Pubblico impiego dirigenza . Recesso ad nutum dal contratto
La privatizzazione del pubblico impiego si regge sul principio
dello spoil system che in teoria dovrebbe garantire alla classe politica avvicendata
dal cambio elettorale di modificare la casse dirigente di supporto alla sua azione.
Di fatto una volta assunto il dirigente è praticamente
inamovibile e attraverso la sua capacità di incidere sui meccanismi che determinano
la sua retribuzione si garantisce uno stipendio che spesso non ha rapporto sia nei
confronti di quello elargito nell'impresa privata sia con quello garantito ai pubblici
dipendenti in generale.
Da qui un macigno che manda nel baratro del deficit la
spesa pubblica.
La contrattazione collettiva ha preso possesso della
materia ed è intervenuta a disciplinare la materia della risoluzione del
rapporto di lavoro anche dei dirigenti.
Gran parte dei contratti collettivi hanno mitigato il
potere di recesso unilaterale del datore di lavoro, creando la possibilità di
presentare ricorso ad un collegio di conciliazione, dotato del potere di
verificare la legittimità del licenziamento, la cui carenza è sanzionata con
penalità economiche anche molto rilevanti.
I contratti certamente hanno indirettamente modificato
la “natura” del recesso del datore di lavoro, che non può considerarsi
unilaterale e privo della necessità di una motivazione.
Infatti, se un contratto collettivo consente di
verificare in concreto se i motivi addotti per il licenziamento siano o meno
giustificati, significa che non basta più la semplice espressione di volontà
del datore. Pertanto, pur vigendo ancora l’articolo 2118, il recesso non è più
considerabile ad nutum,
dal momento che esiste un soggetto dotato del potere di ingerire nel merito
della decisione del datore di lavoro.
Analizzando la normativa sulla dirigenza pubblica si
riscontrano altri e ben più rilevanti elementi che mettono seriamente in crisi
la teoria del licenziamento ad nutum del dirigente pubblico e
del dirigente dell’ente locale, nello specifico.
Appare necessario riferirsi ad una fondamentale
affermazione in proposito espressa dalla Corte costituzionale, con la sentenza
313/1996, specificamente rivolta alla dirigenza pubblica: “è appena il caso
di rammentare che l'applicabilità al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti
delle disposizioni previste dal codice civile comporta non già che la pubblica
amministrazione possa liberamente recedere dal rapporto stesso, ma
semplicemente che la valutazione dell'idoneità professionale del dirigente è
affidata a criteri e a procedure di carattere oggettivo - assistite da un'ampia
pubblicità e dalla garanzia del contraddittorio -, a conclusione delle quali
soltanto può essere esercitato il recesso”.
Il quadro normativo non è cambiato nemmeno a seguito
del riordino compiuto col D.lgs 165/2001 e la riforma della legge 145/2002.
Difficile, alla luce della ricostruzione della Corte
costituzionale, ritenere che la risoluzione del rapporto di lavoro dei
dirigenti pubblici possa essere configurata alla stregua del recesso ad
nutum.
Tale difficoltà è, per altro, accentuata dalla
verifica del dettato normativo dell’articolo 21 del D.lgs 165/2001 e delle
disposizioni contrattuali sul recesso dal rapporto di lavoro contenute nella
contrattazione collettiva dell’area dirigenza del comparto enti locali.
L’articolo 21 del testo unico sul pubblico impiego
stabilisce che “Il mancato raggiungimento degli obiettivi, ovvero l'inosservanza
delle direttive imputabili al dirigente, valutati con i sistemi e le garanzie
di cui all'articolo 5 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286,
comportano, ferma restando l'eventuale responsabilità disciplinare secondo la
disciplina contenuta nel contratto collettivo, l'impossibilità di rinnovo dello
stesso incarico dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi,
l'amministrazione può, inoltre, revocare l'incarico collocando il dirigente a
disposizione dei ruoli di cui all'articolo 23, ovvero recedere dal rapporto di
lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo”.
La norma gradua, a ben vedere, gli interventi
sanzionatori che possono condurre fino al licenziamento.
Occorre, in primo luogo, la valutazione del mancato
raggiungimento degli obiettivi (ed i contratti dovrebbero stabilire una
graduazione per chiarire in cosa consista il mancato raggiungimento, in
coerenza col sistema di valutazione permanente dell’ente), o dell’inosservanza
delle direttive.
Accertato quanto sopra, la prima conseguenza è
l’impossibilità del rinnovo dell’incarico. Il che implica lo spostamento verso
un altro incarico.
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