venerdì 5 maggio 2017

Economia MEF. Bit Tax

Economia MEF. Bit Tax

Giorno dopo giorno la crescita vertiginosa dei colossi del web erode un pezzo dello stato sociale italiano. Schiacciate dalla feroce concorrenza su internet, le imprese tradizionali incassano sempre meno e pagano sempre meno imposte allargando una voragine scavata nelle casse dell’erario dalle multinazionali della digital economy che fatturano nei comodi paradisi fiscali i ricavi realizzati in Italia. Ma l’Italia potrebbe essere la prima a correre ai ripari con la digital tax allo studio del Parlamento.
I grandi operatori spesso pagano una quota risibile di tasse sui redditi prodotti in Italia, ma anche in altre nazioni, perché hanno allestito le loro sedi operative in paesi europei a fiscalità privilegiata come Irlanda, Olanda, Belgio e Lussemburgo i quali, in cambio degli enormi investimenti e dei posti di lavoro che vengono garantiti, hanno abbattuto la tassazione sui redditi delle imprese rinunciando a gran parte, se non addirittura in tutto al gettito fiscale prodotto da aziende che fanno miliardi in tutto il mondo. Grazie al fatto che la maggior parte delle attività avviene sul web e che questo non richiede la presenza fisica nel mercato in cui si opera, dato che si può interagire con i clienti da un paese diverso da quello in cui si trova l’azienda, queste imprese sono in grado di non ricorrere a quella che tecnicamente viene definita una «stabile organizzazione», un concetto oramai arcaico perché è legato allo stabilimento fisico.
Spesso, però, la «stabile organizzazione» c’è ma non si vede, è occulta, come dimostrano le inchieste della Procura di Milano che hanno “convinto” Apple e Google a versare al fisco, rispettivamente, 318 e 306 milioni.
Quanto vale e quanto costa tutto questo? Non ci sono dati certi sulla digital economy, ma uno studio Ocse parla di una perdita a livello mondiale di entrate fiscali tra 100 e 250 miliardi di dollari, ovvero tra il 4 e il 10% del gettito globale proveniente dalle imprese.
«Bisogna far emergere i redditi della digital economy consentendo all’Agenzia delle Entrate di accertare gli affari che questi colossi fanno in Italia», dichiara il senatore Massimo Mucchetti (Pd), presidente della Commissione Industria del Senato che ha presentato un disegno di legge introducendo la web tax
Non è l’unica iniziativa in questo campo: all’inizio dell’anno scorso, l’allora sottosegretario Enrico Zanetti annunciò che una digital tax sarebbe stata operativa a partire dal 2017, ma poi non se ne fece più niente e la questione venne accantonata dal governo Renzi, lo stesso che a metà 2016 ha nominato Commissario per il digitale il vicepresidente di Amazon Diego Piacentini; un’altra proposta presentata dall’on. Stefano Quintarelli (Scelta Civica) è all’esame della Camera e quella del collega Francesco Boccia (Pd) fu approvata e sospesa.
«La tassazione dei profitti sul web è un problema fondamentale per lo sviluppo del mondo anche perché l’economia digitale riduce sensibilmente i posti di lavoro», ha detto il procuratore di Milano Francesco Greco sentito dalla Commissione del Senato durante le audizioni collaterali all’esame del ddl Mucchetti.
Dopo Apple e Google, il suo ufficio investiga anche su Amazon contestando un’evasione da 130 milioni, e Facebook. «Hanno accettato la stabile occulta, evidentemente qualche problema ce l’hanno», ha aggiunto il magistrato. Senza interventi queste aziende continueranno a godere di «indebiti vantaggi concorrenziali» nei confronti dei
commercianti tradizionali.
Questo potrebbe portare a un aumento dalla pressione fiscale che, facendo aumentare i prezzi in Italia, paradossalmente favorirebbe ancora di più chi risiede nei paesi a fiscalità agevolata.
«Ci si dovrebbe muovere su piani diversi da quelli tradizionali», ha sostenuto Franco Gallo, presidente emerito della Corte costituzionale sulla rivista «Diritto Mercato Tecnologia» riproponendo l’idea della bit tax, si parla di 0,000001 centesimi di dollaro a bit da applicare sui dati trasmessi via internet.
Per Gallo, genererebbe «enormi introiti», potrebbe essere riscossa dai provider e «liquidata paese per paese», anche se c’è il rischio che venga scaricata sui consumatori. Un’idea che piace a Greco secondo il quale, però, deve essere certo che a versarla siano coloro che, fornendo servizi o vendendo prodotti, beneficiano delle autostrade digitali che «i cittadini già pagano lautamente».
Per decidere se una «stabile organizzazione», per quanto virtuale su internet, abbia una concretezza, il disegno di legge prevede che l’impresa che risiede all’estero debba aver svolto in Italia in sei mesi almeno 150 transazioni per un totale di un milione di euro. Il 55% degli italiani è favorevole a una qualche tassazione sui profitti realizzati via internet, ma facendo attenzione ad evitare ricadute negative sugli utenti. Indispensabile un accordo tra stati. Il governo ne parlerà la settimana prossima a Bari alla riunione dei ministri delle finanze dei paesi del G7.corriere.it.4.5.2017.
LOttimista. Sono felice che anche chi guadagna somme enormi facendo concorrenza a chi guadagna il minimo per sopravvivere debba pagare le tasse. Sperando che il legislatore sia dello stesso parere e proceda velocemente.



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