sabato 19 ottobre 2013

Pubblico impiego dirigenza . Recesso ad nutum dal contratto

Pubblico impiego dirigenza . Recesso ad nutum dal contratto
La privatizzazione del pubblico impiego si regge sul principio dello spoil system che in teoria dovrebbe garantire alla classe politica avvicendata dal cambio elettorale di modificare la casse dirigente di supporto alla sua azione.
Di fatto una volta assunto il dirigente è praticamente inamovibile e attraverso la sua capacità di incidere sui meccanismi che determinano la sua retribuzione si garantisce uno stipendio che spesso non ha rapporto sia nei confronti di quello elargito nell'impresa privata sia con quello garantito ai pubblici dipendenti in generale.
Da qui un macigno che manda nel baratro del deficit la spesa pubblica.
La contrattazione collettiva ha preso possesso della materia ed è intervenuta a disciplinare la materia della risoluzione del rapporto di lavoro anche dei dirigenti.
Gran parte dei contratti collettivi hanno mitigato il potere di recesso unilaterale del datore di lavoro, creando la possibilità di presentare ricorso ad un collegio di conciliazione, dotato del potere di verificare la legittimità del licenziamento, la cui carenza è sanzionata con penalità economiche anche molto rilevanti.
I contratti certamente hanno indirettamente modificato la “natura” del recesso del datore di lavoro, che non può considerarsi unilaterale e privo della necessità di una motivazione.
Infatti, se un contratto collettivo consente di verificare in concreto se i motivi addotti per il licenziamento siano o meno giustificati, significa che non basta più la semplice espressione di volontà del datore. Pertanto, pur vigendo ancora l’articolo 2118, il recesso non è più considerabile ad nutum, dal momento che esiste un soggetto dotato del potere di ingerire nel merito della decisione del datore di lavoro.
Analizzando la normativa sulla dirigenza pubblica si riscontrano altri e ben più rilevanti elementi che mettono seriamente in crisi la teoria del licenziamento ad nutum del dirigente pubblico e del dirigente dell’ente locale, nello specifico.
Appare necessario riferirsi ad una fondamentale affermazione in proposito espressa dalla Corte costituzionale, con la sentenza 313/1996, specificamente rivolta alla dirigenza pubblica: “è appena il caso di rammentare che l'applicabilità al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti delle disposizioni previste dal codice civile comporta non già che la pubblica amministrazione possa liberamente recedere dal rapporto stesso, ma semplicemente che la valutazione dell'idoneità professionale del dirigente è affidata a criteri e a procedure di carattere oggettivo - assistite da un'ampia pubblicità e dalla garanzia del contraddittorio -, a conclusione delle quali soltanto può essere esercitato il recesso”.
Il quadro normativo non è cambiato nemmeno a seguito del riordino compiuto col D.lgs 165/2001 e la riforma della legge 145/2002.
Difficile, alla luce della ricostruzione della Corte costituzionale, ritenere che la risoluzione del rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici possa essere configurata alla stregua del recesso ad nutum.
Tale difficoltà è, per altro, accentuata dalla verifica del dettato normativo dell’articolo 21 del D.lgs 165/2001 e delle disposizioni contrattuali sul recesso dal rapporto di lavoro contenute nella contrattazione collettiva dell’area dirigenza del comparto enti locali.
L’articolo 21 del testo unico sul pubblico impiego stabilisce che “Il mancato raggiungimento degli obiettivi, ovvero l'inosservanza delle direttive imputabili al dirigente, valutati con i sistemi e le garanzie di cui all'articolo 5 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286, comportano, ferma restando l'eventuale responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, l'impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi, l'amministrazione può, inoltre, revocare l'incarico collocando il dirigente a disposizione dei ruoli di cui all'articolo 23, ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo”.
La norma gradua, a ben vedere, gli interventi sanzionatori che possono condurre fino al licenziamento.
Occorre, in primo luogo, la valutazione del mancato raggiungimento degli obiettivi (ed i contratti dovrebbero stabilire una graduazione per chiarire in cosa consista il mancato raggiungimento, in coerenza col sistema di valutazione permanente dell’ente), o dell’inosservanza delle direttive.

Accertato quanto sopra, la prima conseguenza è l’impossibilità del rinnovo dell’incarico. Il che implica lo spostamento verso un altro incarico. 

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