giovedì 7 novembre 2013

Codice ambiente. Parte VI Titolo II Prevenzione e ripristino ambientale.

1            Codice ambiente. Parte VI  Titolo II Prevenzione e ripristino ambientale.

2            Ambiente. Azione risarcitoria. Legittimazione ad agire.


La L. 3 luglio 1986, n. 349, art. 18 (istitutiva del Ministero dell'ambiente) ha introdotto nel nostro ordinamento, quale forma particolare di tutela, l'obbligo di risarcire il danno cagionato all'ambiente (alterazione, deterioramento o distruzione anche parziale) a seguito di una qualsiasi attività, dolosa o colposa, compiuta in violazione di un dispositivo di legge o di un provvedimento adottato in base a legge.
E' stata così prevista una peculiare responsabilità di tipo extracontrattuale (aquilana) connessa a fatti, dolosi o colposi, cagionanti un danno "ingiusto" all'ambiente, dove l'ingiustizia è stata correlata alla violazione di una disposizione di legge.
Il citato art. 18 prescriveva che l'azione di risarcimento del danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, potesse essere promossa dallo Stato, nonchè dagli enti territoriali sui quali incidevano i beni oggetto del fatto lesivo (comma 3).
La strada risarcitoria restava aperta ai privati solo ove lamentassero la lesione di un bene individuale compromesso dal degrado ambientale, sia esso la salute che il diritto di proprietà o altro diritto reale.
3.2 Il D.Lgs. n. 152 del 2006 (art. 318) ha espressamente abrogato (ad eccezione del comma 5, che riconosce alle associazioni ambientaliste il diritto di intervenire nei giudizi per danno ambientale) la L. n. 349 del 1986, art. 18 e, nell'art. 300 (commi l e 2), ha definito la nozione di "danno ambientale" con riferimento a quella posta, in ambito comunitario, dalla direttiva 2004/35/CE. Lo stesso D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 311 riserva attualmente allo Stato, ed in particolare al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, il potere di agire, anche esercitando l'azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale (in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale).
Ai sensi del successivo art. 313, comma 7, comunque, "resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi".
Si è avuto così un ridimensionamento del ruolo degli enti locali, ai quali è stata espressamente attribuita la sola facoltà di sollecitare l'intervento statale (art 309) e di ricorrere in caso di inerzie od omissioni (art. 310), ma non la legittimazione ad agire ed intervenire in proprio per il risarcimento del danno ambientale.
Rientrano nella esclusiva pertinenza statale i profili strettamente riparatori dell'ambiente in sè, mentre gli enti territoriali possono agire per il risarcimento dei danni diversi, derivanti dalla lesione di interessi locati specifici e differenziati di cui sono portatori, ad essi eventualmente arrecati (vedi Cass., Sez. 3, n. 755/2009).
La normativa  dianzi descritta si affianca (non sussistendo alcuna antinomia reale) alla disciplina generale del danno posta dal codice civile, sicchè le associazioni ambientaliste - pure dopo l'abrogazione delle previsioni di legge che le autorizzavano a proporre, in caso di inerzia degli enti territoriali, le azioni risarcitorie per danno ambientale (D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 9, comma 3, abrogato dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 318) - sono legittimate alla costituzione di parte civile "iure proprio", nel processo per reati che abbiano cagionato pregiudizi all'ambiente, per il risarcimento non del danno all'ambiente come interesse pubblico, bensì (al pari di ogni persona singola od associata) dei danni direttamente subiti: danni diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a quello, generico di natura pubblica, della lesione dell'ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale (vedi Cass., sez. 3: 3.10.2006, n. 36514, Censi; 11.2.2010, n. 14828, De Flammineis).
Le associazioni ambientaliste, dunque, sono legittimate a costituirsi parte civile quando perseguano un interesse non caratterizzato da un mero collegamento con quello pubblico, bensì concretizzatosi in una realtà storica di cui il sodalizio ha fatto il proprio scopo: in tal caso l'interesse all'ambiente cessa di essere diffuso e diviene soggettivizzato e personificato (vedi Cass., sez. 3: 25.1.2011, Pelloni; 21.6.2011, Memmo).
Ritiene il Collegio al riguardo (confermando l'orientamento espresso da questa 3^ Sezione nella sentenza 21.6.2011, Memmo e nella consapevolezza delle non convergenti posizioni enunciate nelle sentenze n. 14828/20010 e n. 41015/2010, contenente quest'ultima il riferimento ai solo "danni patrimoniali") che il danno risarcibile secondo la disciplina civilistica possa configurarsi anche sub specie del pregiudizio arrecato all'attività concretamente svolta dall'associazione ambientalista per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo. In tali ipotesi potrebbe identificarsi un nocumento suscettibile anche di valutazione economica in considerazione degli eventuali esborsi finanziari sostenuti dall'ente per l'espletamento dell'attività di tutela.
La possibilità di risarcimento in favore dell'associazione ambientalista, in ogni caso, non deve ritenersi limitata all'ambito patrimoniale di cui all'art. 2043 cod. civ., poichè l'art. 185 c.p., comma 2, - che costituisce l'ipotesi più importante "determinata dalla legge" per la risarcibitità del danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ. - dispone che ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga il colpevole al risarcimento nei confronti non solo del soggetto passivo del reato stesso, ma di chiunque possa ritenersi "danneggiato" per avere riportato un pregiudizio eziologicamente riferibile all'azione od omissione del soggetto attivo.
Possono costituirsi parti civili sia le associazioni ambientaliste nazionali sia le sedi locali di esse, che rappresentino un gruppo significativo di consociati e che abbiano dato prova della continuità e della rilevanza del loro contributo alla difesa dell'ambiente (vedi Cass., Sez. 3, n. 46746/2004). La pretesa risarcitoria deve essere connessa però - è opportuno ribadirlo - ad un pregiudizio diretto ed immediato e non ad un mero collegamento ideologico con l'interesse pubblico, che resta diffuso e, come tale, non proprio del sodalizio e non risarcibile.
Tenuto conto dei principi dianzi enunciati, va rilevato che la Corte di merito - nella vicenda in esame - razionalmente ha ravvisato l'esistenza di un pregiudizio concreto ed effettivo per la parte civile Comune di Alcamo, cagionata dal degrado arrecato al suo territorio attraverso l'interramento rudimentale delle polveri di ferro.
A diverse conclusioni deve pervenirsi, invece, con riferimento alle parti ovili s.p.a. "AGESP" e del WWF Italia Onlus, limitandosi ad argomentare:
- per la prima di esse, che trattasi di un'associazione (è invece una società commerciale) che aveva la gestione della discarica e doveva considerarsi danneggiata "a prescindere da eventuali corresponsabilità personali dei propri dipendenti";
- per il WWF, che tale associazione, "quale ente riconosciuto che ha come finalità statutaria la conservazione della natura e dei processi ecologici e la tutela dell'ambiente in riferimento all'intero territorio nazionale, è legittimata a costituirsi parte ovile ai fini del risarcimento dei danni derivanti dal reato di traffico illecito dei rifiuti".
Tali enunciazioni, però, non si conformano ai principi dianzi enunciati in quanto omettono di individuare quali siano i danni direttamente subiti dalle due parti aviti in oggetto: danni che, come si è detto dianzi, devono essere diretti e specifici, nonchè ulteriori e diversi rispetto a quello della lesione dell'ambiente come bene pubblico.
Devono essere confermate, dunque, le statuizioni civili in favore del Comune di Alcamo, mentre la sentenza impugnata deve essere annullata - relativamente alle statuizioni civili in favore della s.p.a. "AGESP" e del WWF Italia Onlus

3           Ambiente. Azione risarcitoria. Legittimazione ad agire. Stato.


L’art. 311 d.lg. 3 aprile 2006 n. 152 riserva allo Stato, e in particolare al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, il potere di agire, anche esercitando l’azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale; ai sensi del successivo art. 313, comma 7, comunque, resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi. La suddetta normativa “speciale” in materia di danno ambientale si affianca, peraltro, non essendovi incompatibilità, alla disciplina generale del danno prevista dal codice civile, sicché le associazioni ambientaliste, pure dopo l’abrogazione delle previsioni di legge che le autorizzavano a proporre, in caso di inerzia degli enti territoriali, le azioni risarcitorie per danno ambientale (art. 9, comma 3, d.lg. 18 agosto 2000 n. 267, abrogato dall’art. 318 del d.lg. n. 152 del 2006), sono legittimate alla costituzione di parte civile "iure proprio", nel processo per reati che abbiano cagionato pregiudizi all’ambiente, per il risarcimento non del danno all’ambiente come interesse pubblico, bensì (al pari di ogni persona singola o associata) dei danni direttamente subiti, diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a quello, generico di natura pubblica, della lesione dell’ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale. In questa prospettiva e con questi limiti, le associazioni ambientaliste sono quindi legittimate a costituirsi parte civile avendo il diritto al risarcimento del danno, non solo patrimoniale (in relazione, per esempio, agli eventuali esborsi finanziari sostenuti dall’ente per l’espletamento dell’attività di tutela), ma anche morale, derivante dal pregiudizio arrecato all’attività da esse concretamente svolta per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo. Cassazione penale, sez. III, 17/01/2012, n. 19439

4           Ambiente. Azione risarcitoria.

E’  ammissibile la condanna al ripristino dello stato dei luoghi, ancorché inizialmente fosse stato richiesto il risarcimento per equivalente e solo successivamente, in sede di precisazione delle conclusioni, sia stato domandato il risarcimento informa specifica. Cassazione civile, sez. III, 10/12/2012, n. 22382.
L'art. 311, a sua volta, dopo aver previsto al comma 1 che il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio agisce (...) per il risarcimento del danno in forma specifica e, se è necessario, per equivalente patrimoniale, stabilisce, al secondo che, chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o in spregio a norme tecniche, arrechi danno all'ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato.
La disciplina sopravvenuta si applica anche alle domande già proposte, con il solo limite, affatto scontato, dei giudizi ormai definiti con sentenza passata in giudicato (confr. Cass. civ. 9 febbraio 2011, n. 6551).
 Il legislatore del 2009, nell'ottica di una normazione che aveva (ed ha) chiaramente per destinatario il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio nel quale sono state ora centralizzate le azioni risarcitorie per danno all'ambiente, mostra di privilegiare la tutela reale, quale forma ontologicamente più idonea di quella per equivalente a garantire l'effettività dei risultati della reazione del soggetto leso dal lamentato danno ambientale e della risposta giudiziaria che ne riconosca il fondamento.
Ancorchè la nuova disciplina ignori del tutto - al pari, del resto, di quella preesistente - il problema squisitamente processuale del rapporto tra domanda di riduzione in pristino (id est, di risarcimento in forma specifica) e domanda di risarcimento per equivalente, significativi spunti di riflessione possono tuttavia trarsi dalla non occulta intenzione del legislatore (art. 12, comma 1).
E in proposito non può non sfuggire che il legislatoredel 1986, dopo avere dettato i criteri di quantificazione del danno, secondo una logica sottilmente punitiva - evidenziata dal riferimento alla gravità della colpa individuale e al profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento - apriva al giudice la facoltà di disporre nella sentenza di condanna, ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile.
L'allocazione della norma e il carattere asciutto del dettato, privo di qualsivoglia riferimento al contenuto dell'azione proposta dallo Stato o dall'ente territoriale di volta in volta legittimato (art. 18, comma 3), rendono la tesi della potenziale officiosità dell'ordine di ripristino - e cioè del risarcimento in forma specifica - assai meno stravagante di quanto possa a prima vista sembrare.
in realtà, la norma appare scritta sul postulato di fondo che la richiesta di tutela reale debba sempre e comunque considerarsi insita nella domanda di risarcimento del danno ambientale. E una volta adottata tale prospettiva, già intravista dalla più avveduta dottrina, non può non attribuirsi un carattere sostanzialmente liquido alla scelta operata dalla parte attrice nell'atto introduttivo del giudizio, di talchè il passaggio dalla richiesta di tutela per equivalente a quella reale, in chiave sollecitativa di una facoltà riconosciuta al giudice, mal si presterebbe a essere imbrigliato nell'armatura delle preclusioni processuali.
Siffatto approdo esegetico è confermato, a giudizio del collegio, dal tenore del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 311, comma 2, come riscritto dal legislatore del 2009, norma che, circoscrivendo l'operatività della tutela risarcitoria per equivalente ai soli casi in cui l'effettivo ripristino o l'adozione di misure di riparazione complementare o compensativa risultino in tutto o in parte omessi, impossibili o eccessivamente onerosi ai sensi dell'art. 2058 cod. civ., o comunque attuati in modo incompleto o difforme rispetto a quelli prescritti, colloca tout court il risarcimento per equivalente in posizione gradata rispetto alla tutela reale.
Peraltro l'applicazione delle norme di rito in chiave preclusiva della possibilità di accedere alle misure ripristinatorie non sarebbe conforme al criterio dell'interpretazione adeguatrice elaborato dalla giurisprudenza comunitaria e ripetutamente accolto da questa Corte. Non par dubbio infatti che, al fine di evitare il più possibile distonie tra diritto europeo e diritto interno, i principi del primo - come, nella fattispecie, il principio della preminenza delle misure di ripristino dello stato dei luoghi, contenuto nella Direttiva 2004/35/CE - influenzano l'interpretazione di tutto il diritto nazionale anche se non di diretta derivazione comunitaria (confr. Corte di giustizia C-404/2006, Quelle; Cass. civ. sez. un. 17 novembre 2008, n. 27310; Cass. civ. 22 febbraio 2012, n. 2632).

5           Ambiente. Disastro ambientale. Misure cautelari personali. Applicabilità.


In tema di misure cautelari personali, ai fini della valutazione del pericolo che l'imputato commetta ulteriori reati della stessa specie, il requisito della "concretezza", cui si richiama l'art. 274 comma 1 lett. c) c.p.p., non si identifica con quello di "attualità" derivante dalla riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati, dovendo, al contrario, essere riconosciuto alla sola condizione, necessaria e sufficiente, che esistano elementi "concreti" (cioè non meramente congetturali) sulla base dei quali possa affermarsi che l'imputato, verificandosi l'occasione, possa facilmente commettere reati che offendono lo stesso bene giuridico di quello per cui si procede. Cassazione penale, sez. I, 16/01/2013, n. 15667.
E' stato evidenziato, altresì, che il disastro ambientale era certamente riconducibile anche alla gestione successiva  quando il ricorrente è subentrato il gruppo Riva nella proprietà e nella gestione dello stabilimento siderurgico e che gli accertamenti effettuati hanno chiarito che l'inquinamento è attuale.
E' risultato che le concrete modalità di gestione dello stabilimento siderurgico dell'ILVA hanno determinato la contaminazione di terreni ed acque e di animali destinati all'alimentazione umana in un'area vastissima che comprende l'abitato di…. e di paesi vicini, nonchè, un'ampia zona rurale tra i territori di….
Tale contaminazione è tale da integrare, ad avviso del tribunale, i contestati reati di disastro doloso, omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro, avvelenamento di acque, posti in essere con condotta sia commissiva che omissiva, con coscienza e volontà per deliberata scelta della proprietà e dei gruppi dirigenti che si sono avvicendati alla guida dell'ILVA i quali hanno continuato a produrre massicciamente nella inosservanza delle norme di sicurezza con effetti destinati ad aggravarsi negli anni.
Rilevanti ai fini della valutazione in esame sono stati ritenuti, quindi, l'entità del danno e del pericolo cagionati all'ambiente e alla salute dei cittadini, nonchè, la continuità nel tempo dei fatti illeciti e la natura essenzialmente dolosa delle condotte, oltre ai notevoli profitti conseguiti omettendo quegli investimenti che dovevano essere realizzati per ridurre le emissioni inquinanti.
Quanto alla concretezza del pericolo di recidiva i giudici di merito hanno, invero, messo in luce i comportamenti posti in essere dai ricorrenti che palesano la reiterazione delle condotte illecite già da tempo accertate.
Si afferma nell'ordinanza impugnata che le emissioni che scaturivano dagli impianti, risultate immediatamente evidenti sin dall'insediamento nel 1995 del gruppo dirigente dello stabilimento ILVA, sono proseguite successivamente, come emerso in più occasioni, e l'azienda, pur avendo assunto di volta in volta l'impegno di provvedere alla riduzione delle emissioni nocive, ha dimostrato poi di non avere ottemperato.
Alla luce di ciò, il tribunale ha, quindi, sottolineato la pervicacia e la spregiudicatezza dimostrata da R.E. e dal C., ma anche da R.N., succeduto alla presidenza del consiglio di amministrazione in continuità con il padre, che hanno dato prova, nei rispettivi ruoli, di perseverare nelle condotte delittuose, nonostante la consapevolezza della gravissima offensività per la comunità e per i lavoratori delle condotte stesse e delle loro conseguenze penali e ad onta del susseguirsi di pronunzie amministrative e giudiziali che avevano già evidenziato il grave problema ambientale creato dalle immissioni dell'industria.


6           Ambiente. Disiastro ambientale. Rinuncia ad essere parte civile nel processo penale. Responsabilità contabile.


La proposta di transazione di Enel rivolta alla giunta di Porto Tolle prevede la corresponsione di 130mila euro in cambio di rinunciare ad essere parte civile nel processo penale per disastro ambientale che vede coinvolti i tecnici e i vertici del colosso energetico e rinunciare ad ulteriori procedimenti contro l’azienda. Cass pen 16422 del 27 aprile 2011
Sorge il problema se la Corte dei Conti dovrebbe esser notiziata della rinuncia delle amministrazioni locali ad essere parte civile nel processo penale di Disiastro ambientale
Tale conclusione è evidente dopo che l’articolo 313,  D.L.vo 152/2006, è stato modificato dall’art. 25, comma 1, lettera i), della Legge 6 agosto 2013, n. 97.
La norma dispone che qualora all'esito dell'istruttoria sia stato accertato un fatto che abbia causato danno ambientale ed il responsabile non abbia attivato le procedure di ripristino ai sensi del titolo V della parte quarta del presente decreto oppure ai sensi degli articoli 304e seguenti, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, con ordinanza immediatamente esecutiva, ingiunge a coloro che, in base al suddetto accertamento, siano risultati responsabili del fatto il ripristino ambientale a titolo di risarcimento in forma specifica entro un termine fissato.
Qualora il responsabile del fatto che ha provocato danno ambientale non provveda in tutto o in parte al ripristino nel termine ingiunto o all'adozione delle misure di riparazione nei termini e modalità prescritti, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare determina i costi delle attività necessarie a conseguire la completa attuazione delle misure anzidette e, al fine di procedere alla realizzazione delle stesse, con ordinanza ingiunge il pagamento, entro il termine di sessanta giorni dalla notifica, delle somme corrispondenti.
Con riguardo al risarcimento del danno in forma specifica, l'ordinanza è emessa nei confronti del responsabile del fatto dannoso nonché, in solido, del soggetto nel cui effettivo interesse il comportamento fonte del danno è stato tenuto o che ne abbia obiettivamente tratto vantaggio sottraendosi, secondo l'accertamento istruttorio intervenuto, all'onere economico necessario per apprestare, in via preventiva, le opere, le attrezzature, le cautele e tenere i comportamenti previsti come obbligatori dalle norme applicabili. L’ordinanza è adottata nel termine perentorio di centottanta giorni decorrenti dalla comunicazione ai soggetti di cui al comma 3 dell'avvio dell'istruttoria.


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