giovedì 7 novembre 2013

Codice ambiente. Parte IV Titolo I Capo I Gestione rifiuti.


1       Codice ambiente. Parte IV Titolo I Capo I Gestione rifiuti.

2           Ambiente. Abbandono rifiuti. Responsabilità proprietario.


È escluso che al proprietario delle aree inquinate possa essere legittimamente impartito un ordine di rimozione dei rifiuti sulla base della generica culpa in vigilando.
Il consolidato orientamento giurisprudenziale ha escluso che al proprietario delle aree inquinate possa essere legittimamente impartito un ordine siffatto sulla base della generica "culpa in vigilando". T.A.R. Potenza, sez. I 501/2012.
In fatti l'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006 ai fini dell'imputabilità della condotta del divieto di abbandono e di deposito incontrollato di rifiuti sul suolo, richiede, a carico del proprietario o dei titolari di diritti reali o personali sul bene, un comportamento a titolo di dolo o di colpa , così come richiesto per l'autore materiale e quindi collegato da nesso causale diretto alle operazioni materiali da cui è originato il deposito in loco dei rifiuti, che non è assolutamente ravvisabile nella totalmente diversa fattispecie del loro mancato asporto durante previe operazioni di pulizia effettuate da altri responsabili o comunque a seguito della segnalazione della loro presenza, che è in sostanza quanto addebitato dal Comune alla Regione nel caso di specie T.A.R. Friuli Venezia Giulia Trieste, sez. I, 07/02/2013, n. 56.


3           Ambiente. Divieto di abbandono. Competenza del Sindaco.


La giurisprudenza ammesso la competenza sindacale, e non dirigenziale, in relazione all'ordine di rimozione dei rifiuti, emesso dal dirigente comunale ex art. 192 del d.lgs. 152/2006.
Stabilisce, infatti, il comma 3 dell'art. 192 del d.lgs. 152 del 2006 che chiunque viola i divieti di abbandono e deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo, "è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate."
Tale norma, che sancisce la competenza sindacale in luogo di quella dirigenziale, viene interpretata, dalla giurisprudenza maggioritaria, quale norma speciale rispetto all'art. 107 del T.U. enti locali che affida ai dirigenti i compiti relativi alla gestione delle attribuzioni amministrative dell'ente locale. Cons. St., sez. V, 29 agosto 2012, n. 4635.
Infatti, non può essere accolta la tesi, ormai minoritaria in giurisprudenza, in base alla quale essendo tale norma, in parte qua, riproduttiva del precedente art. 14, d.lgs. n. 22 del 1997, essa andrebbe applicata nell'interpretazione datane dalla giurisprudenza che attribuisce la relativa potestà ordinatoria ai dirigenti, in base all'ordine di competenze, fra livello dirigenziale e politico, delineato dall'art. 107 T.U. Enti locali.
Tale costrutto logico non è condivisibile (cfr. Cons. St. 3675/2009) perché:
a) è insuperabile il dato testuale dell'art. 192, co. 3, secondo periodo, che fa riferimento espresso al " Sindaco";
b) trova applicazione, per il caso di conflitto apparente di norme, il tradizionale canone ermeneutico lex posterior specialis derogat anteriori generali;
c) lo stesso art. 107, co. 4, ha cura di precisare che "Le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all'art. 1, co. 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative", che è quanto verificatosi a seguito dell'entrata in vigore della norma sancita dall'art. 192, co. 3, cit., sicuramente speciale rispetto all'ordine generale di competenze previsto dall'art. 1, co. 4, e 107, co. 2, T.U. enti locali. T.A.R. Sicilia Palermo, sez. II 04/06/2013 n. 1218.


4           Ambiente. Potere di Ordinanza.


Il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 191, prevede che: "1. Ferme restando le disposizioni vigenti in materia di tutela ambientale, sanitaria e di pubblica sicurezza, con particolare riferimento alle disposizioni sul potere di ordinanza di cui alla L. 24 febbraio 1992, n. 225, art. 5 istitutiva del servizio nazionale della protezione civile, qualora si verifichino situazioni di eccezionale ed urgente necessità di tutela della salute pubblica e dell'ambiente, e non si possa altrimenti provvedere, il Presidente della Giunta regionale o il Presidente della provincia ovvero il Sindaco possono emettere, nell'ambito delle rispettive competenze,per consentire il ricorso temporaneo a speciali forme di gestione dei rifiuti, anche in deroga alle disposizioni vigenti, garantendo un elevato livello di tutela della salute e dell'ambiente, ordinanze contingibili ed urgenti per consentire il ricorso temporaneo a speciali forme di gestione dei rifiuti, anche in deroga alle disposizioni vigenti, garantendo un elevato livello di tutela della salute e dell'ambiente.
Dette ordinanze sono comunicate al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, al Ministro della salute, al Ministro delle attività produttive, al Presidente della regione e all'autorità d'ambito di cui all'art. 201 entro tre giorni dall'emissione ed hanno efficacia per un periodo non superiore a sei mesi."
L'art. 191, comma 4 nella originaria formulazione, stabiliva inoltre che "4. Le ordinanze di cui al comma 1 non possono essere reiterate per più di due volte. Qualora ricorrano comprovate necessita1, il Presidente della regione d'intesa con il Ministro dell'ambiente può adottare, sulla base di specifiche prescrizioni, le ordinanze di cui al comma 1 anche oltre i predetti termini.
Ciò posto è incontestato che il D.L. 23 del 2008, art. 9, comma 8 ha modificato l'art. 191, comma 4 sostituendo l'espressione "Le ordinanze di cui al comma 1 non possono essere reiterate per più di due volte" con quella "Le ordinanze di cui al comma 1 possono essere reiterate per un periodo non superiore a 18 mesi per ogni speciale forma di gestione dei rifiuti".
Sostiene il ricorrente la legittimità dell'intervento del sindaco in quanto: a) vi era ancora margine temporale per disporre nuove proroghe in via d'urgenza avendo il legislatore chiarito con il suo intervento che l'aspetto rilevante era unicamente il rispetto del limite complessivo dei 18 mesi di efficacia delle deroghe; b) sussisteva comunque in capo al sindaco il potere di disporre nel senso indicato.
La corte d'appello ha escluso la sussistenza delle condizioni di intervento del sindaco sotto un duplice profilo. Per un verso sostiene, infatti, la mancanza di un potere in tal senso per le ragioni in precedenza esposte e per altro verso l'assenza delle condizioni indispensabili per il conferimento dei rifiuti in discarica.
Il tenore letterale della disposizione dell'art. 191 non lascia dubbi sul fatto che al presidente della Regione, a quello della Provincia ed al sindaco il potere di disporre in via di urgenza per consentire il ricorso temporaneo a speciali forme di gestione dei rifiuti, anche in deroga alle disposizioni vigenti, debba essere riconosciuto nell'ambito delle rispettive competenze.
Nella specie correttamente la corte di merito ha evidenziato tale aspetto sottolinenando che l'autorità competente a provvedere in via ordinaria sull'urgenza era certamente il Presidente della Provincia il quale, infatti, a riprova di ciò aveva già emesso due provvedimenti d'urgenza, esaurendo così ogni sua ulteriore possibilità di intervento.
Sempre dal tenore letterale della disposizione si rende poi evidente che, a fronte del diniego di quest'ultimo di emettere un ulteriore provvedimento di proroga del conferimento in discarica, così come richiesto dal Comune, la strada era obbligata nel senso che, come previsto dall'art. 191, comma 4 e come correttamente indicato dalla Provincia al Comune, della questione si sarebbe dovuto investire il Presidente della regione
Questo, d'intesa con il Ministro dell'ambiente, avrebbe potuto adottare, sulla base di specifiche prescrizioni, le ordinanze di cui al comma 1 anche oltre i termini ivi stabiliti.
Nessun potere interinale è previsto per il sindaco dall'art. 191 ed a fortiori si deve escludere il potere di agire di quest'ultimo nel caso in cui - come nella specie - il Presidente della Provincia abbia legittimamente ritenuto, in base alle disposizioni all'epoca vigenti, di non potere ulteriormente intervenire in via d'urgenza.
E' del tutto ragionevole, infatti, che il vaglio circa le ragioni dell'urgenza e la necessità di derogare alle limitazioni previste per la regolamentazione d'urgenza, in considerazione della natura dei rischi e dei pericoli da fronteggiare, debba necessariamente essere affidato ad una valutazione congiunta di Regione e Ministero dell'Ambiente per la delicatezza degli interessi da tutelare.
Le innovazioni apportate con il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 191, comma 1 pur ricalcando la precedente disposizione in ordine alla competenza degli organi deputati a provvedere in via d'urgenza, la nuova disposizione pone come limite generale al potere di intervento non più, come indicato dall'art. 13, la condizione che non vi siano "conseguenze di danno o di pericolo per la salute e per l'ambiente", bensì quella che sia garantito "un elevato livello di tutela della salute e dell'ambiente." E' logico ritenere, quindi, che la valutazione circa le conseguenze sulla salute debbano essere affidate alla competenza della Regione che agisce d'intesa con lo Stato. Cassazione penale, sez. III, 16/05/2012, n. 30125.

5           Ambiente. Responsabilità del produttore finché i rifiuti non siano conferiti a soggetti autorizzati .


In tema di abbandono di rifiuti, è ipotizzabile a carico del produttore dei rifiuti un titolo di responsabilità concorsuale omissiva nella condotta commissiva dell'autore dell'abbandono, in ragione della violazione colposa degli obblighi di sorveglianza nascenti dalla posizione qualificata di garanzia connessa, appunto, alla produzione dei rifiuti e sorretta, in termini generali, dalla previsione dell'art. 188 d.lg. n. 152/2006, che, in ossequio al fondamentale principio "chi inquina paga", sancisce la responsabilità del produttore e detentore iniziale dei rifiuti per l'intera catena di trattamento degli stessi, fino a quando i rifiuti medesimi non siano conferiti al servizio pubblico di raccolta, ovvero a soggetti autorizzati alle attività di recupero o di smaltimento. T.A.R. Toscana Firenze, sez. II, 05/10/2011, n. 1443.
 Integra il reato previsto dall'art. 259 d.lg. 3 aprile 2006 n. 152 la spedizione di rifiuti all'estero senza che il soggetto esportatore ed originatore di essi, responsabile del carico fino all'arrivo a destinazione, sia munito della apposita licenza ASQIQ di registrazione per le imprese straniere fornitrici dei rifiuti destinati all'importazione. Cassazione penale, sez. III, 04/07/2012, n. 11837.
La responsabilità per la corretta gestione dei rifiuti grava su tutti i soggetti coinvolti nella loro produzione, detenzione, trasporto e smaltimento, essendo detti soggetti investiti di una posizione di garanzia in ordine al corretto smaltimento dei rifiuti stessi.
La responsabilità può gravare anche sul soggetto che ha svolto unicamente il ruolo di trasportatore dei rifiuti presso un impianto di stoccaggio, laddove detto impianto sia risultato privo delle prescritte autorizzazioni. Occorre tener conto, infatti, dei principi generali di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nel ciclo afferente alla gestione dei rifiuti, ai sensi del combinato disposto di cui agli art. 178 e 188, d.lg. n. 152/2006, e più in generale dei principi dell'ordinamento nazionale e comunitario, con particolare riferimento al principio comunitario "chi inquina paga", di cui all'art. 174, par. 2, del trattato, e alla necessità di assicurare un elevato livello di tutela dell'ambiente, esigenza su cui si fonda, appunto, l'estensione della posizione di garanzia in capo ai soggetti in questione.
E’ legittima l'ordinanza sindacale rivolta a tale società, affinché provveda alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti dalla stessa abbandonati, in quanto la ratio ispiratrice della norma è quella di evitare la contaminazione dell'ambiente a causa del contatto diretto con il rifiuto, prevedendo l'obbligo della rimozione e del ripristino da parte del responsabile dell'illecito (nella fattispecie, ad una società incaricata di trasportare rifiuti è stata rivolta un'ordinanza di sgombero e smaltimento degli stessi per averli abbandonati, in quanto li aveva conferiti in un impianto privo delle autorizzazioni previste). T.A.R. Veneto Venezia, sez. III, 24/11/2009, n. 2968.


6           Ambiente . Sottoprodotto .


La definizione normativa di «sottoprodotto», quale strumento per sottrarre dal regime dei rifiuti alcuni materiali e sostanze altrimenti da considerare come tali, è stata per la prima volta introdotta nel nostro ordinamento con l'art. 183, comma 1, lett. n) del D.Lgs. 152/2006 (T.U. ambiente).
Si tratta di uno dei (pochi) casi in cui il legislatore italiano è riuscito ad anticipare quello comunitario, se si pensa che la nozione di sottoprodotto la si rinviene per la prima volta solo nella direttiva quadro 2008/98/CE in materia di rifiuti.
Attualmente, per il combinato disposto degli artt. 183, comma 1 lett. qq) e 184 bis del T.U. ambiente (aggiunti dall'art. 12, comma 1 del D.Lgs. 205/2012), è sottoprodotto qualsiasi sostanza o oggetto che soddisfa tutte le condizioni elencate nel citato art. 184 bis, comma 1, dovendosi altresì ricordare che, in base al comma 2 dello stesso articolo, «possono essere adottate misure per stabilire criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare affinché specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti.
All'adozione di tali criteri si provvede con uno o più decreti del Ministro dell'ambiente in conformità a quanto previsto dalla disciplina comunitaria».
In base alla definizione di sottoprodotto l'utilizzo del materiale in un nuovo ciclo produttivo deve essere certo sin dal momento della sua produzione, dovendosi dimostrare una preventiva organizzazione alla sua riutilizzazione, circostanza che non sussiste in caso di utilizzo meramente eventuale e non integrale di materiali eterogenei derivanti da attività di produzione non industriale. Integra il reato previsto dall'art. 256 d.lg. 3 aprile 2006, n. 152 l'abbandono incontrollato di residui da demolizione, che vanno qualificati come rifiuti speciali e non materie prime secondarie o sottoprodotti.
Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto la correttezza dell'affermazione della responsabilità penale, non essendo stato dimostrato che i materiali abbandonati - quali pietrame, impianti elettrici ed igienico-sanitari, elementi ferrosi e legnosi, nonché pneumatici usurati - fossero destinati, sin dalla loro produzione, all'integrale riutilizzo per la riedificazione senza trasformazioni preliminari o compromissione della qualità ambientale. Cassazione penale, sez. III, 17/01/2012, n. 17823.
Per qualificare le terre e le rocce da scavo come sottoprodotto, l'art. 186 del d.lg. 3 aprile 2006 n. 152, a seguito dell'abrogazione disposta dall'art. 39, comma 4, del d.lg. 3 dicembre 2010 n. 205, ha assunto la natura di norma transitoria, destinata ad applicarsi ai fatti commessi fino all'entrata in vigore del prescritto d.m. di attuazione. Cassazione penale, sez. III, 04/07/2012, n. 33577.



7           Ambiente. Rifiuti.  Ecopiazzole.


La definizione delle cosiddette "ecopiazzole" o "isole ecologiche" è stata introdotta nel D.Lgs. n. 152 del 2006 ad opera del D.Lgs. n. 4 del 2008 (in vigore dal 13.2.2008), il quale ha disposto, con l'art. 2, comma 20, la modifica dell'art. 183 del "codice ambientale", il quale alla lett. cc) contemplava i "centri di raccolta". Ciò è verosimilmente avvenuto, come osservato da accorti commentatori, in ragione dei principi fissati dalla giurisprudenza di questa Corte e di cui meglio si dirà successivamente.
A seguito delle modifiche poi apportate alla richiamata disposizione, la definizione di "centro di raccolta" è ora contenuta nella lettera mm) del citato articolo, nella quale si legge che si intende come tale un'"area presidiata ed allestita, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, per l'attività di raccolta mediante raggruppamento differenziato dei rifiuti urbani per frazioni omogenee conferiti dai detentori per il trasporto agli impianti di recupero e trattamento".
Il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 183 stabiliva, fin dall'origine, che alla disciplina dei centri di raccolta doveva provvedersi con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentita la Conferenza unificata Stato - Regioni, città e autonomie locali, di cui al D.Lgs. n. 28 agosto 1997, n. 281.
Ciò avveniva con il D.M. 8 aprile 2008, recante "Disciplina dei centri di raccolta dei rifiuti urbani raccolti in modo differenziato, come previsto dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 183, comma 1, lett. cc), e successive modifiche" (in G.U. n. 99 del 28.4.2008) nel quale i "centri di raccolta" venivano individuati nell'art. 1.
I titoli abilitativi richiesti venivano indicati nel successivo art. 2, che individuava anche la disciplina transitoria per i centri già in attività, mentre gli allegati fornivano l'indicazione dei requisiti tecnico - gestionali dei centri medesimi ed i modelli di "scheda rifiuti". Deve escludersi che, al di fuori dell'ipotesi contemplata dal legislatore, la predisposizione di aree attrezzate per il conferimento di rifiuti astrattamente riconducibili ad un generico concetto di "eco piazzola" o "isola ecologica" possa ritenersi sottratta alla disciplina generale sui rifiuti, poiché l'intervento del legislatore ha definitivamente delimitato tale nozione prevedendo, peraltro, una regime autorizzatorio e gestionale che consente il conferimento ai centri di raccolta di un'ampia gamma di rifiuti in maniera controllata. In tutti i casi in cui non vi sia corrispondenza con quanto indicato dal legislatore dovrà procedersi ad una valutazione dell'attività posta in essere secondo i principi generali in materia di rifiuti (rigettato, nella specie, il ricorso promosso da un dirigente comunale condannato per aver adibito a deposito di rifiuti anche pericolosi un'area di 6.000 metri quadrati di proprietà comunale, in assenza di titolo abilitativo).Cassazione penale, sez. III, 11/12/2012, n. 1690.


8           Ambiente . Deposito  temporaneo rifiuti.


Secondo il D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 183, lett. bb (testo attualmente in vigore) per deposito temporaneo si intende "Il raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti ...".
La giurisprudenza ha affrontato il problema del significato dell'espressione "luogo di raccolta" adoperata dal legislatore ed ha in proposito affermato che in tema di gestione dei rifiuti, il luogo di produzione dei rifiuti rilevante ai fini della nozione di deposito temporaneo ai sensi del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 183, comma 1, lett. m) non è solo quello in cui i rifiuti sono prodotti ma anche quello in disponibilità dell'impresa produttrice nel quale gli stessi sono depositati, purchè funzionalmente collegato a quello di produzione (Cass. Sez. 3, sentenza n. 45447 del 30.9.2008.
Nel caso di specie, è stato accertato che il cassone contenente i tubi di amianto dismessi si trovava nel piazzale del Consorzio: cioè in un luogo sicuramente nella disponibilità dell'impresa produttrice (il Consorzio stesso) e quindi, secondo l'interpretazione di cui sopra, nel luogo di produzione.
Tuttavia, anche ritenendo - secondo l'interpretazione corretta - che i rifiuti si trovassero nel luogo di raccolta, la pronuncia impugnata non merita censura laddove ha escluso la liceità del deposito, perchè, richiamando la motivazione del primo giudice, ha comunque evidenziato - attraverso un accertamento in fatto privo di vizi logici e come tale incensurabile in questa sede - che l'unico accorgimento adottato per prevenire pericoli derivanti dalla dispersione della pericolosa sostanza era costituito da un telo di plastica lacerato in più punti.
Chiunque poteva accedere al sito e che il contenitore era poggiato sul terreno in prossimità di una vasca per la raccolta e la successiva distribuzione dell'acqua consortile. Ha quindi concluso per l'assenza di presidi di sicurezza. Cassazione penale, sez. III 23/01/2013 n. 8061.

9           Ambiente . Smaltimento rifiuti.


I rifiuti urbani non pericolosi devono essere gestiti solo in ambito regionale (argomento ex art. 182 comma 3 D. L.vo 152/06. T.A.R. Piemonte Torino, sez. I, 30/08/2012, n. 987.
Il principio di libera circolazione valevole per quella frazione di essi destinata al recupero costituisce dunque una deroga ad un divieto generale che deve essere fatta oggetto di stretta interpretazione; che l'attività di recupero dei rifiuti urbani non pericolosi crea un carico impiantistico e genera una quantità di prodotti che per rientrare nel concetto di "prodotto secondario" devono avere un effettivo valore economico e di scambio e debbono rispondere a criteri di sicurezza e merceologici ben determinati: una attività di recupero di rifiuti, quindi, non garantisce necessariamente la completa reimmissione in commercio del rifiuto trattato e perciò reca in sé il rischio di gravare l'ambito territoriale interessato di un non preventivato quantitativo di rifiuti urbani non pericolosi soggetto a smaltimento ma proveniente da fuori regione.
Tale considerazione vale, in particolare, con riferimento al compost, che, stante l'ormai sempre più accentuata sproporzione esistente tra offerta e domanda, in mancanza di politiche mirate non viene così facilmente ricollocato sul mercato, rimanendo giacente negli impianti di compostaggio, che poi nel tempo debbono ampliarsi.
A tale inconveniente si può far fronte solo approntando un programma di utilizzazione del compost, ad esempio prevedendone l'utilizzo in larga scala per il recupero ambientale di determinate cave o discariche, o per la realizzazione di stadi o di giardini pubblici. Nell'ambito delle previsioni regionali che autorizzino, in deroga al principio di prossimità, l'apertura di impianti di recupero di rifiuti di provenienza "esterna" dovrebbero quindi trovare posto, auspicabilmente, anche delle prescrizioni tendenti a garantirne l'effettivo riutilizzo.
La allocazione di impianti destinati al recupero di rifiuti urbani non pericolosi, di qualsiasi provenienza, debba essere presa in considerazione dalla programmazione regionale di settore.
Indiretta conferma in tal senso si trae anche dall'art. 5 comma 3 del D. L. 263/06, che ha attribuito al Commissario delegato per la gestione della emergenza dei rifiuti in Campania il potere di "disporre, d'intesa con le regioni interessate, lo smaltimento ed il recupero fuori regione, nella massima sicurezza ambientale e sanitaria, di una parte dei rifiuti prodotti"
La norma non distingue tra le varie tipologie di rifiuti prodotti, e così implicitamente riconosce che anche il recupero fuori regione di rifiuti urbani non pericolosi debba passare - nonostante il principio di libera circolazione - attraverso un atto di intesa con le regioni "riceventi".
Una tale limitazione risulti inserita in una legislazione emergenziale come quella che riguarda lo smaltimento dei rifiuti della Regione Campania, legislazione che proprio in ragione della situazione di emergenza che affligge questo territorio favorisce in generale lo smaltimento dei rifiuti ivi prodotti fuori regione: se ne deduce che anche per il legislatore il principio di libera circolazione dei rifiuti urbani non pericolosi destinati al recupero non esclude che tale attività debba conciliarsi con la programmazione di settore regionale e provinciale.
L'art. 181 comma 5 del D. L.vo 152/06 deve quindi essere letto tenendo presente che comunque la allocazione degli impianti di recupero dei rifiuti urbani non pericolosi deve rispettare le previsioni regionali: queste ultime possono derogare al principio di prossimità consentendo l'insediamento di impianti destinati al trattamento di rifiuti urbani non pericolosi provenienti da località esterne all'a.t.o. ed alla Regione di interesse; ma ove simili previsioni facciano difetto la allocazione di simili impianti non può ritenersi consentita.
Opinare diversamente significherebbe  ammettere che la politica di gestione dei rifiuti rimanga affidata ai singoli gestori degli impianti, il che non si può evidentemente accettare in una materia in cui la programmazione e la coordinazione degli interventi è di fondamentale importanza.

10       Ambiente . Rifiuti  materiali di demolizione.


I materiali inerti di composizione eterogenea (nella specie, un miscuglio di cotto, cemento e calcestruzzo), sottoposti a procedimento di macinatura e non destinati ad attività di recupero, non sono assoggettati alla disciplina delle materie prime secondarie, ma costituiscono veri e propri rifiuti. Cassazione penale, sez. III, 16/05/2012, n. 25206.
Ai sensi del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 184, comma 3, lett. b), - sono rifiuti speciali "i rifiuti derivanti dalle attività di demolizione, costruzione .
Il fresato di asfalto proveniente dal disfacimento del manto stradale rientra nella definizione dei materiale proveniente da demolizioni e ricostruzioni, incluso nel novero dei rifiuti speciali non pericolosi" (vedi Cass., Sez. 3, 12.1.2011, n. 16705, Manetta).
n relazione ai residui delle attività di demolizioni edili e del loro reimpiego, la giurisprudenza  ha ritenuto possibile il loro riutilizzo, nello stesso od in diverso ciclo produttivo, solo quale attività di recupero (così Cass., Sez. 3: 9.7.2004, n. 30127, Piacentino;
Con le sentenze 9.10.2006, n. 33882, Barbati; 12 la giurisprudenza  ha rilevato che il materiale proveniente da demolizioni non può qualificarsi "materia prima secondaria", ai sensi del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 181, commi 6 e 13;
Con la sentenza 7.4.2008, n. 14323, Coppa, la giurisprudenza  ha affermato il principio secondo il quale i materiali di risulta da demolizione di edifici e scavi di cantiere possono essere qualificati "sottoprodotti", ai sensi del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 183, lett. n), soltanto a condizione che:
- il loro utilizzo sia certo e avvenga direttamente ad opera dell'azienda che li produce;
- gli stessi materiali non vengano sottoposti a trasformazioni preliminari;
- l'utilizzazione non comporti condizioni peggiorative per l'ambiente o la salute;
Con la sentenza 29.4.2011, n. 16727, Spinello, la giurisprudenza  ha ribadito che i materiali provenienti da demolizioni rientrano nel novero dei rifiuti in quanto oggettivamente destinati all'abbandono; il recupero è condizionato a precisi adempimenti, in mancanza dei quali detti materiali vanno considerati, comunque, cose di cui il detentore ha l'obbligo di disfarsi. L'eventuale assoggettamento di detti materiali a disposizioni più favorevoli che derogano alla disciplina ordinaria implica la dimostrazione, da parte di chi io invoca, della sussistenza di tutti presupposti previsti dalla legge.
Nella vicenda in esame i residui oggetto di contestazione non possono essere considerati "materia prima secondaria" secondo la disciplina progressivamente vigente a decorrere dall'entrata in vigore del D.Lgs. n. 152 del 2006.
Nel caso che ci occupa la previsione normativa in oggetto non è applicabile, poichè gli eterogenei materiali rinvenuti (laterizi, pezzi di mattonelle e di asfalto), dei quali era in corso un'attività di macinatura non costituivano il risultato di una operazione di recupero giunta al suo completamento, come richiesto dal comma 12, originario art. 181.
Il D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4 ha modificato l'art. 181 (il cui testo è stato sostituito, da ultimo, dal D.Lgs. 3 dicembre 2010, n. 205, art. 7) e nell'art. 181-bis aveva fissato requisiti e condizioni che dovevano sussistere perchè un materiale potesse essere considerato non un rifiuto ma una materia prima secondaria.
Alla stregua di quella normativa:
- doveva trattarsi di materie e sostanze prodotte da un'operazione di riutilizzo, di riciclo o di recupero di rifiuti;
- dovevano essere individuate la provenienza, la tipologia e le caratteristiche dei rifiuti dai quali si potessero produrre;
- dovevano essere individuate le operazioni di riutilizzo, di riciclo o di recupero che le producevano, con particolare riferimento alle modalità ed alle condizioni di esercizio delle stesse;
- dovevano essere precisati i criteri di qualità ambientale, i requisiti merceologici e te altre condizioni necessarie per l'immissione in commercio, quali norme e standard tecnici richiesti per l'utilizzo, tenendo conto del possibile rischio di danni all'ambiente e alla salute derivanti dall'utilizzo o dal trasporto;
- le materie e sostanze dovevano avere un effettivo valore economico di scambio sul mercato.
La sussistenza delle condizioni indicate doveva essere contestuale e, in mancanza anche di una sola di esse, il residuo rimaneva soggetto alle disposizioni sui rifiuti (vedi Cass., Sez. 3, 19.12.2008, n. 47085).
L'art. 181-bis è stato poi abrogato dal D.Lgs. 3 dicembre 2010, n. 205, art. 39, comma 3, che ha rinnovato ed innovato la disposizione dell'art. 184-quater, restando superata la definizione di materia prima secondaria a fronte di una chiara fissazione delle condizioni che, ove sussistenti, fanno cessare, per un materiale sottoposto ad attività di recupero, la qualità di rifiuto.
Presupposti essenziali sono da individuarsi, in ogni caso:
- nella sottoposizione del rifiuto ad un'operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo;
- nella sussistenza di un mercato e di una domanda del materiale recuperato (con conseguente attribuzione di un valore economico) e nella riammissione dello stesso in un ciclo produttivo tipico;
- nella rispondenza del materiale recuperato a requisiti tecnici e standard specifici;
- nella insussistenza di impatti negativi sull'ambiente e sulla salute umana.
Anche In relazione al regime dianzi delineato non risulta dimostrata la intervenuta effettuazione - nella vicenda che ci occupa - di alcuna attività di recupero (condotta nel rispetto di quanto previsto dai decreti ministeriali 5 febbraio 1998, 12 giugno 2002, n. 162 e 17 novembre 2005, n. 269) da parte di un soggetto autorizzato a compiere le relative operazioni. Cassazione penale, sez. III, 16/05/2012, n. 25206.

11       Ambiente. Servizio fognatura. Tariffa.


I comuni che non sono forniti di impianti di depurazione dell'acqua non possono chiedere il pagamento della tariffa richiesta per quel tipo di servizio; ne vale obiettare che la corrispettività fra la suddetta quota e il servizio di depurazione sussisterebbe comunque, perché le somme pagate dagli utenti in mancanza del servizio sarebbero destinate, attraverso un apposito fondo vincolato, all'attuazione del Piano di ambito, comprendente anche la realizzazione dei depuratori, atteso che non può dirsi certo il Piano di ambito assicuri che il depuratore venga costruito proprio nel Comune dove risiede l'utente. Cassazione civile, sez. III, 12/04/2011, n. 8318.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 335 del 2008, ha dichiarato illegittimo la L. 5 gennaio 1994, n. 36, art. 14, comma 1, nel testo modificato dalla L. 31 luglio 2002, n. 179, art. 28 nella parte in cui prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione e’ dovuta dagli utenti "anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi".
A tal fine, ha rilevato che l’interpretazione della L. n. 36 del 1994, condotta alla stregua dei comuni criteri ermeneutici, porta a ritenere che la tariffa del servizio idrico integrato si configuri, in tutte le sue componenti, come corrispettivo di una prestazione commerciale complessa, il quale, ancorché determinato nel suo ammontare in base alla legge, trova fonte, non in un atto autoritativo direttamente incidente sul patrimonio dell’utente, bensì nel contratto di utenza.
E la connessione di tali componenti e’ evidenziata, in particolare, dal fatto che, a fronte del pagamento della tariffar l’utente riceve un complesso di prestazioni consistenti, sia nella somministrazione della risorsa idrica, sia nella fornitura dei servizi di fognatura e depurazione.
Ne consegue che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione, in quanto componente della complessiva tariffa del servizio idrico integrato, ne ripete necessariamente la natura di corrispettivo contrattuale, il cui ammontare e’ inserito automaticamente nel contratto (L. n. 36 del 1994, art. 13).
Solo per completezza vale rammentare che, con la stessa sentenza, la Corte costituzionale ha rilevato che il censurato L. n. 36 del 1994, art. 14, comma 1, e’ stato, con decorrenza dal 29 aprile 2006, abrogato dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 175, comma 1, lett. u), (Norme in materia ambientale), e sostituito dall’art. 155, comma 1, primo periodo, dello stesso decreto legislativo, il quale prevede che "Le quote di tariffa riferite ai servizi di pubblica fognatura e di depurazione sono dovute dagli utenti anche nel caso in cui manchino impianti di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi. Il gestore e’ tenuto a versare i relativi proventi, risultanti dalla formulazione tariffaria definita ai sensi dell’art. 154, a un fondo vincolato intestato all’Autorita’ d’ambito, che lo mette a disposizione del gestore per l’attuazione degli interventi relativi alle reti di fognatura ed agli impianti di depurazione previsti dal piano d’ambito".
Ed ha ritenuto che l’analogia tra quest’ultima disposizione e quelle dichiarate incostituzionali rende evidente che le considerazioni svolte, in ordine alla irragionevolezza di queste ultime, valgono anche per la prima.
Concludendo, per la declaratoria di incostituzionalita’ nei termini che seguono: "Dichiara l’illegittimita’ costituzionale della L. 5 gennaio 1994, n. 36, art. 14, comma 1, (Disposizioni in materia di risorse idriche), sia nel testo originario, sia nel testo modificato dalla L. 31 luglio 2002, n. 179, art. 28 (Disposizioni in materia ambientale), nella parte in cui prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione e’ dovuta dagli utenti "anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi";

dichiara, ai sensi della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 27 l’illegittimita’ costituzionale del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 155, comma 1, primo periodo, (Norme in materia ambientale), nella parte in cui prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione e’ dovuta dagli utenti " anche nel caso in cui manchino impianti di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi.

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