lunedì 14 ottobre 2013

Federico Mantovani. Con te

Con Te
«La fede “vede” nella misura in cui cammina». Così scrive Papa Francesco nell’enciclica Lumen fidei. E la Cantata Con Te segna uno dei possibili sentieri di questo camminare, soffermandosi su alcune dimensioni proprie della fede, su alcune “posture” che aprono al Mistero: dalla contemplazione all’ascolto della voce di Dio, dal profondo timore e tremore davanti alla sua grandezza alla gioia e all’aperta dichiarazione d’amore per Lui, dal senso del peccato e del male alla luce della speranza che viene da Cristo, morto e risorto per dare senso al nostro pellegrinare.
Il titolo, Con Te, vuole affermare il valore di una relazione, del rapporto personale, di Dio con noi e di noi con Lui, perché la fede assume un carattere sempre personale, come sottolinea ancora il Papa nell’enciclica citata: «Dio risulta così non il Dio di un luogo, e neanche il Dio legato a un tempo sacro specifico, ma il Dio di una persona, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, capace di entrare in contatto con l’uomo e di stabilire con lui un’alleanza. La fede è la risposta a una Parola che interpella personalmente, a un Tu che ci chiama per nome».
I testi scelti evocano proprio questo camminare e questo affidarsi al Padre in una relazione personale, questo tendere la mano per cercare una lampada nella notte o una fiamma nell’inverno, questo scavare nell’interiorità per dissotterrare Dio dalle profondità del cuore e fare riaffiorare la sorgente che disseta per sempre. Si poteva scegliere tra un’infinità di voci, lasciarsi provocare e ispirare da una miriade di passi, parole, scritti lirici o teologici, documenti, testimonianze …  riguardanti il tema della fede. Si sono quindi privilegiate alcune direttrici, volte a evidenziare i tratti di dinamismo della fede e questa relazione personale con un Tu («Tu, o Signore, ci hai fatti per te; non ha pace questo nostro cuore se non riposa in te», scrive S. Agostino nelle Confessioni). Ecco dunque i testi della Scrittura e della Liturgia, che orientano, come una bussola, credenti e apostoli; gli scritti di due Padri della Chiesa, cresciuti in ambiente pagano e poi convertitisi al cristianesimo, quando dichiararsi cristiani – e succede ancora oggi – implicava il sacrificio della vita (Agostino e Ignazio di Antiochia); pagine di convertiti moderni (il cardinale Newman, Péguy, Testori); liriche di sacerdoti poeti, vicini alle istanze di rinnovamento del Vaticano II, voci non pacificate e sempre alla ricerca di un senso profondo alle ragioni della fede (Turoldo e Rimaud); pagine di uomini e donne che hanno pagato con la vita la loro testimonianza e la loro appartenenza religiosa (il Vescovo rumeno greco-cattolico Ioan Ploscaru, l’intellettuale ebrea olandese Etty Hillesum, vittima della Shoah, e lo stesso S. Ignazio di Antiochia, condannato ad bestias due secoli prima dell’editto di Costantino). Testi, pagine, scritti che pur appartenendo a esperienze personali e a tempi storici lontani evocano un cammino condiviso alla ricerca di un Tu, di un Dio che fa sentire la sua presenza in ogni brandello di realtà e che attende, con infinita pazienza, una libera risposta dell’uomo.
Sono soprattutto le voci di Agostino e di Péguy, che ho voluto inserire come filo rosso del narrare, che ritornano più frequentemente: due cristiani inquieti, del mondo antico e di quello moderno, che solo nell’approdo al Dio incarnato, al cristiano “avvenimento”, hanno trovato le riposte ai fremiti del cuore. Di Agostino musico tre passi densi di un lirismo altissimo, affidandone le lineari o più increspate trame vocali ai solisti e al coro; di Péguy ritorna a più riprese, affidato al recitante, l’incedere di un pensiero forte, che attraverso parole fondamentali e rigorose ci riporta con i piedi per terra, alla realtà, liberandoci dalla falsa mistica di un astratto spiritualismo. Perché il percorso della fede non è a senso unico, e prima di avere noi fede in Dio è stato Lui che ha avuto fede in noi, incarnando l’eterno nella storia e realizzando così l’assemblaggio, come lo definisce Péguy, proprio del cristianesimo: l’eterno che irrompe nel temporale, Dio che si fa uomo dando la possibilità all’uomo di incontrare suo Figlio attraverso il “paradosso” dell’incarnazione, reso possibile dalla risposta affermativa di Maria, dalla ferma tenerezza del suo sì. «S’è aperto il cielo sul nostro destino; la nostra storia coinvolge l’eterno» canta il coro sulle parole di Turoldo. La storia personale si trasfigura così in una storia di salvezza.
La musica si affianca ai testi nel ricercare una relazione con il Tu, aprendo i varchi della contemplazione che risuona fra silenzi o caricando i ripieni delle accensioni più brucianti. E per una fede che è Mistero e Grazia, anzitutto, e sguardo contemplativo sulla bellezza del creato, e lotta, sacrificio, paura, consolazione di un abbraccio, speranza, testimonianza coraggiosa, fatica e gioia della libertà … la musica muove dai riverberi diafani ai colori accesi, dalla contemplazione al dramma,  dal tendere più inquieto all’approdo in un corale di speranza; ora inno, ora acclamazione ritmica e festosa, ora invocazione, ora salmo d’intonazione liturgica. I due solisti, soprano e tenore, voci dell’uomo alla ricerca di Dio o voce di una risposta (il soprano che diventa Maria, “serva del Signore”), modellano le frasi seguendo senso e atmosfere evocate dai testi. Il coro percorre le diverse sezioni del lavoro alternando passi omofonici a fugati rapinosi (così l’ubriacatura dei cieli per la risposta di Abramo), contrappunti imitativi ad ampi archi melodici, canoni stretti a frammenti ripetuti quasi ossessivamente, ritmi irregolari a passi di marcia o a stasi e immobilità. E l’accompagnamento strumentale, dell’orchestra piena o di singole sezioni o strumenti, amplifica profondità o altezze di questo andare, esaltandone gli slanci appassionati o i ripiegamenti intimi. Si passa così dal Prologo d’apertura, giocato sulla sovrapposizione di luce e oscurità e sulla ripetizione minimalista di poche armonie, all’Inno ai martiri, di diretto impatto comunicativo, passando attraverso il cromatismo atonale di Tendo la mano e l’impianto arioso di Grande sei tu, dalle dissonanze delle voci virili in Abraham! alle dolci e festose pagine della sezione dedicata all’incarnazione, dal duetto “amoroso” e cantabile Tardi t’amai all’articolato montaggio del Simbolo apostolico, che chiude dogmaticamente il lavoro, perché credere significa credere alla Verità (come sottolinea la frase del Cardinal Newman posta a sottotitolo), all’interno di una dinamica che coinvolge l’io e il Tu, nel rapporto personale con Dio, ma anche il noi, nella comunione con i cristiani e tutti gli apostoli.
Ringrazio S. E. il Vescovo Mons. Dante Lafranconi per l’invito a comporre la Cantata, don Daniele Piazzi per la collaborazione alla ricerca dei testi, e tutti gli esecutori, in particolare i cantori del Coro Polifonico Cremonese, generosi interpreti delle mie partiture sacre.
Dedico questo lavoro ai miei genitori, testimoni di una fede viva, umile e ricca di opere buone.
Federico Mantovani

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