando che le cose si sarebbero risolte in fretta.
La guerra lampo promessa dal duce sembrava una realtà.
Lui non era un interventista, era un buon uomo abituato a risolvere i problemi con la persuasione e non con la violenza 
Nel maggio del 40 era stato richiamato alle armi.
In caserma, attaccato alla radio aveva capito che la situazione andava ormai verso il disastro totale dopo aver sentito il testo della dichiarazione di guerra pronunciato da Mussolini nel discorso di Palazzo Venezia il 10 giugno 1940, alle ore 18.00.
Quel momento apparentemente così tranquillo era stato scosso dalla voce del duce:
“Combattenti di terra, di mare e dell'aria! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni! Uomini e donne d'Italia, dell'Impero e del regno d'Albania! Ascoltate!
Un'ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L'ora delle decisioni irrevocabili.
La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia.”
Il 4 dicembre 40 Badoglio presentava una lettera di dimissioni e veniva sostituito dal generale Cavallero.
Cavallero aveva indubbie doti di ingegno; aveva percorso tutta la carriera dello stato maggiore.
Il generale aveva come dote l’ottimismo e Mussolini non chiedeva di meglio. (Indro Montanelli, Storie d’Italia Vol  8, 2003, 360).
Giani non seguiva gli avvenimenti che si verificavano nelle alte sfere dell’esercito.
Non era né favorevole né contrario al cambio dei vertici militari, anche se non nutriva grande stima per Badoglio.
Faceva parte della truppa di fanteria che i grandi generali consideravano senza troppi riguardi come pedine da muovere nei loro scacchieri di guerra per ottenere onori dal Duce.
Aveva capito a sue spese che il mondo si divideva fra potenti che comandavano e truppa che obbediva, se non voleva essere passata per le armi.
Era rassegnato ad un destino che sentiva di non potere neppure tentare di cambiare.
Cosa avrebbero potuto fare lui e i suoi commilitoni che non la pensavano come il Duce per fermare l’Europa che correva verso il precipizio?
Al massimo potevano prendere un sacco di bastonate o al peggio essere fucilati come disertori.
Nel settembre del 41 giunse al 121° reggimento Battaglione Motorizzato di Piacenza.
Piacenza era un luogo storico da cui era partita la seconda crociata ed il suo capitano lo ricordava spesso per galvanizzare gli uomini.
Giani e i suoi commilitoni lo guardavano senza parlare quando cercava di convincerli che la guerra doveva essere vinta per il bene della nazione, ma sentivano in cuor loro che quella non era la loro guerra.
Il 1941 era stato già fino a quel momento un anno terribile per Giani.
La Roma era morta il 21-7-1941 di tifo per avere mangiato delle cozze crude e Angelo l’aveva seguita nel triste viaggio perché aveva condiviso con lei quel piatto così gustoso.
Quel dolore per la morte di entrambi i genitori l’aveva intristito, ma doveva reagire ad una situazione di guerra e si fece forza.
Nelle retrovie Giani non stava poi tanto male aveva persino trovato l’Avila, un antico casale, sulle prime colline della val Trebbia, vicino a Piacenza dove poteva rilassarsi nei rari momenti di pausa.
Un locale nel verde adatto a festeggiare, ballare, parlare tanto da interrompere la routine della vita militare e trovare una specie di normalità.
Nel maggio del 42 era stato assegnato in forza al 17°       reggimento di artiglieria motorizzato della Sforzesca.
La caserma Cantore, lungo lo stradone Farnese, era diventata la sua nuova casa.
Giani non sapeva ancora di essere capitato in un battaglione segnato da un destino avverso, ma nella sua sfortuna aveva una qualifica che sicuramente avrebbe contribuito a salvargli la vita.
Il suo foglio matricolare attestava fra i suoi segni particolari quello di essere un autista. 
Tanto bastava a sottrarlo dalla fanteria da montagna destinata fra non molto a muoversi a piedi nell’inverno russo.
Una vera sciagura! A Giani che soffriva di mal di macchina avere quella patente era costata molta sofferenza, ma era bravo e gli piaceva guidare.
Per abituarsi alla puzza di nafta che gli dava il volta stomaco soleva tuffare il suo naso nella bocca dello scarico dei fumi della nafta.
In questa maniera, diceva, di curare il suo mal di macchina che dopo questo rimedio inconsueto gli era passato.
Non sapeva che la sua forza di volontà ed il suo amore per i motori gli sarebbe stato utile nei momenti più difficili della sua vita.


La "Sforzesca”.


La "Sforzesca" era classificata come divisione di fanteria di montagna e come tale destinata all'impiego nei settori alpini.
In realtà la dotazione di armi e mezzi era di poco differente da quella di una normale divisione di fanteria di linea ed i fanti ne avrebbero pagate le conseguenze in tutte le fasi del combattimento in cui sarebbero stati impiegati sia all’attacco sia in ritirata.
Inviata in Russia nel luglio 1942, la "Sforzesca" era stata subito impiegata sul fronte del medio Don, sostituendo la divisione "Torino" appartenente al XXXV Corpo d'Armata (ex CSIR). A comandare la ottava armata italiana il Russia ARMIR era stato designato il generale Gariboldi.
Arrivare in zona di guerra a Giani aveva fatto una strana impressione, perché non andava a difendere la patria in pericolo, ma ad aggredire un nemico pacifico.
I russi erano contadini e gente del popolo come lui.
L’armata di Gariboldi aveva agito in pianura.
La sua insufficienza di automezzi la condannava ad una staticità che sarebbe stata componente essenziale della tragedia finale.
Giani faceva parte di quella fortunata squadra dotata di mezzi da trasporto che avrebbe avuto più possibilità di cavarsela se i Russi avessero contrattaccato in forze.
Qualcuno come il generale Cavallero, eterno ottimista, sosteneva di avere risolto gli evidenti problemi della motorizzazione non dando camion alla truppa, ma portando la tappa quotidiana della fanteria da 18 a 40 chilometri.
Davvero un vero dirigente che sapeva risolvere i problemi seguendo acriticamente le direttive di chi comandava veramente senza azzardare una diversa opinione per paura di compromettere il suo curriculum militare: un perfetto carrierista.
Chi aveva una visione realistica della situazione era stato messo a tacere.
Il generale Messe, che aveva accumulato un’esperienza preziosa sulle difficoltà e sulle esigenze della guerra, aveva capito presto che i soldati italiani venivano mandati allo sbaraglio senza un equipaggiamento ed un armamento che dessero un minimo di garanzia.
Messe aveva confidato queste sue perplessità a Mussolini, ma il Duce aveva confermato che l’Italia non doveva figurare da meno di altri alleati e doveva trovarsi a fianco della Germania su quel fronte, così come la Germania affermava la sua cooperazione con l’esercito italiano in Africa
In tal modo l’Italia avrebbe tratto vantaggi e benefici maggiori dalla presenza di un corpo d’armata piuttosto che di una sola armata.
Di queste strategie a Giani e alla maggior parte della truppa non interessava molto.
“Quando se torna a casa”.  I fanti chiedevano ai loro sottufficiali che erano lì con loro a combattere in prima linea e che erano gli unici che avrebbero fatto il possibile per riportarli indietro, anche a costo della vita, a differenza di quelli dello stato maggiore.
La ragion di Stato, o meglio le pericolose motivazioni del dittatore avevano avuto il sopravvento poiché nessuno, salvo rare eccezioni, voleva contrariare il Duce ed esprimere un parere diverso dal suo.
Secondo i comandi dello Stato Maggiore l’ARMIR aveva preso posizione sulla sponda destra del Don.
L’armata doveva lanciarsi alla conquista di Stalingrado, ma a questo compito erano state destinate la 6ª e la 4ª armata tedesca. I tedeschi non volevano dividere l’onore e i privilegi della vittoria, ritenuta in un primo momento molto facile, con nessuno.
Gariboldi doveva limitarsi a presidiare il settore del nord in vista di future minacce.
Il generale aveva protestato.
Lui aveva capito perfettamente la situazione, aveva, infatti, pensato: “Se l’attacco sovietico non verrà saremo inutili e se verrà saremo troppo deboli”. (Indro Montanelli, Storie d’Italia, Vol  8, 2003, 477).
Nell’agosto dello stesso anno, i fanti della "Sforzesca" ed i resti della 3ª divisione "Celere" avevano ingaggiato durissimi combattimenti con le forze russe.
Il 20 agosto 1942 era incominciata la prima battaglia difensiva del Don e il 79° Btg. CC.NN. era stato impegnato a contenere al fianco della 2ª Divisione fanteria "Sforzesca" gli attacchi sovietici.
Il 21 agosto all'alba un nuovo attacco aveva determinato il cedimento della "Sforzesca" che aveva abbandonato le posizioni e a Margini, comandante del 79°, era stato dato l'ordine di occupare il più rapidamente possibile le posizioni abbandonate non ancora prese dal nemico per costituire dei capisaldi.
Le posizioni abbandonate dalla Sforzesca erano state rilevate dal 79º Battaglione M del seniore Silvio Margini che ne aveva protetto la ritirata.
Per fortuna che Margini aveva fatto fino in fondo il suo dovere!
Era un battaglione di camicie nere più addestrato, più equipaggiato e più motorizzato della fanteria di montagna che aveva dato il suo appoggio determinante per salvare la vita dei fanti della Sforzesca troppo poco mobili per sfuggire agli attacchi dei russi.



La Ritirata.


I fanti della "Sforzesca" erano stati costretti a ritirarsi e questo valse all'unità l'appellativo di divisione cikai ("scappa" in russo).
A Giani quell’ingiusto appellativo non andava giù. Loro avevano combattuto, avevano dato il loro contributo di sangue, cosa dovevano fare di più?
Dopo questi combattimenti la "Sforzesca" era stata spostata sulle rive del fiume Don, all'interno del settore del XXIX Corpo d'Armata tedesco e nella parte più orientale dello scacchiere italiano, a contatto con le forze rumene.
L’operazione Piccolo Saturno contro l’ottava armata italiana aveva avuto inizio a metà di dicembre 1942, quando oramai la imminente resa, consegnata il mese successivo, della sesta armata del generale Von Paulus consentiva alle truppe russe di riprendersi il resto del loro territorio
Lo schieramento dell’ARMIR vedeva allineato, da nord ovest verso sud est, il II corpo d’armata alpino con la Cosseria e la Ravenna, il XXXV con la 298ª tedesca ed il Pasubio, il XXIX con la Torino la Celere e la Sforzesca.
Giani era lì su sul suo camion ad attendere ordini. Pensava che almeno lui era al caldo nella sua cabina mentre i suoi commilitoni della fanteria erano nel gelo.
Li vedeva passare accanto al suo mezzo di trasporto che tenevano stretta la coperta che li riparava la testa e le spalle dal vento gelido, camminavano uno dietro l’altro con la testa bassa. (Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve, 1953, 62)
I reparti siberiani erano avvolti nei loro indumenti caldi e nei loro stivali confortevoli adatti a quelle temperature polari.      
La Cosseria e la Ravenna dapprima avevano resistito, ma poi la linea si era disintegrata il corpo d’armata tedesco non aveva portato in aiuto alcuna forza combattente.
Il 19 dicembre il II corpo d’armata aveva cessato di esistere. La "Sforzesca"aveva iniziato la ritirata il 19 dicembre 1942.
Il percorso seguito dalle colonne in ritirata del blocco sud, cui appartenevano le unità della "Sforzesca", fu lungo e tortuoso, in condizioni climatiche estreme e con equipaggiamento e vestiario non idonei.
Il 28 dicembre 1942 i soldati del 54º Reggimento, primi tra tutti i reparti della divisione, erano riusciti ad uscire dalla sacca.
Giani era lì a Kantemirovka con altri trecento carri pronto per uno sgombero ordinato delle truppe. L’arrivo dei carri armati russi aveva provocato il panico.
Dal finestrino del suo camion aveva visto la massa dei fuggiaschi prendere d’assalto il suo camion ed era partito miracolosamente attraversando una folla di disperati.
Aveva preso la via della ritirata raccogliendo più fuggitivi che poteva, abbandonando armamento, equipaggiamento ed ogni cosa ingombrante.  La cosa più importante era potersi rifornire di carburante, perché senza gasolio avrebbe fatto la fine dalla maggior parte dei fanti.
La massa di fuggiaschi si era dispersa. (Indro Montanello Storie d’Italia Vol. 8, 2003, 493).
La colonna maggiore in ritirata era come una biscia nera lunga una quarantina di chilometri circa due giorni di marcia.
La colonna rallentava e si ingrossava se davanti magari una decina di chilometri avvenivano scontri o combattimenti altrimenti se non vi erano ostacoli si assottigliava e marciava veloce (Egisto Corrado, La ritirata di Russia, 2009, 127).
Giani aveva la sensazione di appartenere ad un lungo serpentone di formiche che un nemico insidioso si divertiva a schiacciare senza che le povere bestioline potessero porre difesa o scappare.
Nonostante questo il corpo d’armata alpino aveva avuto un riconoscimento del suo eroismo pagato troppo a caro prezzo (Giulio Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio, 2011, 157).
Giani non aveva mai voluto parlare a Nicheto di quei giorni. Aveva visto morire troppi amici attaccati al suo camion senza potere fare di più; non voleva impressionare il suo bambino con quei ricordi.
Sapeva che di 229.000 soldati partiti per quella assurda spedizione non ne erano tornati 74.800, senza che nessuno avesse fatto niente per limitare almeno tanto massacro.
Giani sapeva che rispetto ai 12.521 uomini in forza alla Sforzesca al 1º luglio 1942, al 1º gennaio 1943 erano stati rilevati 4.802 uomini - con una percentuale di perdite per la divisione pari al 64%. Riteneva solo di essere stato fortunato per esser potuto tornare a casa.
Aveva visto migliaia di soldati distesi sulla neve dormire per sempre con il termometro che scendeva fino ai 40 gradi sottozero e quelli che tagliavano a strisce le coperte per scaldarsi i piedi all’orlo del congelamento. (Nuto Ravelli, La ritirata di Russia, 1961, 289).
Nicheto era troppo piccolo per capire, ma avendo sentito parlare di guerra come tutti i bambini che giocavano con i soldatini voleva sapere com’era la guerra davvero e chiedeva con insistenza a Giani che gli raccontasse delle battaglie cui aveva partecipato.
Non capiva che le guerre che Giani e i suoi commilitoni avevano combattuto erano quelle contro il gelo, la fame, la paura dell’inseguitore, il timore di essere braccati in condizioni di inferiorità.
L’unica possibilità era la fuga. Erano degli invasori, certo, ma poi erano diventati solo dei soldati in fuga, in balia di un nemico che li voleva distruggere perché avevano invaso la sacra terra di Russia.