giovedì 23 marzo 2017

Gli edifici pubblici. Non applicabilità della disciplina delle distanze.

Gli edifici pubblici. Non applicabilità della disciplina delle distanze.


Per quanto riguarda gli edifici demaniali è stata superata la controversia sulla questione se siano assoggettabili o meno alla disciplina delle distanze.
La disposizione del codice civile del 1865, all’art. 556 c.c., esonerava gli edifici destinati all’uso pubblico dal rispetto delle distanze legali fra costruzioni, ponendo seri problemi interpretativi per definire l’oggetto della disposizione.
L’art. 879 c.c. precisa, invece, che l’esenzione riguarda gli edifici del demanio pubblico e  quelli di interesse storico ed artistico.

Alla comunione forzosa non sono soggetti gli edifici appartenenti al demanio pubblico e quelli soggetti allo stesso regime, né gli edifici che sono riconosciuti di interesse storico, archeologico o artistico, a norma delle leggi in materia. Il vicino non può neppure usare della facoltà concessa dall’art. 877.
Alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi  e i regolamenti che le riguardano
(Art. 879 c.c.).
 
Numerose sentenze hanno ribadito che ai beni demaniali non sono applicabili, in ragione della loro natura e funzione, le disposizioni sulle distanze.
La suddetta omissione viene interpretata come dovuta al fatto che il legislatore ha ritenuto superfluo enunciare un principio già  implicito nell’ordinamento, quale corollario dello statuto.
Un altro orientamento, invece, attribuisce detta omissione al fatto che il legislatore abbia voluto così sopprimere l’esenzione, contenuta nel codice abrogato, relativa agli edifici demaniali.
A sostegno di tale conclusione viene portato il confronto fra la decisione espressa sull’esenzione dalla comunione forzosa del muro, art. 879, 1° co., c.c. ed il silenzio sull'esenzione dal rispetto delle distanze legali.
L’art. 879 c.c. esclude esplicitamente l’applicazione delle regole in materia di distanze alle costruzioni, siano esse private o pubbliche, confinanti con strade e piazze pubbliche (Paolini 1991, 172).

Ai fini dell'art. 879, 2° co., c.c., la qualifica pubblica di una via  deve essere  intesa  nel suo stretto significato giuridico, onde tale  via fa parte del demanio non solo in quanto sia destinata da un ente territoriale autarchico con espressa o tacita manifestazione di volontà al servizio pubblico, ma in quanto altresì gli appartenga 
(Cass. civ., sez. II, 30 dicembre 1999, n. 14714, GCM, 1999, 2654).

Agli effetti dell'art. 879, 2° co., c.c., deve considerarsi pubblica la via o piazza appartenente ad un ente territoriale autarchico e da questo destinata,  con  espressa o tacita manifestazione di volontà, al servizio pubblico, ovvero la strada privata gravata da servitù di uso pubblico, acquistata per  usucapione o avente titolo in  una convenzione tra il proprietario del suolo stradale e la p.a.
(Cass. civ., sez. II, 26 maggio 1999, n. 5113, GCM, 1999, 1174).

La giurisprudenza ha esteso tale esclusione anche al caso di strade private destinate ad uso pubblico.
 
L'esonero dal rispetto delle distanze legali, previsto dall'art. 879, 2° co., c.c., per le costruzioni a confine con le piazze e vie pubbliche, va riferito anche alle costruzioni a confine delle strade di proprietà privata gravate da servitù pubbliche di passaggio, attenendo il carattere pubblico della strada - rilevante ai fini dell'applicazione della norma citata - più che alla proprietà del bene, all'uso concreto di esso da parte della collettività
(Cass. civ., sez. II, 29 agosto 1997, n. 8236, GBLT, 1998, 60).

La giurisprudenza ha affermato che una strada privata può legittimamente dirsi asservita ad uso pubblico, ai fini dell'esenzione dal rispetto delle distanze stabilite dagli artt. 873 ed 878 c.c. qualora l'uso predetto trovi titolo in una convenzione tra i proprietari del suolo stradale e l’ente pubblico, ovvero esso si sia protratto per tutto il tempo necessario all'usucapione.

La natura pubblica della strada (o dell'uso che, di essa, ne faccia la collettività) va individuata sotto profili strettamente giuridici, così che, in mancanza di specifiche convenzioni tra privati e p.a., la sua destinazione al pubblico transito deve risultare affatto inequivoca, non essendone sufficiente una mera utilizzazione da parte di soggetti, ancorché diversi dai proprietari, secondo modalità di comportamento uti singuli, e non anche uti cives, come nel caso di passaggio finalizzato all'accesso ad unità abitative, uffici o negozi ubicati su suoli privati
(Cass. civ., sez. II, 29 agosto 1998, n. 8619, GCM, 1998, 1810).

Le norme sulle distanze tra costruzioni non si applicano non solo se queste  sono separate  da una via pubblica (art. 879, 2° co., c.c.), ma anche se la via è asservita a pubblico transito, protratto per il tempo necessario ad usucapire il relativo diritto
(Cass. civ., sez. II, 10 giugno 1997, n. 5172, GCM, 1997, 952).

Le norme della disciplina sulle distanze, inoltre, richiedono il rispetto delle esigenze igieniche, alla cui tutela sono rivolte, in modo vincolante per i soggetti interessati, a prescindere se siano di natura pubblica o privata.
Sotto il profilo processuale è stata consentita la produzione documentale che provi l’uso pubblico della strada.

La diversa disciplina giuridica sotto la quale una fattispecie deve essere sussunta a seguito della sopravvenienza di un fatto nuovo che la implica deve trovare immediata applicazione, sicché, se il fatto sia sopravvenuto nella fase di merito dopo l'udienza di precisazione delle conclusioni, il giudice deve rimettere la causa sul ruolo per consentire il contraddittorio sui documenti prodotti a dimostrazione del fatto e non dichiarare inammissibile la produzione stessa.
Nella specie si tratta di documenti riguardanti una strada divenuta pubblica, fatto idoneo a determinare l'applicazione di una diversa disciplina giuridica alle distanze sulle costruzioni
(Cass. civ., sez. II, 14 febbraio 1995, n. 1591, GCM, 1995, 341).

Non rileva ai fini della qualificazione di una strada destinata ad uso pubblico la mera previsione portata in uno strumento urbanistico di nuova destinazione di un terreno prima che il piano venga attuato.
La mera previsione, in un piano regolatore generale o in un programma di  fabbricazione, della destinazione di un terreno privato a strada pubblica, o anche la destinazione di fatto ad uso pubblico di tale terreno, senza la esecuzione di opere pubbliche di irreversibile trasformazione e la conseguente appropriazione - cosiddetta acquisitiva - dell'immobile da parte della pubblica amministrazione, non produce, infatti, di per sé, una modificazione immediata del regime dei diritti immobiliari privati.
La strada, pertanto, deve considerasi privata fino alla materiale realizzazione della strada coll’adozione dei provvedimenti di espropriazione e di costruzione del manufatto.

Ai fini dell'esonero dall'osservanza delle norme del c.c. concernenti le  distanze tra costruzioni, l'esistenza di una via pubblica si configura  solo quando la determinazione della p.a. di realizzarla si sia tradotta nella concreta destinazione del suolo a tale scopo, mediante l'esplicazione della necessaria attività, sia giuridica che materiale
(Cass. civ., sez. II, 19 dicembre 1996, n. 11373, GCM, 1996, 1776).

Il proprietario confinante non può, quindi, ritenere di essere esentato dal rispetto delle distanze legali sulla base della mera previsione di piano regolatore.

La previsione di piano non basta, pertanto, ad esimere il proprietario confinante dal rispetto delle distanze legali, perché l'eccezionale deroga alla disciplina delle distanze nelle costruzioni, di cui all'art. 879, 2° co., c.c., opera esclusivamente  per quelle  che si fanno a confine di piazze o vie propriamente pubbliche, secondo lo stretto significato che, nell'ordinamento, ha la nozione di questa categoria di beni, esclusivamente riferibile alle vie o piazze appartenenti ad un ente territoriale autarchico e, perciò, demaniali e soggette a regime demaniale, ovvero realizzate su terreni gravati da diritto pubblico di godimento al fine della circolazione, parimenti soggette al regime della demanialità
(Cass. civ. sez. II, 12 febbraio 1994, n. 1429, GCM, 1994, 148).

La giurisprudenza ha escluso che tale norma possa essere applicata in relazione ai beni del demanio pubblico.
Il vigente codice civile non contiene, infatti, una esplicita disposizione di legge che esenti i beni demaniali dal rispetto delle distanze legali.
Non si può continuare a ritenersi valido il principio sancito dall'art. 572 c.c., 1865, secondo il quale, appunto, i beni del demanio pubblico - in  ragione della loro natura e funzione - erano esenti dall'osservanza delle distanze legali previste dal codice medesimo nonché dai regolamenti comunali.

Ai fini dell'applicabilità della speciale disciplina sulle distanze prevista  dall'art. 879, 2° co., c.c., la nozione  di strada ferrata non è in alcun modo equiparabile a quella di piazze e vie pubbliche rigorosamente prevista dalla norma medesima; rispetto alle opere ferroviarie coesistono perciò in materia di distanze tanto le disposizioni del codice civile, quando quelle contenute in leggi o regolamenti speciali, rispondendo ciascun  sistema normativo ad un diverso scopo
(Cass. civ., sez. I, 22 gennaio 1980 n. 492, GI, 1980, I, 1, 781).

La dottrina rileva pertanto, che il privato frontista non alcun diritto azionabile nei confronti di altro frontista che abbia violato le norme relative agli edifci pubblici al fine di ottenere l’arretramento (Triola 1993, 694).


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