lunedì 26 dicembre 2016

Banca privata italiana

Banca privata italiana

Alla fine degli anni Sessanta, il banchiere Michele Sindona introduce nell'economia italiana nuovi strumenti che nascondono un sistema globale basato sul controllo di società finanziarie con sede in paradisi fiscali in Europa.
Nel 1972 avvia la fusione di Banca unione con Banca privata finanziaria per creare la Banca privata italiana.
Nel 1974, anche a seguito del fallimento della Franklin National Bank, naufraga il tentativo di innalzare il capitale della Finambro e rifinanziare la Banca privata italiana.
Il liquidatore Giorgio Ambrosoli ricostruisce le cause e le responsabilità di Sindona nel crack bancario che porteranno ai processi per bancarotta in Italia e negli Stati Uniti.
Il 24 settembre 1974, il presidente della Camera Sandro Pertini denuncia in apertura di seduta che il Parlamento è stato tenuto all’oscuro dell’affare Sindona e che il governo ha steso un velo pietoso sulla questione.
Lo stesso giorno, al pomeriggio, nelle stanze della Banca d’Italia, viene decisa la liquidazione coatta della Banca privata italiana e viene convocato Giorgio Ambrosoli.
L’avvocato Ambrosoli, esperto in procedure fallimentari, spera di poter lavorare assieme ad altri componenti del gruppo di tecnici ormai collaudati che si sono occupati della liquidazione della Società finanziaria italiana ma nel corso della riunione apprende di dover svolgere la funzione di “unico commissario liquidatore”.
Prima di insediarsi nella sede milanese della banca in via Arrigo Boito 10, Ambrosoli chiede l’aiuto di Pino Gusmaroli, esperto di mercato borsistico e degli avvocati Tino e Pollini.
Accettare l’incarico di liquidare un istituto bancario con una vocazione internazionale significa per Ambrosoli inserirsi in quel delicato crocevia che è il rapporto tra decisioni politiche collettive e alta finanza, o meglio, sulle ricadute delle decisioni dell’establishment finanziario italiano sulla politica e sulla collettività.
La liquidazione coatta della banca di Sindona coinvolge la rete di rapporti internazionali che il banchiere di Patti ha pazientemente costruito con i banchieri londinesi Hambro e la Continental Illinois Bank and Trust Company, guidata da David Kennedy segretario del Tesoro nell’amministrazione Nixon.
L’attività bancaria di Sindona si sposta verso l’estero per la fondazione di società di controllo del gruppo ma anche per rapporti con istituti bancari in Svizzera e nei paradisi fiscali europei.
Il successo repentino del sistema Sindona suscita invidie e sospetti sull’origine dei capitali che hanno contribuito a formare questo impero internazionale.
Nel 1971. Sindona mirò all'acquisizione del controllo della Centrale e della Bastogi e alla loro fusione, all’acquisizione del controllo della Banca nazionale dell’agricoltura.
Se il programma fosse stato realizzato si sarebbe costituita una delle maggiori, forse la maggiore, delle società finanziarie europee. Ne sarebbe derivata una concentrazione di potere esorbitante la capacità di controllo di un sistema formato dall’intreccio di disposizioni vetuste, concepite agli albori del capitalismo italiano.
Combinando acquisti privati e acquisti sul mercato, il più delle volte mediante interventi di non residenti, Sindona acquisì o fu prossimo ad acquisire il controllo della Italcementi, quindi dell’Immobiliare, quindi della Riunione adriatica di sicurtà, dell’Assicurazione italiana, della Banca provinciale lombarda, del Credito commerciale, dell’Istituto bancario italiano.
Accettando il suo incarico di commissario liquidatore Ambrosoli entra nel pieno dello scontro che si consuma tra capitale nazionale e spinte all'internazionalizzazione, che comprendono lo scontro in Italia tra finanza laica e finanza cattolica, tra banchieri legati all’establishment fascista e brasseur d’affaires come Sindona.
Le operazioni che Ambrosoli si appresta a ricostruire seguono un corso differente rispetto alle normali procedure fallimentari per la nuova natura dell’istituto di Sindona: tempi frenetici nei cambi di divisa proiettati su scala internazionale – se non globale, alla velocità delle borse e delle telescriventi.
Ricostruire la vicenda degli istituti bancari del finanziere significa guardare nell’ambito del mercato azionario, nel mercato sindoniano delle aziende, negli incroci azionari che il banchiere costruisce alle spalle di ignari risparmiatori.
Tra la fine dell’agosto e il settembre dello stesso anno il governatore Carli dà l’avvio ad un’ispezione che denuncia gravi irregolarità nella contabilità di Banca unione e Banca privata italiana: gli ispettori della Banca centrale propongono il commissariamento dell’istituto secondo quanto previsto dall’articolo 57 della legge bancaria.
Nonostante molte voci di critica Carli decide di segnalare alla magistratura le irregolarità che costituiscono degli illeciti penali, ma non avvia il commissariamento delle banche sulla scorta della grave situazione in cui versa la lira, confidando in un ripensamento del suo modus operandi.
Dopo la sconfitta della Banca nazionale dell’agricoltura e l’Opa Bastogi [2], Sindona aveva iniziato a concentrare la sua attività nel mercato statunitense Anche se il banchiere si concentra sui mercati esteri lavora attivamente per riorganizzare le partecipazioni italiane: la Edilcentro-Sviluppo, la Banca di Messina, la Generale immobiliare e le banche milanesi.
Sindona progetta di rilanciare il suo gruppo attraverso un aumento di capitale della Finambro.
Nonostante le forti pressioni politiche, Ugo La Malfa, ministro del Tesoro del nuovo esecutivo presieduto da Mariano Rumor, non accorda l’autorizzazione all’aumento di capitale che dovrebbe passare dal Cicr.
La Procura della Repubblica di Roma aveva informato il 21 settembre in via riservata il ministro del Tesoro e il governatore che era stata presentata una denuncia dalla quale risultava che la Finambro aveva negoziato titoli in Borsa prima dell’autorizzazione. Bankitalia precisò che la richiesta di aumento di capitale della Finambro escludeva anche per il futuro contrattazioni nel mercato ufficiale.
Nel marzo del 1974 la Franklin dà le prime avvisaglie di crisi. Il banchiere corre ai ripari chiedendo al Tesoro un altro aumento di capitale questa volta per la Banca unione che vuole fondere con la Banca privata.
Nel luglio dello stesso anno uno stuolo di dirigenti del Banco di Roma si insediano nella Banca unione ma la Banca privata resta in mano a Sindona che ne ha fatto la parte operativa del suo sistema. L’intervento dei funzionari del Banco di Roma non consente di appurare con tempestività la situazione che viene documentata dai rapporti degli ispettori di Bankitalia. Quando i vertici del Banco di Roma comunicano a Carli la gravità della situazione e l’irreversibilità del danno chiedono nel contempo un indennizzo di 35-40 miliardi per il servizio reso alla stabilità del sistema.
A seguito dell’autorizzazione ministeriale, la Banca d’Italia concede la fusione di Banca unione e di Banca privata che confluiscono nella Banca privata italiana. Sul finire di agosto le comunicazioni tra il Banco di Roma e il governatore si fanno più pressanti perché emerge in tutta la sua gravità la situazione in cui versa l’istituto.
Il 28 agosto il Banco di Roma comunica che la Banca privata italiana ha debiti per 98 milioni di dollari. Il 3 settembre Ventriglia comunica a Carli che il disavanzo dell’istituto di Sindona ammonta a 168,4 miliardi di lire.
I vertici di Bankitalia propongono a Sindona di vendere la Banca privata italiana al prezzo simbolico di una lira ottenendone un secco rifiuto. Continuano i prelievi massicci agli sportelli. Alla fine di settembre si rende necessaria la dichiarazione di fallimento dell’Istituto. storicamente.org. 

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