sabato 16 novembre 2013

IMMISSIONI

LE IMMISSIONI

La disciplina dell’art. 844, c.c..

Il proprietario di un fondo ha tutela nei confronti dei confinanti nell’ottica dell’equilibrio fra le diverse posizioni che è principio fondamentale da salvaguardare nei rapporti di vicinato.
I rapporti possono riguardare non solo le opere che vengono edificate a confine, ma anche gli effetti che una attività esercitata sul fondo può produrre sul fondo confinante che vengono definite immissioni dalla dottrina (Maugeri 1999, 31).
L’art. 844 c.c. dispone un principio di reciproca tolleranza per i fatti negativi che possono turbare il normale godimento del fondo.
Esso dispone che debbono essere sopportati dal confinante se rientrano nella norma e dando all’autorità giudiziaria in compito di fissare i criteri per definire l'attività come lecita..
Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e altre simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità avendo anche riguardo alla condizione dei luoghi.
Nell’applicare questa norma l’autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà.
Può tenere conto della priorità di un determinato uso.
(Art. 844 c.c.).
Nel definire le immissioni, che sono attività o stati di fatto esterni al fondo, la dottrina è concorde nel ritenere che esse devono essere contraddistinte dall’aspetto materiale e continuo del fatto lesivo.

Le immissioni sono propagazioni di fattori disturbanti causate dall’opera dell’uomo.
Esse hanno per oggetto tutte le entità idonee a recare molestia, come fumo, calore, gas, odori, rumori, scuotimenti ed altri simili elementi, quali la polvere e i raggi Rontgen
(Massimo Bianca 1999, 231).

L’immissione deve avere un carattere materiale. Essa deve produrre conseguenze fisicamente misurabili sul fondo vicino, come, ad esempio, il fatto che siano presenti radiazioni nocive all’organismo.
Non rientrano nell’ambito del concetto di immissioni quei fatti o quelle opere che causano limitazioni nella veduta o che provocano sottrazione di luce o aria al fondo del vicino; esse trovano tutela nell’art. 833 o negli artt. 873 ss. c.c.
Né rientrano nel concetto di immissioni le cosiddette immissioni morali, come, ad esempio, quelle causate dalla vicinanza di locali adibiti a spettacoli pornografici, che trovano altro tipo di tutela nella legge penale.
Dalla disciplina del codice civile si ricava che le immissioni sono di tre tipi: tollerabili, intollerabili, ma ammissibili e intollerabili.
Le immissioni tollerabili sono ammesse in quanto, pur recando un disturbo al vicino, non superano i parametri fissati dall’uso o dal legislatore: contro di esse non vi è tutela e devono essere accettate dal confinante
Sono intollerabili ma ammissibili le immissioni che, pur superando la soglia della normale tollerabilità, possono essere consentite dal giudice attraverso una verifica che porti alla conclusione che esse sono sopportabili nel caso concreto, salvo la corresponsione di un indennizzo per il diminuito valore del fondo.
Le immissioni intollerabili devono essere sospese e il danno prodotto deve essere risarcito.


Le immissioni che comportano un facere in alienum.

Le immissioni disciplinate dall’art. 844 c.c. devono essere caratterizzate da un attività mediata o indiretta i cui effetti si producono sul fondo che si ritiene danneggiato.
Diversamente le immissioni che comportano un facere in alienum ossia un attività diretta del soggetto attivo dell’immissione non trovano collocazione nella fattispecie dell’art. 844 c.c.
Nel caso in cui l’immissione sia oggetto di una attività del titolare del fondo confinante che determina il realizzarsi di un fatto illecito nei confronti del vicino non si ha alcuna ragione per considerare se tale attività rientri nella normale tollerabilità ma essa concretizza un fatto illecito che deve trovare tutela con la normali azioni a difesa della proprietà o del possesso.

La disposizione dell'art. 844 c.c., che consente al proprietario del fondo di impedire le immissioni di fumo, calore, rumori, scuotimenti e simili propagazioni provenienti dal fondo del vicino, che superino la normale tollerabilità, si riferisce a quei fenomeni collaterali a legittime attività umane, di norma produttive, che si propagano da un fondo ad un altro con mezzi naturali e non è, pertanto, applicabile per la caduta di massi e pietre provenienti da un fondo utilizzato per la discarica di materiale, in relazione alla quale non vi è un generico dovere di sopportazione entro i limiti della tollerabilità.
Nel caso di specie la Corte ha affermato che la discarica di materiale pietroso, non essendo questo per sua natura nociva o pericolosa, non rientra tra le attività considerate dall'art. 890 c.c.
(Cass. civ., sez. III, 16 giugno 1992 n. 7411, GCM, 1992, fasc. 6).

Diversa è l’ipotesi un cui l’attività umana provochi una immissione solo come causa indiretta dell’attività dell’uomo.
In tal caso trova disciplina la norma sulle immissioni e si dove valutare se il fatto superi a soglia della norma le tollerabilità.

Sebbene l'art. 844 c.c. contenga un elenco esemplificativo delle immissioni suscettibili di divieto, posto che, in esso, dopo la espressa menzione di alcune di tali immissioni, seguono le parole "e simili propagazioni", tuttavia il carattere eccezionale dei limiti posti all'estrinsecazione del diritto di proprietà fa sì che la tassatività sussista nel genus se non nella specie.
Pertanto, considerando sia le caratteristiche delle immissioni espressamente menzionate, sia la necessità che si tratti di propagazioni, sia, infine, la ratio della norma, il suo dettato è passibile di applicazione, per interpretazione estensiva, a ipotesi che presentino i requisiti: della materialità dell'immissione, e cioè necessità che essa cada sotto i sensi dell'uomo ovvero influisca oggettivamente sul suo organismo, ad esempio, radiazioni nocive, o su apparecchiature, ad esempio, correnti elettriche ed onde elettromagnetiche; del carattere indiretto o mediato dell'immissione, nel senso che essa non consista in un facere in alienum, ma costituisca ripercussione di fatti compiuti direttamente o indirettamente dall'uomo, nel fondo da cui si propaga; dell'attualità di una situazione di intollerabilità, non semplice pericolo di essa, derivante da una continuità, o almeno periodicità, anche se non ad intervalli regolari, dell'immissione.
Tali requisiti ricorrono nel caso di infiltrazione d'acqua nel fondo altrui, prodotta dall'assidua irrigazione del fondo proprio, coltivato a marcita.
(Cass. civ., sez. II, 6 marzo 1979 n. 1404, GCM, 1979, fasc. 3).
Sotto il profilo soggettivo della responsabilità l’immissione può essere contestata al possessore del fondo solo se l’attività è imputabile a quest’ultimo.
In caso contrario qualora siano altri i soggetti che causano una attività dannosa per il proprietario confinante solo questi possono essere i soggetti passivi dell’azione da intentarsi dal soggetto colpito dagli effetti dannosi dovuti al comportamento di questi ultimi.
Si tratta però di fattispecie diverse da quelle regolate dall’art. 844 c.c., poiché è evidente che si tratta di un facere in alienum da parte peraltro di soggetti che non hanno alcun rapporto con la titolarità del fondo confinante il cui proprietario non può essere imputato per l’attività di terzi di cui non abbia la diretta responsabilità.
Coerentemente con questa impostazione la dottrina e la giurisprudenza hanno escluso l’applicazione dell’art. 844 c.c. sia nell’ipotesi di ragazzi che, giocando a calcio in un fondo, abbiano scavalcato il muro di cinta per recuperare il pallone sia nell’ipotesi di clienti di un locale che abbiano invaso il fondo confinante dell’attore (Maugeri 1999, 43).
Parimenti è stata esclusa l’applicazione dell’art. 844 c.c. nell’ipotesi di sconfinamento in un fondo privato di cinghiali selvatici ceh non siano sotto la proprietà o il controllo di alcun soggetto pubblico o privato.

In tema di responsabilità per illecito, per l'affermazione dell'an debeatur va accertata la sussistenza della colpa, la quale, in senso tecnico giuridico, consiste in un comportamento cosciente dell'agente che, senza volontà di arrecare danno ad altri, sia causa di un evento lesivo per negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di regole o norme di condotta; mentre la prevedibilità o imprevedibilità del danno rileva solo riguardo al quantum debeatur, poiché in materia contrattuale è risarcibile solo il danno prevedibile (art. 1225 c.c.), mentre in materia extracontrattuale va risarcito anche il danno imprevedibile, dato che l'art. 2056 c.c. sulla determinazione del risarcimento in tale campo, non richiama l'art. 1225 c.c.
Affinché una condotta omissiva possa essere assunta come fonte di responsabilità per danni non basta il riconoscimento di una generica antidoverosità sociale nella condotta del soggetto che non abbia impedito il fatto dannoso, ma occorre l'individuazione a suo carico di un vero e proprio obbligo giuridico di impedire l'evento lamentato (argomenta dall'art. 40 c.p.), obbligo che può derivare o direttamente da una norma ovvero da uno specifico rapporto intercorrente tra il titolare dell'interesse leso ed il soggetto chiamato a rispondere della lesione e deve essere accertato caso per caso.
Nella specie, in applicazione dell'enunciato principio è stata ritenuta corretta la pronuncia di merito che aveva escluso l'esistenza di una responsabilità per condotta omissiva da parte dell'Azienda di Stato per le foreste demaniali per i danni causati da cinghiali, per il fatto che tale azienda non aveva alcun obbligo di impedire che i cinghiali penetrassero nelle foreste demaniali, né che ne uscissero
(Cass. civ., sez. III, 28 aprile 1979 n. 2488, GA, 1980, 225).


La normale tollerabilità e la condizione dei luoghi.

Secondo l’interpretazione giurisprudenziale, l’accertamento sulla normalità dell’immissione non può essere basato su criteri generali di ordine statistico o matematico, ma deve considerare la situazione complessiva della zona in cui è ubicato il fondo.

In tema di immissioni, l'accertamento delle cause che determinano immissioni moleste nel fondo altrui non influisce sul giudizio di tollerabilità delle stesse, da effettuarsi, secondo i criteri all'uopo indicati dall'art. 844 c.c., cui è estraneo il criterio della colpa.
Pertanto, una volta accertata l'esistenza della propagazione molesta e stabilito, secondo i criteri dettati dall'art. 844 c.c., il suo grado di tollerabilità, l'individuazione delle cause può servire soltanto per stabilire le eventuali misure da adottare per la sua eliminazione
(Cass. civ., sez. II, 3 novembre 2000, n. 14353, GCM, 2000, 2246).

Per quanto riguarda, ad esempio, le immissioni di rumore, una soglia di tollerabilità generale non esiste, ma bisogna definirla caso per caso, tenendo come punto di riferimento il rumore di fondo già presente nella zona in rapporto alla sua destinazione urbanistica.
E’ certo che una zona industriale è soggetta ad una soglia di tollerabilità superiore a quella prevista in una zona residenziale.
Le immissioni di rumore vengono valutate come intollerabili se influiscono sul rumore di fondo con una certa percentuale.

Per stabilire se le immissioni - nella specie rumori, fumo ed esalazioni provenienti da un opificio di panificazione che si propagano dall'immobile del vicino su quello altrui superano la normale tollerabilità occorre avere riguardo alla destinazione della zona ove sono situati gli immobili, perché se è prevalentemente abitativa, il contemperamento delle ragioni della proprietà con quelle della produzione deve esser effettuato dando prevalenza alle esigenze personali di vita del proprietario dell'immobile adibito ad abitazione rispetto alle utilità economiche derivanti dall'esercizio di attività produttive o commerciali nell'immobile del vicino
(Cass. civ., sez. II, 18 aprile 2001, n. 5697, GCM, 2001, 817).

Il concetto di tollerabilità, del resto, riguarda sostanzialmente la destinazione economica del fondo.
L’interpretazione giurisprudenziale afferma però che, nella valutazione delle conseguenze delle immissioni, anche se va tenuto conto dello stato del fisico e della psiche delle persone colpite, è importante dar rilievo alla reattività dell’uomo medio, prescindendo dalle condizioni che riguardano i soggetti interessati.

Il giudizio di normale tollerabilità operato dalla giurisprudenza dominante si risolve, in definitiva, nella valutazione dell’incidenza economica della lesione apportata dalle immissioni, comparando la destinazione del fondo che la subisce con il godimento fondiario tipico di una zona determinata. Assume quindi un ruolo assorbente il riferimento, del resto contenuto nella norma medesima, alla condizione dei luoghi
(Salvi 1988, 4).

La condizione dei luoghi deve essere valutata, secondo la giurisprudenza, sotto il profilo sociale, vale a dire con riferimento alle caratteristiche che le derivano dalle attività che abitualmente vi sono svolte e dal tipo di vita e dalle abitudini della gente che vi vive e vi lavora.
L’indice di tollerabilità delle immissioni in zone destinate in tutto o in parte ad attività industriali, di conseguenza, deve essere molto più elevato di quello stabilito in località considerate rurali o in un quartiere cittadino.
Il limite di tollerabilità deve essere verificato per ogni singola fattispecie essendo demandato il relativo giudizio al giudice di merito.

Le disposizioni contenute nell'art. 844 c.c. da una parte, e nel d.p.c.m. 28 marzo 1983, che fissa i limiti massimi di accettabilità delle concentrazioni e di esposizione relativi ad inquinanti dell'aria
nell'ambiente esterno, dall'altra, hanno finalità e campi di applicazione distinti, essendo l'una posta a presidio del diritto di proprietà, perseguendo l'altra la tutela igienico - sanitaria delle persone o comunità esposte.
Ne consegue che, in caso di controversia attinente alla tutela della proprietà immobiliare dalle immissioni, il giudice di merito, cui è rimessa la relativa indagine, tenuto conto, in concreto, della condizione dei luoghi ed, eventualmente, anche delle esigenze della produzione, da contemperare con quelle della proprietà, può ritenere che le immissioni superino il limite della normale tollerabilità nonostante il mancato superamento dei limiti massimi di inquinamento atmosferico fissati dal d.p.c.m. 28 marzo 1983.
(Cass. civ., sez. II, 6 giugno 2000, n. 7545, RGE, 2000, I, 1086).

Ai fini dell'applicazione del criterio relativo della normale tollerabilità delle immissioni, si deve ritenere precluso il ricorso ai rigidi parametri fissati da leggi speciali regolanti determinate attività produttive, dovendosi, piuttosto, avere riguardo alle condizioni dei luoghi, al contesto sociale e produttivo nel quale si svolge l'attività che si assume lesiva e all'entità degli interessi in conflitto.
Nella specie, la Cassazione ha confermato la decisione di appello, in cui il riferimento ai limiti di tollerabilità fissati dalla legislazione speciale antinquinamento - il d.p.r. n. 203 del 1988, in materia di qualità dell'aria - era stato utilizzato al solo fine di porre in rilievo il divario tra questi ultimi e i dati relativi alla concreta situazione oggettiva.
(Cass. civ., sez. II, 11 novembre 1997, n. 11118, GI, 1998, 1810).

Nel caso di rumore generato dalla presenza di animali la normale tollerabilità viene accertata mediante controlli sul posto che, necessariamente, sono condizionati dal sopralluogo effettuato.

Non sussistono immissioni intollerabili nell'abbaiare di due cani qualora il fatto, accertato mediante consulenza tecnica, sia stato preceduto da opportune stimolazioni degli animali che - malgrado la presenza di estranei in ora notturna nei pressi della proprietà a cui erano stati preposti come custodi - non abbiano ritenuto di dover mostrare alcun inequivoco segno di disapprovazione, ivi compresi quelli rumorosi.
L'eccessiva intensità dei rumori rilevata deve essere considerata, avuto riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persone, come un fatto normale, prevedibile e, tutto sommato, pienamente giustificato.
La normativa in tema di immissioni è applicabile anche per la protezione dei valori personali, allorché si verifichi la lesione di talune forme di proprietà come quella del luogo di abitazione, che comprendono anche il valore della salute come benessere psicofisico, fermo restando che grava su chi agisce l'onere di provare il danno subito
(Trib. Perugia, 7 febbraio 1998, RGU, 1999, 373 nota Zuddas).

Per le attività pericolose la verifica dei danni provocati dalle
immissioni è stata ritenuta preventiva rispetto all'azione prevista dall’art. 890 c.c. per la verifica della congruità delle distanze che devono essere tenute dal confine.

Per stabilire se l'installazione di una caldaia a gas metano per il riscaldamento domestico provoca danni alla proprietà vicina, deve applicarsi la disciplina prevista dall'art. 890 c.c., per l'insita potenziale pericolosità e nocività del combustibile, e pertanto, soprattutto se l'impianto è difforme dalla normativa di cui alla l. 6 dicembre 1971, n. 1083, occorre prima escludere che vi sia pericolo per la salubrità e sicurezza della proprietà altrui.
E’ doveroso, quindi, accertare, ai sensi dell'art. 844 c.c., se le immissioni provenienti dal relativo tubo di scarico arrechino disagi o molestie intollerabili.
(Cass. civ., sez. II, 1 agosto 1997, n. 7143, RGE, 1998, I, 299).
La priorità d’uso.

Il giudice nell’applicare la normativa sulle immissioni può tenere conto, ex art. 844, 2° co., c.c. della priorità di un determinato uso.
La normativa è secondo la dottrina posta a garanzia della stabilità dei valori dei fondi ponendo rilievo al fatto che le mutate condizioni di una zona comportino che le immissioni prima tollerabili cessino di esserlo per i suoi abitanti.
Si può fare l’esempio di immissioni prima tollerabili in una zona industriale cessino di esserlo perché la zona, per effetto di cambiamento di destinazione urbanistica venga considerata residenziale.

Le modifiche e gli incrementi di valore di una zona o di un singolo fondo che subisce l’immissione non debbono necessariamente riflettersi su chi abbia fatto affidamento sull’esercizio in un primo momento lecito del proprio fondo
(Maugeri 1999, 237).

Si deve, invece, escludere la possibilità di utilizzare il criterio della priorità nel caso in cui le immissioni siano intollerabili sin dall’inizio, poiché in tal caso il principio renderebbe lecita una attività che è da considerarsi illecita ab origine.
La giurisprudenza ha fatto una scarsissima utilizzazione del criterio in questione ritenendo che lo stesso sia superato sia dall’accertamento della normale tollerabilità compiuto dal giudice e da fatto che il normale mutamento delle condizioni degli impianti da cui provengono le immissioni lo pongono a non avere alcun rilievo ai fini della decisione.

In materia di immissioni dannose il criterio del preuso cui fa riferimento l'art. 844 comma 2 c.c. ha carattere sussidiario e facoltativo, sicché il giudice del merito nella valutazione della normale tollerabilità delle immissioni, non è tenuto a farvi ricorso quando, in base agli opportuni accertamenti di fatto, e secondo il suo apprezzamento, incensurabile se adeguatamente motivato, ritenga superata la soglia di tollerabilità.
Nella specie si tratta della tollerabilità di immissioni di natura olfattiva
(Cass. civ., sez. II, 10 gennaio 1996, n. 161, RGE, 1996, I, 494).

Il criterio prevalente rimane per la giurisprudenza quello della situazione oggettiva rilevata la momento della contestazione.

Il criterio del preuso, secondo il dettato dell'art. 844, 2° co., c.c. ha carattere facoltativo e sussidiario. In ogni caso, la priorità di uso va considerata nella sua obiettività, cioè con riferimento ai fondi o all'organizzazione e produzione industriale nei loro reciproci rapporti, e non già in relazione al momento dell'acquisto della proprietà o della titolarità d'impresa da parte dei soggetti tra i quali è sorta controversia
(App. Catania, 14 gennaio 1992, NGCC, 1992, I, 888, nota Maugeri).


La costituzione delle servitù di immissione per usucapione e per destinazione del padre di famiglia.

La giurisprudenza ha escluso la possibilità di costituire delle servitù di immissione per usucapione o per destinazione del padre di famiglia

Non è configurabile l'acquisto della servitù di immissione né per usucapione né per destinazione del padre di famiglia in quanto:
a) se l’immissione rientra, a norma dell’art. 844 c.c., nei limiti della liceità, si è fuori dall’ipotesi della servitù rientrando l’immissione nell’ambito delle facoltà di chi ne è autore;
b) se l’immissione fuoriesce dai limiti della liceità - come avviene nel caso di immissioni eccedente la normale tollerabilità – non è possibile acquistare per usucapione l’esercizio di facoltà che la legge non consente.
Per ragioni analoghe è, altresì, giuridicamente non configurabile l’acquisto della servitù di immissione per destinazione del padre di famiglia
(App. Catania, 14 gennaio 1992, NGCC, 1992, I, 888, nota Maugeri).

La dottrina contesta la tesi sostenuta dalla giurisprudenza.
In primo luogo si afferma che la giurisprudenza in tema di immissioni ritiene lecite le immissioni superiori alla normale tollerabilità, ma rispondenti alle esigenze della industria che vengono sottoposte al pagamento di un indennizzo e possono continuare ad esercitarsi (Maugeri 1999, 249).
Viene poi fatto notare che le argomentazioni giuridiche non appaiono fondate dal momento che tutte le servitù consistono nel potere di esercitare delle facoltà che altrimenti sono vietate dalla legge; mentre l’art. 1061 c.c. prevede che le servitù apparenti possono acquistarsi per usucapione (Salvi 1979, 283).
Il limite alla costituzione delle servitù può ravvisarsi nella normativa regolamentare che fissi dei limiti a garanzia del pubblico interesse che evidentemente non può essere derogato da accordi delle parti.
La dottrina prevalente, quindi, ammette la derogabilità dell’art. 844 c.c. sia nel senso di rendere possibile una immissione superiore alla normale tollerabilità sia nel senso inverso di concordare in sede pattizia un limite più basso di quello previsto per legge e ritenere possibile la costituzione volontaria di servitù di immissioni i limiti sono quelli previsti dall’art. 1061 c.c.

Può dirsi che tale servitù possa essere usucapita o costituita per destinazione del padre di famiglia in quanto riesca a dimostrare che possono ricorrere dei casi in cui tali servitù siano corredate da opere visibili e permanenti destinate al loro esercizio
(Maugeri 1999, 249).


I regolamenti che fissano standard di tollerabilità in materia di rumore. Effetti.


I regolamenti ministeriali che fissano in determinate situazioni soglie di tollerabilità - come, ad esempio, qualora di debbano disciplinare le attività rumorose - creano solo parametri oggettivi che, nel caso concreto, non limitano l’accertamento del giudice tendente a valutare il superamento della normale tollerabilità.
Ciò risponde al principio generale secondo il quale le autorizzazioni escludono solo l’esistenza di interessi generali tali da giustificare l’impedimento totale o parziale di una certa attività, ma non escludono la sussistenza di motivi ostativi di carattere privato ed è per questo che vengono rilasciate con la clausola di salvezza dei dritti dei terzi.
Parte della dottrina ha sostenuto che la giurisprudenza, pur non attribuendo rilevanza l’autorizzazione sul piano della valutazione della normale tollerabilità, ha attribuito a questa il ruolo di porre una presunzione di utilità della attività svolta in relazione a quanto autorizzato.
Essa ha, pertanto, negato la possibilità di emettere provvedimenti inibitori contro attività autorizzate, consentendo ai vicini solo le azioni relative al risarcimento del danno (Salvi 1979, 135).
Altra dottrina, invece, ritiene possibile l’emanazione di provvedimenti inibitori anche in presenza di provvedimenti della pubblica amministrazione, poiché l’attività assentita non può svolgersi in contrasto con i principi fissati dalla normativa civilistica (Maugeri 1999, 118).
La giurisprudenza ha, conseguentemente, distinto quelli che sono i criteri pubblicistici che dichiarano legittime le immissioni per un determinato settore e il limite di tollerabilità delle stesse immissioni a norma dell’art. 844 c.c.
I criteri fissati dal d.p.c.m. 1 marzo 1991 sono relativi in quanto determinano un limite massimo che è dato dalla differenza tra il livello equivalente del rumore ambientale e quello del rumore residuo.
Esso è fissato in 5 dB (A) durante il periodo diurno e in 3 dB (A)durante il periodo diurno.
La misura deve essere effettuata, ex art. 2, d.p.c.m. 1 marzo 1991,
Posto che il criterio più idoneo a fornire la misura dell'effettiva incidenza del rumore sulla salute è quello c.d. dell'eccedenza rispetto al rumore di fondo, va ordinato - in via d'urgenza - ai resistenti di astenersi dal compiere immissioni acustiche superiori alla normale tollerabilità.
Nella specie, il limite massimo è stato fissata in 26 dB, vale a dire 3 dB al di sopra del rumore di fondo, avendo il giudice ritenuto inapplicabile il d.p.c.m. 1 marzo 1991 - che assume come parametro di confronto il c.d. rumore equivalente - in quanto illegittimo
(Pret. Monza 19 luglio 1991, RCP, 1991, 904).

I criteri di cui all’art. 844 c.c. non ricevono infatti alcuna deroga ad opera del d.p.c.m. 1 marzo 1991, poiché le due normative tutelano interessi diversi.

Il d.p.c.m. 1 marzo 1991 il quale fissa le modalità di rilevamento dei rumori al pari dei regolamenti comunali limitativi dell'attività rumorosa, essendo rivolto alla tutela della quiete pubblica, riguarda soltanto i rapporti fra l'esercente l'attività rumorosa e la collettività in cui esso opera, creando a suo carico precisi obblighi verso gli enti preposti alla vigilanza.
Le disposizioni in esso contenute non escludono, pertanto, l'applicabilità dell'art. 844 c.c. nei rapporti fra i proprietari dei fondi vicini e richiede l'accertamento, caso per caso, della liceità o illiceità delle immissioni
(Cass. civ., sez. II, 13 settembre 2000, n. 12080, RGE, 2000, I, 1053).

Nel caso concreto in cui si verifichi una turbativa per effetto delle immissioni, il mancato superamento degli indici fissati dal regolamento non esclude di per sé la possibilità di richiedere un accertamento che verifichi nella fattispecie l’insorgenza di un effettivo disturbo.
Le leggi e i regolamenti che disciplinano le attività produttive, segnatamente i regolamenti comunali che limitano quelle rumorose, hanno carattere pubblicistico e operano nei rapporti tra i privati e le pubbliche amministrazioni, non essendo richiamate dall'art. 844 c.c., che detta la disciplina delle immissioni, che, ai sensi della ricordata norma del codice civile, va verificata tenendo presente anche, ma non solo, la condizione giuridica dei luoghi
(Cass. civ., sez. II, 12 febbraio 2000, n. 1565, RGE, 2000, I, 570).

I regolamenti limitativi delle attività rumorose, essendo rivolti alla tutela della quiete pubblica, riguardano soltanto i rapporti fra l'esercente di una delle suddette attività e la collettività in cui esso opera, creando a carico del primo precisi obblighi verso gli enti preposti alla vigilanza.
Tali disposizioni, però, non escludono l'applicabilità né dell'art. 844 c.c., né degli altri principi che tutelano la salute nei rapporti interprivati che richiedono l'accertamento caso per caso della tollerabilità o meno delle immissioni di rumori e della loro concreta lesività per il riposo e la quiete di ogni soggetto interessato
(Cass. civ., sez. III, 3 febbraio 1999, n. 915, GI, 2000, 510 nota Greca)

La previsione dell'art. 844 c.c. è tesa non tanto a proteggere la proprietà in senso difensivo, quanto a tutelarne il diritto di piena utilizzazione e di massima espansione.
Ai fini dell'individuazione della normale tollerabilità non può essere utilizzato il quadro normativo esistente, rappresentato, ad esempio, in tema di inquinamento acustico dalla l. 26 ottobre 1995, n. 447 e dal d.p.c.m. 1 marzo 1991.
Il criterio utilizzato dal giudice per accertare, nel caso concreto, il limite di sopportabilità delle immissioni sonore è quello della rumorosità di fondo, cioè del plafond di rumore costante sul quale si inseriscono quelli prodotti dalle fonti delle immissioni ritenute intollerabili.

Le norme che disciplinano in via generale i livelli di accettabilità delle immissioni sonore, in quanto mirano ad assicurare alla collettività il rispetto di livelli minimi di quiete, perseguono finalità di interesse pubblico e sono, quindi, destinate a regolare i rapporti fra i privati e la p.a., e non già i rapporti di natura patrimoniale tra i privati, alla cui disciplina è destinato l'art. 844 c.c.
Pertanto, anche se le immissioni non superano i limiti fissati dalle norme di interesse generale, il giudizio sulla loro tollerabilità, ai sensi dell'art. 844 c.c., va effettuato ugualmente e con riferimento alla situazione concreta
(Cass. civ., sez. II, 2 giugno 1999, n. 5398, RGE, 1999, I, 960. Trib. Perugia, 8 novembre 1997, RGA, 1998, 125).




I regolamenti che fissano standard di tollerabilità in materia di inquinamento atmosferico. Effetti.


La legge antismog 615/1966 è stata sostituita dal d.p.r. 24.5.1988, n. 203, che reca norme in materia della qualità dell’aria in rapporto all’inquinamento, e dall’atto di indirizzo per la sua attuazione, approvato con d.p.c.m. 21.7.1989 (Centofanti 2001, 177).
Il d.p.r. 24.5.1988, n. 203, all’art. 1, assume un concetto ampio di inquinamento atmosferico, con la conseguenza della sottoposizione alla suddetta disciplina normativa di tutte le attività degli impianti destinati alla produzione, al commercio, all'artigianato, ai servizi da cui derivi anche soltanto uno degli effetti contemplati, come l’alterazione delle normali condizioni ambientali, l’alterazione della salubrità, un pericolo o un danno alla salute, l’alterazione di risorse biologiche ed ecoesistenti, la compromissione di usi legittimi da parte di terzi.

Per aversi inquinamento atmosferico non è necessario il pericolo di danno alla salute dell'uomo, per la presenza di sostanze inquinanti o tossiche o nocive, ma è sufficiente che l'alterazione dell'atmosfera incida negativamente sui beni naturali o anche semplicemente sull'uso di essi
(Cass. pen., sez. I, 7.6.1996, RP, 1996, 1097).

Con d.m. 12 luglio 1990 sono state introdotte le linee guida per il contenimento delle immissioni inquinanti degli impianti industriali ed i valori minimi e massimi di emissione.
La complessa normativa è stata valuta dalla giurisprudenza in rapporto alla disciplina dettata dall’art. 844 c.c.
La giurisprudenza ritiene che devono essere valutate autonomamente le immissioni provenienti da attività conformi alla disciplina relativa all’inquinamento atmosferico poiché le due discipline hanno fini diversi: quella civilistica è volta a tutelare la proprietà, quella pubblicistica, invece, è diretta a tutelare la salute dei cittadini
L’intervento del giudice è, quindi ammesso al fine di verificare se nel caso concreto vi sia un danno al fondo che le subisce.
In tal caso l’attore deve essere risarcito secondo i principi della responsabilità aquiliana.

In caso di effetti pregiudizievoli subiti da immobili siti in prossimità di uno stabilimento a causa delle immissioni di polveri provenienti da questo, possono essere ritenute intollerabili ai sensi dell'art. 844 c.c. anche le immissioni che non superino i limiti fissati dalla l. 13 luglio 1966, n. 615, sull'inquinamento atmosferico
(App. Napoli, 14 maggio 1992, AL, 1993, 311. Trib. Napoli 15 febbraio 1988, Rass. dir. civ., 1990, 902. Trib. Napoli 22 febbraio 1983, DG, 1983, 354. Trib. Vigevano 3 novembre 1981, FI, 1982, I, 2650. Cass. civ., sez. II, 18 agosto 1981, n. 4937).

Data la diversità degli oggetti tutelati dall'art. 844 c.c. e dalla legge contro l'inquinamento atmosferico n. 615 del 13 luglio 1966, norme destinate rispettivamente alla salvaguardia della proprietà l'una e dell'ambiente nel complesso l'altra, non è incompatibile che un medesimo comportamento risulti illecito ai sensi della prima per quanto non lesivo dei limiti legali determinati dalla seconda
La l. 13 luglio 1966, n. 615, recante provvedimento contro l'inquinamento atmosferico, disciplina comportamenti i quali prescindono da qualsiasi collegamento con la proprietà fondiaria, e vengono presi in considerazione in sé e per sé, nell'interesse collettivo alla salvaguardia della salute in generale, e non per stabilire, caso per caso, i limiti di equilibrio nell'utilizzazione della proprietà fondiaria.
Ne consegue che in materia di conflitti tra fondi vicini i comportamenti dannosi che non rientrano nella previsione della disciplina delle immissioni, di cui all'art. 844 c.p.c., possono trovare la loro sanzione in quella dell'illecito aquiliano, nella quale acquistano rilievo tutti gli elementi di prevedibilità concreta che impongono di risarcire il danno derivante dal proprio comportamento colposo, ma non nella disciplina della citata legge antinquinamento, che ha una diversa sfera di operatività.
(Cass. civ., sez. II, 28 marzo 1980, n. 2062, FI, 1980, I, 2191).

Concordemente la dottrina ritiene mantiene fermo il giudizio di separazione dei due sistemi che formano gli oggetti delle due normative (Maugeri 1999, 160).

Le disposizioni contenute nell'art. 844 c.c. per un verso e nella l. 13 luglio 1966, n. 615, nonché nel regolamento approvato con d.p.r. 15 aprile 1971, n. 322, per un altro, tutelano oggetti diversi ed hanno distinti campi di applicazione, essendo destinate, rispettivamente, a proteggere l'una la proprietà, l'altra la salute pubblica dai pericoli derivanti dall'inquinamento atmosferico.
Pertanto, è da escludersi che le disposizioni della legge n. 615 del 1966 contro l'inquinamento atmosferico debbano necessariamente trovare applicazione nel caso di controversia concernente la tutela della proprietà immobiliare da immissioni eccedenti la normale tollerabilità.
(Cass. civ., sez. II, 1 febbraio 1993, n. 1226, FI, 1993, I, 1452).

La norma di cui all'art. 844 c.c. e la l. 615 del 1966 contro l'inquinamento atmosferico tutelano oggetti diversi essendo destinati, rispettivamente, alla salvaguardia della proprietà fondiaria l'una, e alla tutela della salute pubblica l'altra, talché non è inconcepibile che il medesimo comportamento risulti illecito ai sensi della prima e non in violazione della seconda.
(Cass. civ., sez. III, 20 dicembre 1990, n. 12091).

Altro problema è quello di considerare intollerabili d inammissibili le immissioni che superano i limiti ministeriali con la conseguenza di considerare in tal caso i provvedimenti inibitori ovvero considerare le immissioni intollerabili ma ammissibili disponendo, quindi, il risarcimento ma consentendo lo svolgersi dell’attività che le immissioni provocano.
La giurisprudenza sembra orientata su questo secondo indirizzo.

In tema di immissioni in alienum, il criterio posto dall'art. 844, 2° co., c.c. del contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà non implica che nelle zone a prevalente vocazione industriale debbano considerarsi lecite e tollerabili, per il solo fatto della destinazione dell'area interessata al fenomeno immissivo, tutte le immissioni prodotte dall'esercizio delle industrie, ma può rilevare in funzione dell'individuazione del contenuto della sanzione da applicare.
E’ attribuito al giudice il potere di astenersi, nella riconosciuta preminenza dell'interesse delle imprese, dall'adozione di misure inibitorie e di far luogo invece a statuizioni che con il sacrificio della piena tutela della proprietà, consentano la prosecuzione dell'attività industriale inquinante, dietro il pagamento di un congruo indennizzo.
Nella specie la S.C. ha confermato la decisione di merito la quale riscontrata l'intollerabilità di propagazioni di pulviscolo minerale prodotte da uno stabilimento industriale e nella ritenuta inopportunità di statuizioni intese ad inibirne la prosecuzione, aveva attribuito ai proprietari di fondi contigui indennità destinate a compensare il sacrificio derivante ai loro diritti dominicali dalla prosecuzione del fenomeno immissivo
(Cass. civ., sez. II, 1 febbraio 1993, n. 1226, FI, 1993, I, 1452).

Le disposizioni contenute nell'art. 844 c.c. da una parte, e nel d.p.c.m. 28 marzo 1983, che fissa i limiti massimi di accettabilità delle concentrazioni e di esposizione relativi ad inquinanti dell'aria nell'ambiente esterno, dall'altra, hanno finalità e campi di applicazione distinti, essendo l'una posta a presidio del diritto di proprietà, perseguendo l'altra la tutela igienico - sanitaria delle persone o comunità esposte.
Ne consegue che, in caso di controversia attinente alla tutela della proprietà immobiliare dalle immissioni, il giudice di merito, cui è rimessa la relativa indagine, tenuto conto, in concreto, della condizione dei luoghi ed, eventualmente, anche delle esigenze della produzione, da contemperare con quelle della proprietà, può ritenere che le immissioni superino il limite della normale tollerabilità nonostante il mancato superamento dei limiti massimi di inquinamento atmosferico fissati dal citato d.p.c.m.
(Cass. civ., sez. II, 6 giugno 2000, n. 7545, RGE, 2000, I, 1086).

Altro indirizzo giurisprudenziale ammette il ricorso a provvedimenti inibitori.

Le disposizioni della l. 13 luglio 1966, n. 615, contenente provvedimenti contro l'inquinamento atmosferico disciplinano comportamenti che prescindono da qualsiasi collegamento con la proprietà fondiaria e che vengono presi in considerazione in sé e per sé nell'interesse collettivo alla salvaguardia della salute in generale e non per stabilire i limiti di equilibrio nella utilizzazione di tale proprietà, che rimangono affidati alla disciplina delle immissioni, ex art. 844 c.c., senza trovare sanzione nella detta legge avente una diversa portata e sfera di applicazione.
Pertanto, in materia di conflitti tra fondi vicini, il comportamento dannoso del proprietario di uno di essi - quale emissione di fumo prodotto da combustione dalla finestra di un locale adibito a panificio - pur essendo contrario alle dette norme contro l'inquinamento atmosferico, non attribuisce ex se al proprietario di un appartamento nell'edificio in condominio con il primo il diritto di chiederne l'eliminazione, se non nel caso in cui egli dimostri che l'emissione di fumo nel suo appartamento supera il limite della normale tollerabilità ai sensi dell'art. 844 c.c.
(Cass. civ., sez. II, 16 marzo 1988 n. 2470, RCP, 1990, 159).

La dottrina considera l’azione esperita dal proprietario del fondo danneggiato per conseguire l’eliminazione delle cause delle immissioni rientri tra le azioni negatorie, di natura reale, a tutela della proprietà, perché essa è volta a fare accettare in via definitiva l’illegittimità delle immissioni e ad ottenere il compimento delle modifiche strutturali del bene indispensabili per farle cessare, e che l’azione inibitoria, ex art. 844 c.c., può essere esperita dal soggetto leso per ottenere la cessazione delle esalazioni nocive alla salute, salvo il cumulo con l'azione per la responsabilità aquiliana, prevista dall’art. 2043 c.c., oltre che colla domanda di risarcimento del danno in forma specifica, ex art. 2058 c.c. (Pardolesi 1977, I, 1144).

la domanda di indennizzo per il diminuito valore del fondo a causa delle immissioni eccedenti la normale tollerabilità è del tutto diversa da quella di risarcimento dei danni derivanti dalle stesse immissioni, poiché, mentre la prima, fondata sull'art. 844 c.c., ha natura reale e mira al conseguimento di un indennizzo da attività lecita, che compensi il pregiudizio subito dal fondo a causa delle immissioni, la seconda, fondata sull'art. 2043 c.c., ha natura personale, essendo volta a risarcire il proprietario del fondo vicino dei danni arrecatigli dalle immissioni, sotto tale profilo considerato come fatto illecito
(Cass. civ., sez. II, 6 giugno 2000, n. 7545, RGE, 2000, I, 1086. Cass. civ., Sez. U., 15 ottobre 1998, n. 10186).
La dottrina osserva come i giudici non motivano alcun modo la loro scelta di agganciare o meno l’intollerabilità alla violazione degli standard (Maugeri 1999, 169).
Diversamente l’azione penale non può essere lasciata alla discrezionalità del giudice e nel caso di emissioni che siano astrattamente idonee ad arrecare fastidio no può configurasi il reato previsto dall'art. 674 c.p. se no sono stati superati i limiti imposti dalla legge.
Ai fini della configurabilità del reato previsto dalla seconda parte dell'art. 674 c.p. - che punisce l’emissione di gas, vapori o fumi atti a molestare le persone - l'espressione "nei casi non consentiti dalla legge" costituisce una precisa indicazione circa la necessità che tale emissione avvenga in violazione delle norme che regolano l'inquinamento atmosferico, nella specie, del d.p.r. n. 203 del 1988.
Ne consegue che, poiché la legge contiene una sorta di presunzione di legittimità delle emissioni di fumi, vapori o gas che non superino la soglia fissata dalle leggi speciali in materia, ai fini dell'affermazione di responsabilità per il reato indicato non basta l'affermazione che le emissioni stesse siano astrattamente idonee ad arrecare fastidio, ma è indispensabile la puntuale e specifica dimostrazione che esse superino gli standard fissati dalla legge - nel quale caso il reato previsto dall'art. 674 c.p. concorre con quello eventualmente previsto dalla legge speciale.
Quando, pur essendo le emissioni contenute nei limiti di legge, abbiano arrecato e arrechino concretamente fastidio alle persone, superando la normale tollerabilità, si applicheranno le norme di carattere civilistico contenute nell'art. 844 c.c.
Fattispecie concernente l'emissione di fumo dagli impianti di un oleificio.
(Cass. pen., sez. I, 16 giugno 2000, n. 8094, CED, 2000).

Le immissioni derivanti da un’attività tollerabile. I criteri tecnici di riduzione.


Le immissioni che derivano da una attività tollerabile devono essere sopportate dal confinante.
Egli ha l’onere, se ritiene che la normale tollerabilità sia superata, di ricorrere alla magistratura perché disponga un giudizio di accertamento per definire se il limite è stato violato.
La dottrina si chiede se nel giudizio di tollerabilità possano avere influenza i rimedi tecnici adottati dal confinante per ridurre, prima della richiesta del vicino, il danno proveniente dalle immissioni.
Ossia se il proprietario che ha adottato gli accorgimenti tecnici possibili per ridurre al massimo gli effetti provenienti dalle immissioni sia da considerarsi in regola ovvero se il giudizio del magistrato debba tenere conto dei risultati oggettivi provenienti dalla domanda dell’attore e dalla perizia disposta dal consulente tecnico di ufficio (Maugeri 1999, 93).
Ragionando al contrario ci si chiede se il giudizio del giudice debba essere improntato a maggior rigore qualora le immissioni possano essere eliminate mediante accorgimenti tecnici normali, adottabili senza grave sacrificio per l’emittente.
La giurisprudenza esclude che la tollerabilità debba essere valutata con minore rigore nel caso in cui tutte le misure siano state adottate.
I rimedi adottati sono rilevanti, ai fini del giudizio di tollerabilità, solo se raggiungo l’effetto di ricondurre le emissioni a valori accettabili.

La possibilità di eliminare o di ridurre le immissioni con l’adozione di idonei accorgimenti tecnici può influire nella valutazione della tollerabilità delle immissioni stesse, nel senso di fare considerare intollerabile ciò che può essere eliminato senza soverchio sacrificio e con mezzi normali; ma ciò non consente di affermare, in via di illazione, ceh possano valutarsi con minor rigore quelle immissioni rispetto alle quali ogni rimedio sia stato adottato e si sia rilevato, o non possa che rilevarsi, inutile
(Cass. civ., sez. II, 10 ottobre 1975, n. 3241, RGI, 1975, 1452).
La dottrina peraltro considera non significativo l’orientamento giurisprudenziale che riconosce importanza al fatto che l’immissione posa essere evitata con bassi costi.
Nel caso in cui ciò non sia stato fatto, la valutazione della responsabilità dell’agente è stata considerata maggiore in sede di giudizio (Maugeri 1999, 93).
L’orientamento giurisprudenziale prevalente considera che le immissioni che derivano da un’attività collegata alle esigenze di produzione e che siano eliminabili solo con misure tecniche eccessivamente onerose sono lecite, anche se risultano essere superiori alla normale tollerabilità.
Il proprietario del fondo che le patisce ha diritto ad un’indennità che viene valutata in relazione al diminuito valore della proprietà.
La dottrina ha criticato l’interpretazione data dalla giurisprudenza all’art. 844, 2° co., c.c. poiché essa viene considerata eccessivamente favorevole alle attività produttive, sotto un duplice aspetto.
Viene anzitutto contestato il fondamento normativo, dato che manca nell’art. 844 c.c. un’esplicita disposizione in tale senso.
La suddetta legge, infatti, sembra non lasciare nessuna alternativa fra le immissioni ritenute inferiori al livello di normale tollerabilità - che viene determinato anche tenendo presente le esigenze di produzione - che sono considerate lecite, e le immissioni così dette intollerabili, che sono ritenute illecite e che, oltre a provocare il risarcimento del danno, devono essere vietate.
Secondo tale interpretazione, però, risultano essere maggiormente tutelate le attività immissive prodotte da imprese industriali poiché, vista l’importanza che hanno le esigenze di produzione nel giudizio di tollerabilità, difficilmente esse vengono dichiarate illecite.
I proprietari danneggiati, pertanto, sarebbero privati anche della tutela del risarcimento avendo diritto sola alla corresponsione di una indennità per la perdita di valore del fondo.

In tema di immissioni in alienum, il criterio posto dall'art. 844, 2° co., c.c. del contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà non implica che nelle zone a prevalente vocazione industriale debbano considerarsi lecite e tollerabili, per il solo fatto della destinazione dell'area interessata al fenomeno immissivo, tutte le immissioni prodotte dall'esercizio delle industrie, ma può rilevare in funzione dell'individuazione del contenuto della sanzione da applicare nel senso cioè di attribuire al giudice il potere di astenersi, nella riconosciuta preminenza dell'interesse delle imprese, dall'adozione di misure inibitorie e di far luogo invece a statuizioni che, con il sacrificio della piena tutela della proprietà, consentano la prosecuzione dell'attività industriale inquinante, dietro il pagamento di un congruo indennizzo.
Nella specie la Suprema Corte ha confermato la decisione di merito la quale, riscontrata l'intollerabilità di propagazioni di pulviscolo minerale prodotte da uno stabilimento industriale e nella ritenuta inopportunità di statuizioni intese ad inibirne la prosecuzione, aveva attribuito ai proprietari di fondi contigui indennità destinate a compensare il sacrificio derivante ai loro diritti dominicali dalla prosecuzione del fenomeno immissivo
(Cass. civ., sez. II, 1 febbraio 1993, n. 1226, FI, 1993, I, 1452).

La dottrina inquadra la fattispecie fra i casi di responsabilità civile e, in particolare, in quello della responsabilità oggettiva per rischio d’impresa. Secondo la normativa presa in esame non si consente la creazione di un rischio, ma la formazione di un danno, certo e duraturo e, di conseguenza, viene limitata la tutela accordata a chi lo subisce, rispetto a quella risultante dall’art. 844, 1° co., c.c.
Il fondamento su cui si basa l’attribuzione dell’indennità va quindi individuato nei principi regolatori della proprietà e non in quelli della responsabilità civile, in quanto va cercato nel collegamento fra limitazione del diritto e rispondenza dell’attività immissiva all’interesse generale (Salvi 1979, 249).
Sono importanti le suddette considerazioni, in particolare, ai fini della determinazione del quantum dell’indennità e della legittimazione attiva e passiva.

Le immissioni intollerabili ma ammissibili. Il contemperamento fra esigenze della produzione e ragioni della società.

La giurisprudenza, per valutare se immissioni eccedenti la normale tollerabilità siano tuttavia lecite, dietro corresponsione di un’indennità, segue un duplice criterio. In primo luogo il paragonare gli usi dei due fondi sotto il profilo della rispondenza alle esigenze della produzione; in secondo luogo il considerare se è possibile adottare misure tecniche che riducano l’entità delle immissioni.
L’attività industriale è, in via di principio, ritenuta prevalente su forme non produttive di godimento immobiliare.

In tema di immissioni in alienum, il criterio del contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, posto dall'art. 844, 2° co., c.c., non implica che, nelle zone a prevalente vocazione industriale, debbano necessariamente considerarsi lecite e tollerabili, per il solo fatto della destinazione urbanistica data dalla competente p.a. all'area interessata dal fenomeno, le immissioni di qualsiasi natura ed entità determinate dall'attività produttiva, ma implica solo che, nella riconosciuta preminenza dell'interesse collettivo, in termini di prodotto e di occupazione, alla prosecuzione dell'attività immissiva, possa essere effettuata una valutazione comparativa degli interessi dedotti in giudizio ai fini della determinazione del contenuto della sanzione da applicare.
Ciò si realizza con l'attribuire al giudice, una volta che abbia riconosciuto l'esigenza del mantenimento dell'attività produttiva, il potere di astenersi dall'adozione di misure inibitorie, e di far luogo, invece, a statuizioni che, pur con il sacrificio della piena tutela della proprietà individuale, consentano la prosecuzione dell'attività immissiva dietro pagamento di un congruo indennizzo, sempre che detta attività rimanga nei limiti della normale tollerabilità, configurandosi come dannosa, ma lecita.
Ove, invece, tali limiti siano superati, si è in presenza di un'attività illegittima, traducentesi in fatti illeciti generatori di danno risarcibile, ex art. 2043 c.c.
(Cass. civ., sez. II, 29 novembre 1999, n. 13334, GCM, 1999, 2394).

Quando, invece, sul fondo viene svolta un’attività agricola la valutazione cambia, perché anche tale destinazione è considerata rispondente in via di principio alle esigenze della produzione.
Si deve procedere, in tale ipotesi, ad una valutazione comparativa fra le due utilizzazioni, seguendo il criterio della tutela dell’interesse della collettività.
Tale interesse, d’altronde, viene identificato con la produzione di maggiore valore e, talvolta, anche con il mantenimento dell’occupazione operaia, di conseguenza l’attività industriale risulta quasi sempre predominante su quella agricola.
Una volta formulato il giudizio di prevalenza, viene valutata la possibilità di utilizzare misure tecniche adeguate per ridurre le immissioni nocive al limite di tollerabilità.
In questa fase, oltre ad accertare che esistano tecnologie idonee, si deve esprimere anche una valutazione economico finanziaria, di modo che l’eventuale adozione delle suddette misure tecniche non venga ad incidere in maniera eccessiva sui costi, così da danneggiare la produzione industriale (Salvi 1988, 5).
La dottrina ritiene che il contemperamento tra le esigenze della produzione e le ragioni della proprietà possa esplicare una funzione di utilità sociale; esso deve essere opportunamente razionalizzato, basando interamente il giudizio sulla relazione fra il costo della eliminazione o della riduzione delle immissioni e il nocumento da esse portato alle proprietà vicine (Trimarchi 1961, 347).
In questo modo sarebbe possibile, infatti, sia risarcire il proprietario cui si è imposto di sopportare le immissioni che lo danneggiano sia costringere l’azienda che causa le immissioni nocive a riportare nei costi d’impresa le attività antieconomiche esterne da essa provocate.
Altra dottrina preferisce basare questo giudizio di contemperamento sui parametri adottati dalla legge o dai regolamenti che delineano quantomeno oggettivamente dei limiti, salvo, sul caso concreto, il giudizio del giudice ordinario.

Anche prescindendo dalle difficoltà di effettuare, in sede di giudizio civile, un’analisi tecnicamente valida del rapporto fra costi e i benefici delle diverse soluzioni prospettabili, si può tuttavia osservare che una valutazione in termini puramente economici non sembra esaustiva della comparazione di interessi necessaria in sede di applicazione della norma. Questa, infatti, postula comunque la risoluzione del conflitto interprivato mediante il ricorso a criteri metaindividuali di comparazione degli interessi confliggenti.
Ma né l’interesse all’incremento della produzione, né quello alla minimizzazione dei costi sociali appaiono, isolatamente considerati, sufficienti a fondare il giudizio di contemperamento; non si può infatti ritenere che in essi si esaurisca la ‘utilità sociale’, come parametro costituzionale di valutazione delle situazioni soggettive patrimoniali, ai sensi degli artt. 41 e 42 Cost.
Si può piuttosto prospettare un ricorso agli standard massimi di emissione di sostanze inquinanti previsti dalla legislazione di settore (cfr. ad es. la l. n. 615/1966, il d.p.r. n. 322/1971, e, soprattutto, l’art. 4, l. n. 833/1978; nonché le direttive CEE in materia di impatto ambientale), come fonti di integrazione del giudizio di contemperamento, quanto meno nel senso di ritenere comunque suscettibili di inibizione giudiziale le immissioni che eccedano quei livelli, qualora naturalmente superino nel fondo la soglia di tollerabilità
(Salvi 1988, 5).

La determinazione dell’ammontare dell’indennità.

L’attività immissiva considerata lecita può proseguire, sempre che non superi il criterio della normale tollerabilità.
In tal caso, il soggetto che crea il disturbo deve effettuare il pagamento di un congruo indennizzo.
L’attività deve rimanere nei limiti della normale tollerabilità; essa, quindi, pur configurandosi come attività dannosa per il confinante, viene considerata lecita dall’ordinamento che, tuttavia, subordina il suo esercizio all’indennizzo.

In tema di immissioni, con riferimento alle zone a prevalente vocazione industriale, il giudice, una volta che abbia riconosciuto l'esigenza del mantenimento dell'attività produttiva, può astenersi dall'adozione di misure inibitorie, e far luogo, invece, a statuizioni che, pur con il sacrificio della piena tutela della proprietà individuale, consentano la prosecuzione dell'attività immissiva dietro il pagamento di un congruo indennizzo, sempre che detta attività rimanga nei limiti della normale tollerabilità, configurandosi come dannosa, ma lecita; ove, invece, tali limiti siano stati superati, si è in presenza di illegittima attività, che si traduce in fatti illeciti generatori di danno risarcibile, ex art. 2043 c.c.
(Cass. civ., sez. II, 29 novembre 1999, n. 13334, GC, 2000, I, 339 nota Triola, DR, 2000, 636, nota Laghezza, RCP, 2000, 1364, nota Acerbis).

Per quanto riguarda la determinazione dell’ammontare dell’indennità essa non si può né ricondurre ad un generico principio di equità né all’applicazione integrale dei principi nell’ambito del risarcimento del danno, ma solamente deve essere riferita alla struttura e alla funzione della fattispecie.
L’indennità, secondo l’interpretazione giurisprudenziale, va quantificata in base alla differenza fra il reddito che il fondo avrebbe se le immissioni fossero contenute in un limite di tollerabilità considerato normale e quello corrispondente alla diminuzione di valore che il fondo ha subito.
Viene considerata, a questo scopo, la destinazione effettiva della proprietà e non il suo effettivo valore di scambio che, ad esempio, in caso di un mutamento di destinazione, potrebbe essere maggiore, anche se tale criterio sembra essere molto restrittivo.
La dottrina esclude dal pagamento dell’indennità i danni diversi da quelli collegati al godimento del fondo, come i danni alla persona che sono infatti oggetto di una tutela autonoma.

L’inadeguatezza della regola giurisprudenziale concerne però la mancata protezione di interessi pur sempre riconducibili al godimento fondiario, ma diversi dalla rendita di posizione: e in particolare di quelli connessi a un’attività imprenditoriale anche del proprietario (derivante dall’utilizzazione del fondo per l’esercizio di un’impresa agraria, turistica, ricreativa); nonché di quelli propri di soggetti, diversi dal proprietario, titolari di un diritto di godimento sul fondo altrui. Si può auspicare pertanto l’introduzione di parametri più aggiornati, desumibli, con gli opportuni adattamenti, dalla legislazione di settore (in materia di espropriazione e di affitto di immobili urbani ed agrari), e dalle disposizioni del codice sul risarcimento del danno, in particolare gli artt. 1226, 1227, 2056, 2° co., c.c.
L’indennità, inoltre, deve risarcire le conseguenze delle immissioni per tutto il tempo della loro durata, così come si può prevedere, e quindi sia quelle antecedenti la sentenza sia quelle che seguiranno - i così detti danni futuri
(Salvi 1988, 3).

Le immissioni intollerabili. Il superamento del limite della normale tollerabilità.

Le immissioni che superano ogni limite di possibile accettazione e che non sono giustificate dalle esigenza della produzione si definiscono intollerabili e devono essere vietate con l’ordine, dato dal giudice ordinario, di cessazione dell’immissione.
La dottrina afferma che più esattamente detto ordine ha ad oggetto la riconduzione delle immissioni ad un livello che sia al di sotto della soglia della tollerabilità.

Le propagazioni nel fondo del vicino che oltrepassino il limite della normale tollerabilità costituiscono un fatto illecito perseguibile, in via cumulativa, con l'azione diretta a farle cessare (avente carattere reale e natura negatoria) e con quella intesa ad ottenere il risarcimento del pregiudizio che ne sia derivato (di natura personale), a prescindere dalla circostanza che il pregiudizio medesimo abbia assunto i connotati della temporaneità e non della definitività
(Cass. civ., sez. II, 2 giugno 2000, n. 7420, RGE, 2000, I, 1087).

Questo risultato può essere perseguito attraverso la cessazione della attività che provoca il danno oppure attraverso l’adozione di accorgimenti tecnici idonei a ridurre l’entità delle immissioni al livello della normale tollerabilità al fine del raggiungimento della tutela del diritto costituzionale alla salute.

La tutela del diritto alla salute di cui all'art. 32 cost. impone di ritenere
illegittime non solo le immissioni idonee ad arrecare un concreto e dimostrabile danno alla persona, ma anche quelle che possano provocare un mero turbamento del benessere psicofisico, qualora siano di intensità tale da superare la normale tollerabilità; le immissioni inferiori a tale limite, invece, sono da ritenersi illegittime solo ove l'attore sia in grado di dimostrarne l'effettiva dannosità nel caso concreto
(Pret. Torino, 31 dicembre 1997, GI, 1999, 302).

La tutela giurisdizionale. Competenza del giudice di pace.

La tutela giurisdizionale delle immissioni si articola attraverso distinte azioni.
a) La prima ha contenuto inibitorio ed è tesa a fare interrompere le immissioni attraverso un provvedimento sospensivo della magistratura.
b) La seconda consente al proprietario di domandare un indennizzo per il diminuito valore del fondo.
c) La terza consente al soggetto attivo dell’azione di essere risarcito per il tempo del pregiudizio subito.
La giurisdizione è del giudice ordinario trattandosi di dritti soggettivi.

Spetta al giudice ordinario la cognizione della domanda diretta a far cessare il fatto illecito, configurato dalle immissioni intollerabili, ed a conseguire il risarcimento del danno, in quanto con essa si deduce la lesione di diritti soggettivi, senza investire alcun provvedimento amministrativo.
Nella specie, la S.C. ha ritenuto irrilevante la circostanza che l'autorità amministrativa competente, nell'effettuare i controlli richiesti al fine del rinnovo della licenza, non avesse ritenuto di imporre opere o vincoli al proprietario immittente
(Cass. civ., Sez. U., 15 ottobre 1998, n. 10186, GC, 1999, I, 2411).

La competenza è devoluta al giudice di pace.

4. (Il giudice di pace) è competente qualunque ne sia il valore:
3) per le cause relative ai rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti a civile abitazione in materia di immissioni di fumo o di calore, esalazioni, rumori, scotimenti e simili propagazioni che superino al normale tollerabilità.
(Art. 7, 4° co., n. 3, c.p.c.).
L’attribuzione di competenza al giudice di pace in questa materia costituisce una innovazione voluta dalla dottrina, che ha visto nel nuovo giudice di pace un organo da preporre a difesa delle regole di civile tolleranza e convivenza, e da quanti hanno osservato che proprio in ordine a queste problematiche l’elevato costo della giustizia ha privato il cittadino della tutela giudiziaria (Bartolini 1996, 367).

Rientra nella competenza per materia del giudice di pace, ai sensi del n. 3, 4° co., art. 7 c.p.c., la controversia concernente l'immissione di rumori intollerabili - ex art. 844 c.c. - ancorché il sistema di aerazione che ne è causa riguardi locali di edificio che, sito in zona abitativa urbana, non sia adibito ad abitazione.
Nella specie s'è ritenuto che l'uso non propriamente abitativo dell'immobile non osti alla ravvisabilità della speciale competenza per materia del giudice di pace, ove non si tratti di immissioni industriali o agricole, lontano dai centri urbani
(Giudice di pace Canicatti, 4 dicembre 1997, GM, 1998, 414).

L'azione negatoria o confessoria ovvero risarcitoria in tema di immissioni proposta nella controversia tra proprietari o detentori di immobili adibiti a civile abitazione rientra, in virtù dell'art. 7, 4° co., c.p.c., nella competenza per materia del giudice di pace.
(Pret. Monza, 8 luglio 1997, FI, 1997, I, 3446).

La competenza del giudice di pace è tuttavia rimasta vincolata a precisi limiti di individuazione: questa, infatti, concerne i proprietari e detentori, sia pure a qualunque titolo, di immobili adibiti a civile abitazione.
Ne sono, pertanto, escluse le utilizzazioni di immobili adibiti ad uso agricolo, commerciale e industriale nonché le aziende.
La limitazione si estende, quindi, al fenomeno delle immissioni industriali e al traffico urbano che rientrano nella competenza del tribunale.

Appartengono alla cognizione del Giudice di pace tutte le controversie originate da immissioni eccedenti la normale tollerabilità - naturalmente sempre che vengano in rilievo i rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti ad abitazione - quale che sia l'oggetto della domanda e la natura dell'azione (a difesa della proprietà, piuttosto che dei diritti della personalità spettanti anche al semplice detentore dell'immobile in cui si verificano le immissioni), a nulla rilevando che questa sia diretta ad ottenere un provvedimento di carattere inibitorio, ex art. 844 c.c., piuttosto che la condanna al risarcimento dei danni subiti a causa delle immissioni intollerabili, ex art. 2043 c.c.
(Trib. Milano, 29 marzo 1999, Gmil, 2000, 203).

La domanda diverge ha come obiettivo quello di accertare se l’immissione supera la normale tollerabilità essa, quindi, diverge dalle azioni che affermano il mancato rispetto della disciplina delle distanze.
Essa, pertanto, non può essere proposta per la prima volta nel ricorso in appello.

E' nuova la domanda di arretramento della fabbrica o deposito nocivi o pericolosi situati sul fondo del vicino in violazione delle distanze indicate dall'art. 890 c.c. rispetto a quella di cessazione per intollerabilità, ai sensi dell'art. 844 c.c., delle immissioni emananti dalle medesime, introduttiva del giudizio.
Per l'una occorre accertare se l'installazione viola le distanze previste dai regolamenti, o, in mancanza, quelle necessarie ad evitare qualsiasi danno alla solidità, salubrità e sicurezza del fondo vicino; per l'altra se l'immissione supera la normale tollerabilità, contemperando le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà ed eventualmente considerando la priorità dell'uso.
(Cass. civ., sez. II, 30 marzo 2001, n. 4712, GCM, 2001, 633).



La giurisdizione ordinaria nei confronti di atti della pubblica amministrazione. La giurisdizione amministrativa.

La dottrina riconosce concordemente al giudice ordinario la competenza generale nelle cause che riguardano diritti ed in cui sia parte la pubblica amministrazione (Satta 1997, 72).
La giurisdizione ordinaria rimane qualora il soggetto che ha compiuto una immissione dannosa sia una pubblica amministrazione.
Qualora il provvedimento amministrativo leda diritti soggettivi la amministrazione può essere condannata al risarcimento del danno arrecato.
La giurisprudenza ha affermato che la pubblica amministrazione è soggetta ai procedimenti esecutivi come qualsiasi altro debitore.

La tutela risarcitoria dei proprietari a fronte di immissioni intollerabili opera anche nei confronti delle attività istituzionali svolte dalla p.a.
La relativa azione può essere proposta avanti al giudice ordinario, essendo coinvolto un diritto soggettivo, non affievolito da atti di natura ablatoria e non implicando interferenza sull'attività discrezionale dell'amministrazione, ma solo il riscontro di un trasmodare dell'attività stessa in un gratuito sacrificio della proprietà non consentito dall'ordinamento.
Per le immissioni intollerabili causate da attività della p.a. va affermata la responsabilità solidale della p.a. e del gestore del pubblico servizio, essendo l'attività stessa imputabile sia all'amministrazione concedente, sia al concessionario che si attenga alle modalità volute dall'ente e determinate nell'atto di concessione.
Nella specie si tratta di immissioni provenienti da una pubblica discarica gestita, dapprima tramite concessionario e successivamente in modo diretto, da un comune
(Cass. civ., Sez. U., 10 dicembre 1984 n. 6476, RCP, 1985, 649).

La competenza giurisdizionale del giudice ordinario, sulla domanda con la quale il proprietario di un lago, ovvero il titolare di una azienda di piscicoltura ivi esercitata, insorga contro atti e comportamenti della pubblica amministrazione, lesivi di dette posizioni di diritto soggettivo, e non trovanti fondamento nell'esercizio di un potere,discrezionale idoneo a degradare tale posizione in meri interessi legittimi, non viene meno per il fatto che l'attore, oltre al ristoro dei danni, abbia anche richiesto una pronuncia che implichi annullamento, modifica o revoca di provvedimento amministrativo, ovvero abbia funzione sostitutiva del medesimo, con condanna dell'amministrazione ad un facere. Atteso che ciò implica solo il dovere di detto giudice, nel rispetto dei limiti interni dei suoi poteri giurisdizionali, di astenersi dall'emanare l'indicata pronuncia.
Nella specie si tratta di scarichi e di immissioni inquinanti le acque
(Cass. civ., Sez. U., 26 gennaio 1979, n. 600, GCM, 1979, 270).

La giurisdizione amministrativa è titolare delle controversie relative alle censure ai provvedimenti amministrativi che possano avere attinenza con il problema delle immissioni, come, ad esempio, se si deve valutare la legittimità di un provvedimento che autorizza delle immissioni lesive.

E' illegittima la revoca della licenza di esercizio di una discoteca, adattata dal comune nell'esercizio di funzioni di polizia amministrativa di sua competenza, contro le immissioni sonore, senza che nella procedura sia intervenuto il prefetto
(T.A.R. Abruzzi, sez. L'Aquila, 28 novembre 1979, n. 434, FI, 1981, III, 369).

La legittimazione attiva.

Ai sensi dell’ex art. 844 c.c., l’azione è compresa nella così detta tutela generica dei diritti reali, nella quale rientrano le azioni inibitorie e di risarcimento, e non nella tutela reale in senso stretto, ai sensi dell’art. 949, 1° co., c.c. (Proto Pisani 1974, I, 434, ss.).
Il fatto di essere proprietari del bene tutelato dalla legge coincide, in via di principio, con la legittimazione attiva che, quindi, deve appartenere in modo immediato e autonomo a tutti i titolari di diritti, reali e personali, di godimento del fondo sottoposto alle immissioni, superando le ultime incertezze nell’interpretazione giurisprudenziale.

L'azione prevista dall'art. 844 c.c. per far cessare le immissioni provenienti dal fondo vicino che eccedano la normale tollerabilità compete non solo al proprietario o al titolare di un diritto reale di godimento che abbia il possesso del fondo oggetto di immissione moleste, ma anche, analogicamente ex art. 12 preleggi, al conduttore, ex art. 1585, 2° co., c.c., stante l'identità della ragione di tutela sottesa alle due situazioni.
Quando, peraltro, tale azione venga esercitata da chi sia titolare di un diritto personale di godimento, non potendo avere natura reale, non è soggetta alle norme sulla competenza di cui all'art. 15 c.p.c. ma, deve assimilarsi a quelle di cui all'art. 14 c.p.c., con la conseguenza che in caso di contestazione da parte del convenuto, del valore presuntivamente rientrante nella competenza del giudice adito, ove non risultino elementi in base ai quali determinare il costo dei lavori e delle opere occorrenti per eliminare le immissioni intollerabili, la controversia va considerata di valore indeterminabile e, quindi, rientrante ai sensi dell'art. 9, 2° co., c.p.c. nella competenza del tribunale.
(Cass. civ., sez. II, 21 febbraio 1994, n. 1653, GCM, 1994, 187).

La dottrina sostiene, comunque, una interpretazione letterale della norma riducendo le possibili estensioni della legittimazione attiva a soggetti non portatori di un interesse rapportato alla tutela del fondo.
Non pare invece che la legittimazione possa essere estesa a soggetti diversi, individuali o collettivi; né che possa essere intesa come requisito strumentale per il perseguimento dell’interesse generale alla tutela della salute o dell’ambiente
(Salvi 1988, 6).

La tutela accordata alla proprietà fondiaria viene definita dall’art. 844 c.c.; si può poi estendere giustamente detta norma alla tutela di altri diritti di godimento del fondo, sia reali che personali.
Tale disposizione, invece, non si può applicare alla tutela di beni giuridici profondamente diversi, come la salute o l’ambiente, in quanto essa risulterebbe da un lato troppo debole dal punto di vista interpretativo, poiché contrasta in modo evidente con il contenuto, la struttura e la funzione della legge proposta del codice, dall’altro inutile dal punto di vista della politica del diritto.
E’ infatti ammissibile la tutela civile della salute ed eventualmente dell’ambiente se è fondata sull’interpretazione sistematica dell’art. 32, 1° co., cost.
Solo sulla base delle norme costituzionali può quindi essere attribuita o negata, a soggetti individuali o collettivi, la legittimazione ad agire in giudizio civile contro episodi di inquinamento, a tutela della salute e dell’ambiente.
Il dettato dell’art. 844, invece, non può essere assunto né per affermare né per negare tale tutela né per definirne l’ambito e le modalità.
Il proprietario fondiario può agire a tutela del suo diritto reale sul fondo, ai sensi dell’ex art. 844, e a tutela del suo diritto alla salute, ai sensi dell’ex art. 32 cost. e degli artt. 2043 e ss. c.c.; inoltre, per il risarcimento dei danni alla persona che non sono compresi nell’indennità, ai sensi dell’art. 844, 2° co., c.c.
Il proprietario resta legittimato ad agire, per il tempo in cui ha subito il danno, anche se nel corso del giudizio ha alienato il fondo

Nel caso di immissioni moleste eccedenti la normale tollerabilità, di cui all'art. 844 c.c., l'alienazione del fondo, verificatasi nel corso del giudizio diretto ad ottenere il risarcimento dei danni, non spiega alcuna influenza sulla legittimazione dell'originario proprietario a proseguire tale giudizio, almeno limitatamente ai danni prodotti all'immobile prima del suo trasferimento, sempre che non risulti che sia stato ceduto all'acquirente anche il diritto di credito al ristoro dei danni stessi.
(Cass. civ., sez. II, 29 novembre 1999, n. 13334, RCP, 2000, 1364, nota Acerbis).

I principi costituzionali nell’ambito dell’iniziativa economica e della proprietà e i principi definiti dalla nuova legislazione specifica del settore continuano a svolgere il loro ruolo per quanto attiene la reinterpretazione dei criteri previsti dall’art. 844 c.c.

Il soggetto passivo.

Non necessariamente il proprietario del fondo dal quale provengono le immissioni è responsabile del pagamento dell’indennità per immissioni intollerabili, ma lecite.
E’ il titolare dell’attività che le causa, che è anche titolare dell’interesse – considerato coincidente con l’interesse generale - per cui viene imposta la corresponsione dell’indennizzo, che deve risarcire la lesione del diritto del fondo vicino.
Il litisconsorte necessario non è il proprietario del fondo immittente, ai sensi dell’art. 102 c.p.c., dato che non è soggetto del rapporto (Salvi 1988, 7).
Egli ha certamente un interesse per quanto riguarda la decisione sulla liceità delle immissioni, dato che può essere avvantaggiato o danneggiato dall’esito del giudizio perché esso condiziona i possibili modi di utilizzare il fondo, ma si tratta di un interesse eventuale e indiretto.
Il proprietario del fondo da cui provengono le molestie può tuttavia essere chiamato in causa per altri fini: su richiesta del convenuto, ex art. 106, c.p.c., e ai fini di cui all’art. 1585, 1° co., c.c.; oppure su richiesta dello stesso proprietario, ex art. 105, 2° co., c.p.c.
Qualora poi il detentore del fondo sul quale avviene l’attività che provoca le immissioni, avendo pagato l’indennità, faccia rivalsa nei confronti del proprietario del fondo stesso, la situazione deve essere valutata caso per caso sulla base del contenuto del rapporto che giustifica la detenzione.
Il legittimato passivo è il produttore dell’immissione che può anche non essere il titolare dell’industria.

L'azione diretta a far valere il divieto di immissioni eccedenti la normale tollerabilità, ex art. 844 c.c., può essere esperita anche nei confronti dell'autore materiale delle immissioni, che non sia proprietario dell'immobile da cui derivano e, quindi, anche nei confronti del locatario di questo stesso immobile, quando soltanto a costui debba essere imposto un facere o un non facere, suscettibile di esecuzione forzata in caso di diniego.
(Cass. civ., sez. II, 1 dicembre 2000, n. 15392, GCM, 2000, 2533).

La giurisprudenza ha ritenuto legittimato passivo l’esecutore dei lavori e non il proprietario dell’immobile su cui questi venivano eseguiti.

Nel giudizio cautelare iniziato per ottenere la cessazione o la riduzione nei limiti della normale tollerabilità delle immissioni sonore prodotte da un cantiere edile, la legittimazione passiva spetta all'autore materiale delle immissioni e non al proprietario dell'immobile ove vengono svolti i lavori rumorosi.
(Trib. S. Maria Capua Vetere, 25 novembre 1997, GIUS, 1998, 639).

La dottrina configura il legittimato passivo come il titolare del dovere connesso alla gestione dell’azienda.
L’obbligazione è, dunque, reale e concerne la proprietà dell’azienda (De Martino, Resta e Pugliese 1976, 212).
Essa vincola il proprietario attuale e si trasmette con la cosa; in una eventuale cessione sono solidamente obbligati il precedente proprietario ed il nuovo.
Nel caso di immissioni industriali il legittimato passivo può fare valere la legittimità delle immissioni se rientrano nei limiti di legge.

Nel giudizio, il convenuto eccepirà, normalmente, di avere il ‘diritto’ di compiere le immissioni, sulla base dei criteri fissati dalla norma. Ma tale ‘diritto’ non costituisce comunque una situazione giuridica autonoma e qualificata sul fondo immesso (neppure in caso di applicazione del 2° co. dell’art. 844, non essendo tale fattispecie interpretabile come costituzione di servitù coattiva), bensì il riflesso della limitazione dell’ambito di tutela accordato al proprietario di tale fondo
(Salvi 1988, 6).

Nell’accertamento fatto in giudizio viene valutata la legittimità delle ingerenze e non l’esistenza di un diritto del convenuto, che, al limite, può essere considerato in modo superficiale e ininfluente.
L’autore del fatto dannoso, secondo i principi normativi, è il legittimato passivo che è obbligato al risarcimento del danno provocato da immissioni illecite.
E’ obbligato al risarcimento il proprietario non detentore solo nel caso che il fatto dannoso risulti a lui imputabile, ai sensi degli artt. 2043 ss, e non per il mero fatto di aver concesso l’immobile.

L’azione inibitoria.

Le immissioni intollerabili possono essere impedite mediante un’azione tesa ad ottenere una condanna che comporti la cessazione delle turbative (Bianca 1999, 247).
La dottrina, per quanto riguarda le emissioni inquinanti, propone il rimedio inibitorio e anche la giurisprudenza comincia a sostenere questa soluzione (Gambaro 1995, 525).
La funzione di prevenzione può operare solo attraverso specifici ordini del giudice che impongano a colui che ha creato una situazione di pericolo di astenersi da certe condotte o di adottare determinate cautele.

La norma sostanziale di riferimento sarà sempre il principio generale del neminem ledere, ma esso per divenire operante in funzione preventiva necessita di concretizzarsi in ordini che si attaglino a specifiche occasioni di pericolo.
Perciò i rimedi preventivi non possono essere tipizzati in ipotesi rigide, ma si sostanziano in un attribuzione di poteri al giudice di emanare gli ordini di fare o di non fare in presenza di certi presupposti generali
(Gambaro 1995, 919).

La normativa del resto impone dei limiti sempre più cogenti alle emissioni inquinanti e, di conseguenza, alla maggior parte delle situazioni in cui si verificano emissioni industriali viene applicato questo rimedio, dato che, se le immissioni intollerabili derivano da emissioni proibite, il giudice non ha scelta.
L’inibizione può riguardare solo l’emissione e non l’attività produttiva e, quindi, è troppo generica l’espressione della dottrina che riferisce l’azione inibitoria alla continuazione di una certa attività.
La parte in causa, pertanto, può richiedere e il giudice può adottare il provvedimento inibitorio purché sussista un pericolo di danno dipendente dal comportamento del convenuto.

Quando si domanda un provvedimento d'urgenza ex art. 700 c.p.c. a tutela del diritto alla salute, il pregiudizio affermato è da considerarsi sempre irreparabile e imminente.
(Pret. Torino, 31 dicembre 1997, GI, 1999, 302).

La funzione del provvedimento inibitorio sta nell’ordine di contenere le emissioni in una certa misura adatta a far rientrare l’attività che la provoca nell’ambito di quella che è considerata la normale tollerabilità.

E' ammissibile la richiesta in via cautelare di inibitoria dell'attività produttiva di rumori molesti qualora la violazione lamentata sia attuale, dovendosi tutelare l'esigenza di un immediato venire meno delle fonti di disturbo.
(Trib. Perugia, 15 giugno 1999, RGU, 1999, 751).

L'azione inibitoria ex art. 844 c.c. può essere esperita per conseguire la cessazione delle esalazioni nocive alla salute, salvo, per l'ottenimento del risarcimento del danno, il cumulo con l'azione per la responsabilità aquilana prevista dall'art. 2043 c.c.
(Cass. civ., Sez. U., 15 ottobre 1998, n. 10186, RGA, 1999, 500 nota De Cesaris. App. Venezia, 31 maggio 1985, GI, 1987, I, 2, 493).

E’ colui che provoca le emissioni nocive che deve scegliere se continuare l’attività produttiva dopo aver adottato gli idonei accorgimenti tecnici o cessarla per evitare la spesa della loro adozione.
Le disposizioni dell’art. 844 c.c. non permettono che il giudice censuri il fatto che l’emittente eserciti un’attività anormale nel suo fondo, ma solamente che egli blocchi, se del caso, immissioni inquinanti sul fondo altrui.
Il giudice può naturalmente ordinare la cessazione dell’attività se l’imprenditore non adotta gli opportuni accorgimenti e, quindi, continua a ripetere le emissioni dannose.
L’accertamento del giudice è relativo al caso concreto e può essere necessario anche se le immissioni risultano essere contenute entro i parametri fissati dai regolamenti che le disciplinano.

Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda diretta ad ottenere l'esecuzione di opere idonee ad eliminare le immissioni, in quanto la parte agisce a tutela dei diritti soggettivi lesi dalle immissioni, senza investire alcun provvedimento amministrativo.
Nel caso di specie la S.C. ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario in un caso in cui erano state ordinate opere di insonorizzazione per evitare immissioni di rumore, benché fosse stata rinnovata la licenza al locale officina e l'USSL non avesse riscontrato alcuna anomalia.
(Cass. civ., Sez. U., 15 ottobre 1998, n. 10186, GCM, 1998, 2086).

I giudici, per quanto riguarda gli accorgimenti tecnici che devono essere imposti all’emittente perché cessino le immissioni intollerabili, utilizzano spesso nelle loro pronunce le indicazioni fornite dai consulenti tecnici d’ufficio.
Sembra più logico, invece, che il giudice si limiti ad ordinare nella sua inibitoria che il fenomeno dell’immissione nociva venga eliminato o ridotto nei termini consentiti, lasciando l’individuazione degli accorgimenti tecnici necessari alla libera scelta dell’emittente.

L'azione diretta a far cessare le immissioni rumorose intollerabili e nocive alla salute rientra nello schema delle azioni negatorie di natura reale e può cumularsi con l'azione diretta a conseguire il risarcimento del danno subito, anche in forma specifica
(Cass. civ., Sez. U., 15 ottobre 1998, n. 10186, FI, 1999, I, 922).

Le immissioni costituiscono molestie del possesso e, pertanto, il possessore del fondo può agire con l’azione, ex art. 1170 c.c., che ha come obiettivo quello di farle cessare (Bianca 1999, 858).
La molestia, causata dall’immissione, ostacola e rende più gravoso il possesso. Essa non priva, dunque, a differenza dello spoglio, il possessore del godimento del bene, ma ne turba l’esercizio.
In tal caso la molestia si estrinseca in una attività che è necessariamente materiale.
La cessazione della molestia, anteriormente alla proposizione dell’azione, fa venire meno il presupposto della stessa.
La molestia deve esser esaurita e non presentare alcun pericolo concreto ed attuale di manifestarsi ulteriormente.
In tal caso all’attore resta l’azione risarcitoria per il periodo del perdurare dell’immissione dannosa.

Il provvedimento, adottato ai sensi dell'art. 700 c.p.c., di inibizione a un circolo ricreativo allo svolgimento di attività comportanti una rumorosità superiore a una determinata soglia (nella specie tre decibel) è da ritenere dato sia per la tutela del diritto alla salute della parte istante, sia per la tutela del suo diritto, in qualità di proprietario e possessore di appartamento contiguo, a escludere o limitare le immissioni provenienti dal circolo medesimo, a norma dell'art. 844 c.c.
(Cass. pen., sez. I, 5 marzo 1998, n. 3769, CP, 1999, 2843).

In ogni caso l’azione inibitoria non preclude la contestuale richiesta di risarcimento del danno o del risarcimento in forma specifica.

L'azione esperita dal proprietario del fondo danneggiato per conseguire l'eliminazione delle cause di immissioni rientra tra le azioni negatorie, di natura reale, a tutela della proprietà.
Essa è volta a far accertare in via definitiva l'illegittimità delle immissioni e ad ottenere il compimento delle modifiche strutturali del bene indispensabili per farle cessare.
L'azione inibitoria, ex art. 844 c.c. può essere esperita dal soggetto leso per consentire la cessazione delle esalazioni nocive alla salute, salvo il cumulo con l'azione per la responsabilità aquiliana prevista dall'art. 2043 c.c. nonché con la domanda di risarcimento del danno in forma specifica, ex art. 2058 c.c.
(Cass. civ., Sez. U., 15 ottobre 1998, n. 10186, GCM, 1998, 2086).

La mancata ottemperanza alla sentenza del giudice ordinario fa incorrere il soggetto attivo dell’immissione nelle sanzioni disposte dalla legge penale.

Qualora, sulla base dell'art. 844 c.c. che pone limiti alle immissioni di rumori dannose provenienti dai fondi vicini, venga emessa ordinanza in via d'urgenza, ex art. 700 c.p.c., al fine di tutelare la salute e il diritto di proprietà o il possesso dei vicini, la violazione di tale provvedimento integra il delitto previsto dall'art. 388, 2° co., c.p. e non la contravvenzione di cui all'art. 650 stesso codice.
(Cass. pen. sez. I, 5 marzo 1998, n. 3769, RP, 1998, 580).


La domanda di indennizzo per il diminuito valore del fondo.

Nel riconoscere l’indennizzo per il diminuito valore del fondo la giurisprudenza tuttavia si basa sul fondamento normativo dei principi costituzionali nell’ambito della proprietà privata e, in particolare, sul principio per cui se il contenuto del diritto di proprietà subisce una sostanziale diminuzione, provocata da un atto singolare, e quindi non per intere categorie di beni e nell’interesse generale, il proprietario deve essere indennizzato.

Nell’ipotesi considerata, infatti, l’indennità non svolge la funzione di integrare economicamente il soggetto che ha subito l’intervento lesivo, ma di attribuire un corrispettivo al titolare di un bene per le conseguenze derivanti dalla limitazione del contenuto del suo diritto. Per questo la giurisprudenza esclude che l’indennità possa configurarsi come risarcimento del danno, ex art. 2043 c.c.
(Salvi 1988, 2).

La domanda di indennizzo per il diminuito valore del fondo a causa delle immissioni eccedenti la normale tollerabilità è del tutto diversa da quella di risarcimento dei danni derivanti dalle stesse immissioni.
La prima, fondata sull'art. 844 c.c., ha natura reale e mira al conseguimento di un indennizzo da attività lecita, che compensi il pregiudizio subito dal fondo a causa delle immissioni.
La seconda, fondata sull'art. 2043 c.c., ha natura personale, essendo volta a risarcire il proprietario del fondo vicino dei danni arrecatigli dalle immissioni, considerate, in tal caso, come fatto illecito.
Sotto il profilo processuale le due azioni sono distinte e, pertanto, in sede di appello, nel caso di presentazione di entrambe le richieste si devono osservare i termini processuali per le relative impugnative

Ne consegue che la statuizione, adottata dal giudice di primo grado, di rigetto della domanda risarcitoria e di accoglimento di quella indennitaria, ed appellata dal condannato, in difetto di appello incidentale in ordine al rigetto della prima, deve ritenersi passata in giudicato su tale punto, sul quale, pertanto, il giudice di appello non può più pronunciarsi.
(Cass. civ., sez. II, 6 giugno 2000, n. 7545, RGE, 2000, I, 1086).

La giurisprudenza esclude che ci possa essere compensazione tra tale risarcimento e l’avvenuto incremento del valore del fondo per l’insediamento industriale.
In ogni caso è affermato dalla dottrina più autorevole che la rendita di posizione è semmai acquisita per la conformazione della proprietà privata, effettuata con la destinazione di zona attribuita dallo strumento urbanistico esistente, e non per la realizzazione della singola opera attuativa del piano stesso (Gambaro 1995, 250).

La cosiddetta compensatio lucri cum damno opera solo allorché a favore della parte danneggiata si verifichi, oltre al pregiudizio, anche un incremento patrimoniale che costituisca conseguenza immediata e diretta del comportamento illecito che ha causato il pregiudizio stesso, e non quando, invece, il vantaggio, del cui valore economico si chieda l'imputazione in conto al valore economico del pregiudizio, derivi non da detto comportamento illecito, ma da circostanze oggettive ad esso del tutto estranee.
Pertanto, è da escludere che possa prendersi in considerazione, ai fini di una sua detrazione dalla entità economica del danno prodotto da immissioni industriali, l'eventuale maggior valore che l'immobile da queste interessato possa aver acquisito per essersi venuto a trovare in zona di sviluppo industriale a seguito dell'approvazione del locale piano regolatore.
(Cass. civ., sez. II, 29 novembre 1999, n. 13334, GCM, 1999, 2394).

La tutela risarcitoria.

Chi ha subito un danno ai beni o alla persona in conseguenza delle immissioni può richiedere in via aggiuntiva o esclusiva il risarcimento del danno (Bianca 1999, 249).
Per potere ottenere il risarcimento, il giudice di merito deve ritenere intollerabili le immissioni e deve dare una adeguata motivazione del suo convincimento.
Secondo la regola della responsabilità civile il danneggiato che ricorra in giudizio per ottenere il risarcimento del danno deve dare la prova di quest’ultimo.
Non occorre dare una prova specifica della colpa.
Essa risulta presuntivamente dall’inosservanza degli standard necessari a salvaguardare il diritto del vicino alla normale utilizzazione dell’immobile.

L'art. 844 c.c. impone, nei limiti della normale tollerabilità e dell'eventuale contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, l'obbligo di sopportazione delle propagazioni inevitabili determinate dall'uso delle proprietà attuato nel contesto delle norme generali e speciali che ne disciplinano l'esercizio.
Al di fuori di tali limiti, si è in presenza di un'attività illegittima, di fronte alla quale non ha ragion d'essere l'imposizione di un sacrificio all'altrui diritto di proprietà o di godimento e non sono quindi applicabili i criteri dettati dall'art. 844 c.c. ma, venendo in considerazione, in tali ipotesi, unicamente l'illecità del fatto generatore del danno arrecato a terzi, si rientra nello schema generale dell'azione di risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c. che può essere proposta anche cumulativamente con l'azione ex art. 844 c.c.
(Cass. civ., sez. II, 6 dicembre 2000, n. 15509, GCM, 2000, 2558).

Certa dottrina richiama la teoria della responsabilità oggettiva per il solo fatto di esercitare un particolare tipo di attività imprenditoriale che provoca situazioni potenzialmente dannose.

La fattispecie di cui all’art. 844 c.c. concreta una ipotesi di responsabilità oggettiva perché l’evento dannoso deriva da una attività imprenditoriale che crea – inevitabilmente – un rischio per i vicini, rischio che deve riversarsi sull’impresa.
(Alpa 1974, I, 15).

Il richiamo alla teoria della responsabilità oggettiva non è, però, accettato unanimemente dalla dottrina, poiché il potere di impedire le immissioni intollerabili rientra nei rimedi a tutela della proprietà, mentre il risarcimento del danno attiene alla responsabilità aquiliana e presuppone di regola che il danno sia imputabile a dolo o colpa del danneggiante.
Egli può provare a sua discolpa, totale o parziale, che le immissioni sono state provocate da un evento estraneo alla sua sfera di controllo (Massimo Bianca 1999, 249).
Il danno può essere sia di tipo biologico sia anche morale.

Coloro che, a causa di immissioni provenienti dal fondo del vicino e qualificabili come illecite, in quanto eccedenti la normale tollerabilità ex art. 844 c.c., subiscono un danno, non necessariamente di carattere biologico, ma anche semplicemente di tipo esistenziale, ossia un danno consistente in un turbamento delle normali attività dell'individuo e della serenità personale cui ciascun soggetto ha diritto, devono essere risarciti ai sensi dell'art. 2043 c.c.
(Trib. Milano, 21 ottobre 1999, NGCC, 2000,I, 558 nota Morlotti).

La sottoposizione ad immissioni acustiche eccedenti la normale tollerabilità determina - a carico dei soggetti che le subiscono - una lesione della salute, in quanto il fenomeno immissivo appare idoneo come tale, a provocare stress, fastidio, esasperazione e tensione psicologica.
Ne consegue che il danno biologico sarà risarcibile a prescindere dalla prova dell'esistenza di patologie e dalla dimostrazione dell'avvenuto impedimento delle manifestazioni e delle attività extralavorative non retribuite ordinarie che esprimono la salute in senso fisio - psichico
In presenza di immissioni sonore che superino il limite della normale tollerabilità vi è lesione del bene salute nel momento stesso della realizzazione del fatto illecito, con conseguente esonero del danneggiato dalla prova dell'esistenza di patologie conseguenti alla lesione; pertanto la risarcibilità del danno biologico deve essere collegata all'esistenza e alla sopportazione di un'esposizione ad intollerabili e fortemente lesive immissioni acustiche, idonee a compromettere le utilità della vita di relazione non godute
(Trib. Milano, 25 giugno 1998, AL, 1998, 723).

E’ proponibile l’azione prevista dell'art. 46 della l. n. 2359/1865, ora sost. dall’art. 44, d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327, qualora il danno derivi dall’esecuzione di un’opera pubblica.

Le immissioni provenienti da un'opera pubblica possono costituire ragioni di danno indennizzabile ai sensi dell'art. 46 della l. n. 2359 del 1865 a condizione che nei confronti della proprietà che le subisce costituiscano fattore di danno particolare permanente, superiore alla normale tollerabilità
(Cass. civ., sez. I, 19 novembre 1999, n. 12853, GCM, 1999, 2302).

L’azione di risoluzione del contratto per i vizi della cosa venduta.

La dottrina e la giurisprudenza si sono poste il problema se sussista la garanzia per vizi della cosa venduta nel caso di un bene immobile al costruttore o al proprietario del quale sia noto il vizio dovuto alle immissioni di rumori, provocati da difetti della costruzione dell’appartamento sovrastante.
La giurisprudenza ritiene che sussista la garanzia per vizi qualora la cosa venduta presenti difetti che la rendano inidonea all’uso cui è destinata o ne diminuiscano in misura apprezzabile il valore, mentre eventuali profili di colpa dell’alienante rilevano, ex art. 1424 c.c. ai soli eventuali fini risarcitori.

Nel caso di vendita di immobile soggetto a rumori derivanti da quello del vicino, il venditore risponde della garanzia per i vizi della cosa venduta, senza che rilevi il fatto che la sua responsabilità possa concorrere con quella del vicino a titolo di immissioni
(Cass. civ., sez. II, 22 agosto 1998, n. 8338, FI, 1999, I, 188 nota Scoditti, Pardolesi, NGCC 1999, I, 449 nota Carsana).

In tema di compravendita, l'obbligazione di garanzia gravante sul venditore discende dal fatto oggettivo del trasferimento di un bene affetto da vizi che lo rendano inidoneo all'uso cui è destinato o ne diminuiscano in misura apprezzabile il valore, mentre eventuali profili di colpa dell'alienante rilevano, ex art. 1424 c.c., ai soli, eventuali e diversi fini risarcitori.
Ne consegue che, in caso di immissioni, eccedenti o meno la normale tollerabilità la preesistenza del vizio rispetto alla conclusione del contratto di compravendita rende responsabile il venditore per aver alienato un bene oggettivamente affetto da un determinato difetto, senza che rilevi, in contrario, né la astratta possibilità della coesistenza di tale profilo di responsabilità con quello, concorrente ma a diverso titolo, del vicino, ai sensi dell'art. 844 c.c., né il mancato superamento della soglia di normale tollerabilità delle immissioni, poiché il predetto limite è specificamente stabilito per la proponibilità della sola azione, ex art. 844 c.c.
Nell'affermare il principio di diritto esposto in massima, la S.C. ha cassato la sentenza del giudice di merito - che aveva escluso la legittimazione passiva dell'alienante attesa la estraneità del vizio alla res empta - disponendo che il giudice del rinvio procedesse all'accertamento relativo alla concreta ed apprezzabile diminuzione del valore dell'appartamento alienato per effetto del vizio denunciato.
Nella specie si tratta della rumorosità delle tubazioni del bagno sito nell'appartamento immediatamente superiore a quello alienato
(Cass. civile, sez. II, 22 agosto 1998, n. 8338, CG, 1998, 1155).

L’orientamento giurisprudenziale risolve il problema adottando la soluzione favorevole all’acquirente, in quanto ritiene sussistere la garanzia per vizi anche in presenza della possibilità della coesistenza di tale profilo di responsabilità del venditore con quello concorrente, ma a diverso titolo, del condomino.
Diversamente ,la Corte di Appello di Milano, la cui decisione è stata cassata (Cass. civile, sez. II, 22 agosto 1998, n. 8338), ha escluso la legittimazione passiva dell’alienante costruttore sulla base dell’estraneità del vizio alla cosa oggetto di compravendita, in quanto la rumorosità non è insita nell’appartamento venduto, ma proviene dalla sovrastante abitazione acquistata da un terzo dal comune venditore costruttore.
La dottrina nota come il limite della normale tollerabilità disposto dall’art. 844 c.c. in tema di immissioni in caso dell’azione di garanzia perda i confini che gli sono propri sicché il vizio è facilmente ravvisabile.

La diversità ontologica tra le due azioni ha dato luogo a un affermazione pericolosa nel senso che il mancato superamento della soglia d normale tollerabilità delle immissioni, rileva per la proponibilità della sola azione ex art. 844 c.c., ma non anche ai fini della garanzia per vizi, dove il predetto limite non sarebbe specificatamente stabilito.
Il punto debole della decisione è appunto la consistenza e il fastidio del rumore, non continuo e non intollerabile, per il quale tuttavia l’originario costruttore–venditore, solo perché a conoscenza del vizio, deve prestare garanzia, ove il giudice del rinvio accerti la concreta ed apprezzabile diminuzione di valore dell’appartamento alienato per effetto del vizio denunciato
(Carbone 1998, 1157).

La dottrina considera il vizio del bene venduto come un’imperfezione materiale, un’alterazione patologica della cosa che incide sulla sua utilizzabilità o sul suo valore e che, con riguardo alle opere, si ravvisa nelle anomalie di forma, struttura e composizione (Bianca 1993, 885).
Nei confronti dei difetti intrinseci della cosa venduta l’ordinamento appresta per l’acquirente una duplice tutela: la risoluzione del contratto o la cosiddetta quanti minoris, ossia la riduzione del prezzo, poste sullo stesso piano, sicché l’acquirente che agisca in garanzia per i vizi della cosa venduta non può esercitare l’azione per la riduzione del prezzo (Carbone 1998, 1157).
Per l’orientamento giurisprudenziale prevalente fra le obbligazioni principali del venditore, ex art. 1476, n. 3, c.c. vi è quella di garantire il compratore dai vizi della cosa vnnenduta solo che i limiti dell’oggetto da garantire non si riferiscono solo al bene oggetto di compravendita, ma comprendono anche il fabbricato complessivo cui l’unità immobiliare appartiene i cui vizi sono, però nel caso di specie, noti al venditore.
La garanzia per vizi appare l’unica che fornisce una tutela completa al compratore anche perché l’azione di cui all’art. 844, c.c. non può trovare accoglimento ove le immissioni non superino la soglia minima della normale tollerabilità.
In via di principio la rumorosità, anche a prescindere dalla tollerabilità e dalla gravità rende, comunque, l’immobile inidoneo all’uso cui esso è destinato, diminuendone in modo apprezzabile il valore.
E’ da segnalare che la giurisprudenza richiede, in ogni caso, che venga accertata l’esistenza, la gravità e la riconoscibilità del vizio dal giudice di merito ai fini della pronuncia sulla domanda.

L'accertamento, da parte del giudice di merito, dell'esistenza, gravità, apparenza e riconoscibilità dei vizi della cosa compravenduta, ai fini della pronuncia sulla domanda redibitoria, costituisce apprezzamento di merito insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione adeguata e priva di vizi logici e giuridici

(Cass. civ., sez. II, 30 agosto 1994, n. 7589, GCM, 1994, 1117).

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