giovedì 23 febbraio 2017

Pubblico impiego.Il procedimento disciplinare.


5. Il procedimento disciplinare.

Il potere disciplinare incide sul rapporto di appartenenza del soggetto, in questo caso il pubblico dipendente, a un’istituzione e, di conseguenza, determina il sorgere di una varietà di principi giuridici che ne regolano l’esercizio.
Ai sensi dell’art. 55, comma 3, D.L. vo 165/2001, la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi.
Il comma 2 dello stesso articolo contiene un’altra disposizione di particolare rilievo sull’argomento, in quanto si limita a dichiarare applicabili solamente l’art. 2106, c.c. e l’art. 7, commi 1, 5, 8, L. 20 maggio 1970, n. 500, senza rinviare integralmente alla normativa privatistica.
Nel procedimento disciplinare previsto dal citato art. 55, l’interessato può impugnare il provvedimento disciplinare immediatamente davanti al giudice, prescindendo dal ricorso al collegio arbitrale, in modo analogo, peraltro, a quanto, ai sensi dell’art. 7, L. 300/1970, è consentito al dipendente privato. T.A.R. Piemonte, sez. II, 4 febbraio 1999, n. 58.
E’ possibile, del resto, ricorrere al cosiddetto patteggiamento disciplinare, previsto nel nostro sistema normativo dal comma 6 del citato art. 55, D.L. vo 165/2001, che consente di ottenere la riduzione della sanzione non ancora irrogata in cambio della sua incondizionata accettazione. S. S. MEZZACAPO, Giudizio disciplinare: debutta anche l’arbitro unico, in Guida Dir. Dossier, 2001, n. 5, 113.
In base a tale disposizione, infatti, qualora vi sia il consenso dell’interessato, la sanzione applicabile può essere ridotta, senza che vi sia più però la possibilità di impugnarla.
Il dipendente sotto accusa può solo chiedere e non pretendere che venga applicato il meccanismo riduttivo succitato, dato che è una facoltà discrezionale dell’amministrazione esercitarlo. T.A.R. Veneto, 9 febbraio 1999, n. 117; T.A.R. Milano, 10 novembre 1999, n. 3659.


6. Il tentativo obbligatorio di conciliazione.

Il tentativo obbligatorio di conciliazione delle controversie individuali, di cui all’art. 69 del D.L.vo 29 del 1993 e mod., non ha avuto grande fortuna in campo privato e, probabilmente, è destinato ad aver ancor meno seguito nelle controversie di pubblico impiego.
L’attore ha l’obbligo prima di ricorre al tribunale del lavoro, con l’entrata in vigore del D.LGS. 19 febbraio 1998, n. 51, a condizione di procedibilità della domanda di tentare la conciliazione.
La dottrina nota come tale tentativo non sia previsto nelle residue controversie di competenza del giudice amministrativo. G. NOVIELLO P. SORDI G.N. CARUGNO V. TENORE, Le controversie sul pubblico impiego privatizzato e gli uffici del contenzioso, 1999, 67.
Il tentativo di conciliazione deve essere svolto, secondo le procedure previste dai contratti collettivi, davanti al Collegio di conciliazione istituito presso la Direzione provinciale del lavoro e della massima occupazione, nella cui circoscrizione si trova l’ufficio presso il quale il lavoratore è addetto.
La richiesta di conciliazione, che può essere avanzata dal lavoratore o dalla stessa amministrazione deve essere spedita a mezzo raccomandata R.R. all Ufficio di conciliazione e all’altra parte deve essere
Il nuovo art. 69 bis, comma 8, prevede che la conciliazione della lite da parte di chi rappresenta la pubblica amministrazione, in adesione alla proposta formulata dal collegio di cui al primo comma, ovvero in sede giudiziale ai sensi dell’art. 420, comma primo, secondo e terzo del codice di procedura civile, non può dar luogo a responsabilità amministrativa.
Qualora siano trascorsi inutilmente 90 giorni dalla presentazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione, è prevista dalla normativa la procedibilità della domanda giudiziale, ai sensi dell’art. 69, comma 2 del nuovo testo introdotto dall'art. 31 del decreto delegato. Si può intuire, quindi, quale sarà la situazione effettiva.
L’art. 28 del D.L.vo 80 del 1998, inserendo un nuovo art. 59 bis nel decreto legislativo 29/1993, attribuisce al collegio di conciliazione - di cui all’art. 32 - la competenza a decidere eventuali impugnative delle sanzioni disciplinari da parte dei lavoratori, qualora nei contratti di lavoro non siano previste apposite procedure di conciliazione ed arbitrato. 

7. Il ricorso al Tribunale del lavoro.

Il ricorso al Tribunale del lavoro, con l’entrata in vigore del D.LGS. 19 febbraio 1998, n. 51, si sviluppa secondo il dettato dell’art. 414 c.p.c.
Il ricorso deve indicare:
-          il giudice presso il quale si radica l’azione che, ai sensi dell’art. 413 c.p.c., è quello nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio al quale il dipendente addetto o era addetto al momento della cessazione del rapporto;
-          il nome, il cognome nonché la residenza od il domicilio eletto nel comune in cui ha sede il giudice adito, la denominazione dell’amministrazione convenuta ed il suo domicilio;
-          la documentazione che dimostri l’esperimento del tentativo di conciliazione;
-          la determinazione dell’oggetto della domanda e l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le relative conclusioni;
-          l’indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e, in particolare dei documenti che si offrono in comunicazione.
Il ricorso è depositato nella cancelleria del giudice.
Il giudice fissa con decreto la data dell’udienza.
L’attore ha l’obbligo di notificare il ricorso unitamente al decreto entro dieci giorni dalla sua pronuncia all’amministrazione destinataria.
La notifica, relativa a procedimenti contro amministrazioni dello Stato, va eseguita presso gli uffici dell’Avvocatura dello stato competente per territorio, art. 41 D. LGS. 80/1998. G. NOVIELLO P. SORDI G.N. CARUGNO V. TENORE, Le controversie sul pubblico impiego privatizzato e gli uffici del contenzioso, 1999, 129.

8. L’interpretazione dei contratti collettivi.

L’arbitrato previsto nei contratti collettivi sembra però avere maggiori possibilità di funzionare con efficacia.
L’art. 30 del D.L.vo 80/1998, che aggiunge l’art. 68 bis al D.L.vo 29 del 1993, dispone l’accertamento pregiudiziale sull’efficacia, sulla validità e sull’interpretazione dei contratti collettivi.
Ne consegue che, qualora per definire una controversia sia necessario l’accertamento della regola esplicitamente definita dal contratto collettivo sul punto in esame, il giudice deve sospendere il processo e disporre la comunicazione degli atti della causa all’ARAN ed ai sindacati. G. NOVIELLO P. SORDI G.N. CARUGNO V. TENORE, Le controversie sul pubblico impiego privatizzato e gli uffici del contenzioso, 1999, 82.
La norma consente di ottenere un’interpretazione autentica del contratto di lavoro.                                           
Entro trenta giorni l’ARAN deve convocare i sindacati; l’accordo deve poi essere raggiunto entro i successivi 90 giorni, trascorsi i quali si considera conclusa in modo negativo la procedura.
Il giudice in tale caso decide solo sulla questione pregiudiziale, ossia, obbligatoriamente, con sentenza non definitiva.                                                                                              
Questa è soggetta solo a ricorso per cassazione, che è fattibile anche per violazione o errata applicazione dei contratti o degli accordi collettivi, le cui parti contraenti possono non solo portare informazioni e osservazioni - come avviene nel rito ordinario del lavoro - ma anche intervenire nel processo oltre i termini ordinari ed impugnare la sentenza, facendo valere una loro autonoma e speciale legittimazione.
Il giudice, poi, che non intenda adeguarsi al parere già formulato dalla Suprema corte su una determinata questione ha l’identico obbligo di pronunziarsi con sentenza immediatamente ricorribile per cassazione, ai sensi dell’art. 68 bis, comma 7 del D.L.vo 29/1993.


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