mercoledì 10 ottobre 2012

Vincoli piano. 9 Tutela giurisdizionale.


CAPITOLO IX La tutela giurisdizionale.

SOMMARIO: 125. La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nel d. lg. 80/1998.
126. I problemi di costituzionalità. La l. 205/2000.
127. L'interesse ad impugnare.
128. L’impugnazione del silenzio dell’amministrazione nel caso di vincolo decaduto.
129. La tutela penale.
130. La pianificazione privata in contrasto col vincolo di piano. La lottizzazione abusiva
130.1. La valutazione autonoma del reato di lottizzazione abusiva.
131. La realizzazione di costruzioni in variazione essenziale e in totale difformità o in assenza di permesso di costruire in zone vincolate.
132. L’abuso d’ufficio.
133. Il rilascio di provvedimenti autorizzatori contro le disposizioni di piano.
134. L’omessa vigilanza sull'attività edilizia.
135. Il reato di omissione di atti d’ufficio.
136. La giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche per violazioni ai vincoli imposti dal regime delle acque pubbliche.


125. La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nel d. lg. 80/1998.

LEGISLAZIONE: l. 15.3.1997, n. 59, art. 11, 4° co., lett. g) - d. lg. 80/1998, art. 34.

Le controversie relative ad atti, provvedimenti e comportamenti della pubblica amministrazione in materia di urbanistica ed edilizia sono attribuite dal d. lg. 80 del 1998, all’art. 34, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Tutti gli aspetti dell’uso del territorio, ai sensi del 2° co., art. 34 del d. lg. 80/1998, rientrano nella materia urbanistica (Caringella, De Marzo, Della Valle e Garofoli 2000, 258).
L’ampliamento della sfera della giurisdizione amministrativa deriva dalla definizione del contenuto della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
La riforma della giurisdizione amministrativa è stata oggetto di delega al governo.

La contestuale estensione della giurisdizione del giudice amministrativo alle controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali consequenziali, ivi comprese quelle relative al risarcimento del danno, in materia edilizia, urbanistica e di servizi pubblici, prevedendo altresì un regime processuale transitorio per i procedimenti pendenti
(art. 11, 4° co., lett. g), l. 15.3.1997, n. 59).

La riforma ha delineato i caratteri della nuova giurisdizione esclusiva in materia di pubblici servizi, di urbanistica ed edilizia e di espropriazione ed occupazione d’urgenza.
Qualora, infatti, il giudice amministrativo sia investito della giurisdizione esclusiva sulla controversia, egli può disporre il risarcimento del danno ingiusto, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica (Forlenza 1998, 111).
Non è più necessario adire il giudice ordinario dopo avere ottenuto l’annullamento del provvedimento da parte del giudice amministrativo.
Il giudice amministrativo può disporre il risarcimento anche mediante il semplice rinvio a dei criteri, sulla base dei quali l’amministrazione pubblica o il gestore del pubblico servizio devono proporre all’avente titolo il pagamento di una somma entro un congruo termine.
E’ evidente che, ove si tratti di impugnative aventi ad oggetto un provvedimento omissivo, il risarcimento potrà essere commisurato anche in relazione ai tempi di emanazione del provvedimento stesso.
In mancanza di un accordo è ammesso il ricorso in ottemperanza, previsto dall'art. 24, 1° co., n. 4, r.d. 26.6.1924, n. 1054, per richiedere la somma dovuta.
In tale eventualità appare evidente che le spese debbano essere addebitate, in caso di ulteriore omissione o di mancato rispetto delle modalità fissate dal giudice amministrativo, all’amministrazione soccombente.
La determinazione del risarcimento comporta la possibilità dell’assunzione di mezzi di prova, ed in particolare della consulenza tecnica di ufficio, rimanendo esclusi l’interrogatorio formale ed il giuramento, incompatibili con un giudizio sugli atti dell’amministrazione.
I mezzi di prova devono essere evidentemente utilizzati in relazione alle esigenze di celerità e di concentrazione del giudizio amministrativo.
I diritti patrimoniali consequenziali non sono più riservati alla giurisdizione del giudice ordinario. Questi sono attratti nell’orbita del giudice amministrativo, risparmiando al ricorrente un ulteriore processo.
Rimangono riservate al giudice ordinario le questioni pregiudiziali concernenti lo stato e la capacità dei privati individui, salvo la capacità di stare in giudizio e la risoluzione dell’incidente di falso (Forlenza 1998, 111).
La giurisprudenza ha precisato il riparto della giurisdizione in via transitoria fra il giudice amministrativo ed il giudice ordinario.
Nelle materie già devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo la competenza a conoscere il risarcimento del danno è del giudice amministrativo se la domanda è proposta successivamente al 23.4.1998, data di entrata in vigore del d. lg. 80/1998; essa è, invece, del giudice ordinario per le richieste avanzate in data antecedente l’entrata in vigore del suddetto d. lg. 80/1998, dopo che sia stato disposto l’annullamento del provvedimento dal giudice amministrativo.

Sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo a decidere della controversia sul risarcimento de danno provocato da un illegittimo ordine di demolizione di opere edilizie poi annullato con sentenza antecedente al 1.7.1998
(T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 10.3.1999, n. 307, GD, 1999, n. 23, 94).

Nelle nuove materie devolute alla giurisdizione esclusiva del T.A.R. a norma degli artt. 33 e 34, d. lg. 80/1998 la competenza sull’azione di risarcimento è del giudice amministrativo solo se la relativa azione è proposta successivamente al 30.6.1998 ossia a partire dalla data della devoluzione della giurisdizione esclusiva al giudice amministrativo (Giunta 1999, 102).



126. I problemi di costituzionalità. La l. 205/2000.

LEGISLAZIONE: cost. art. 76 - l. 15.3.1997, n. 59, art. 11, 4° co., lett. g) - d. lg. 80/1998, artt. 33, 34 - l. 205/2000, art. 7.

La Corte cost. 292/2000, ha dichiarato incostituzionale l’art. 33 del d. lg. 80/1998, per eccesso di delega.

L'art. 33, 1° co., d.lg. n. 80 del 1998, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, eccedendo i limiti della delega, ha devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutta la materia dei pubblici servizi, e non si è limitato ad estendere la giurisdizione amministrativa - nei limiti in cui essa, in base alla disciplina vigente, già conosceva di quella materia sia a titolo di legittimità che in via esclusiva - alle controversie concernenti i diritti patrimoniali consequenziali, ivi comprese quelle relative al risarcimento del danno.
La dichiarazione di illegittimità costituzionale coinvolge anche l'art. 33, 2° co., che ha specificato in via esemplificativa il contenuto dell'ampliato ambito della giurisdizione esclusiva, nonché l'art. 33, 3° co., il quale - modificando l'art. 5, l. 1034 del 1971 - comportava (conformemente alla previsione di una giurisdizione esclusiva su tutta la materia dei servizi pubblici) l'effetto di sottrarre le concessioni di servizi, già oggetto di giurisdizione esclusiva, all'applicazione dell’art. 5, 2° co., che faceva salva la giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria per le controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi
(Corte cost. 17.7.2000, ord. n. 292, FI, 2000, I, 2393, nota Travi).

L’art. 34, d.lg. 80 del 1998, è stato successivamente sostituito da un provvedimento legislativo, l’art. 7, l. 205/2000, per superare le censure di illegittimità costituzionale avanzate dalla Corte.
Sono state sollevate, comunque, ulteriori eccezioni di legittimità costituzionale sull’art. 34, 1° co., d.lg. 31.3.1998, n. 80, pur dopo la modifica effettuata dalla l. 205/2000, in riferimento all’art. 76 cost. per eccessivo potere rispetto alla delega conferita dall’art. 11, 4 co., lett. g), l. 15.3.1997, n. 59.

Non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 34, 1° e 2° co., e 35, 1° co., del d.lg. n. 80 del 1998, in riferimento agli artt. 76 e 77, 1° co., cost., per eccesso rispetto alla delega conferita dall'art. 11, 4° co., lett. g), della l. 59 del 1997.
Infatti, il combinato disposto dei citati articoli del d.lg. n. 80 del 1998 non si limita, in attuazione della menzionata delega, ad estendere alle controversie aventi diritti patrimoniali consequenziali, ivi comprese quelle relative al risarcimento del danno, la giurisdizione generale di legittimità o esclusiva già spettante al giudice amministrativo in materia di edilizia ed urbanistica, ma istituisce una nuova figura di giurisdizione esclusiva e piena, che abbraccia l'intero ambito delle controversie aventi ad oggetto atti, provvedimenti e comportamenti delle amministrazioni pubbliche in materia urbanistica ed edilizia
(Cass. civ., Sez. U., 21.6.2001, ord. n. 8506, CG, 2001, 1049 nota Carbone).

La Suprema Corte ha stabilito che gli atti devono essere rimandati al giudice remittente affinché siano valutati nuovamente, alla luce dell’art. 7, l. 21.7.2000, n. 205.

Deve essere ordinata la restituzione degli atti al giudice rimettente, perché riesamini, alla luce dell'art. 7 della sopravvenuta l. 21.7.2000, n. 205, la rilevanza delle questioni di legittimità dell'art. 34, d.lg. 31.3.1998 n. 80, censurato, per violazione dell'art. 76, cost., nella parte in cui ha sottratto alla giurisdizione del giudice ordinario ed ha devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie su diritti soggettivi - diversi da quelli indennitari - conseguenti alla tenuta, da parte della p.a., di comportamenti materiali nell'ambito di procedure espropriative finalizzate alla gestione del territorio
(Corte cost. 23.1.2001, ord. n. 17, UA, 2001, 499 nota Conti).

I giudici rimettenti hanno riproposto le questioni di legittimità, considerando che il problema se il giudizio deve essere attribuito o meno alla giurisdizione del giudice ordinario va risolto, ai sensi dell’art. 5, c.p.c., secondo la normativa vigente al momento della proposizione della domanda, vale a dire secondo l’art. 34, d.lg. 80/1998 nel testo originario, e non secondo quello riportato successivamente dall’art. 7, l. 205/2002 citata.
Il giudice ha ritenuto, infatti, che l’art. 34 del d.lg. n. 80 del 1998, nel testo originario, poiché attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie concernenti gli atti, i provvedimenti ed i comportamenti della pubblica amministrazione in campo urbanistico ed edilizio e soprattutto quelle inerenti il risarcimento del danno derivante da occupazione appropriativa, ha violato i criteri stabiliti dalla legge di delega.
Essa ha previsto, infatti, nell’ambito dell’urbanistica e dell’edilizia, l’estensione della giurisdizione amministrativa alle controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali consequenziali, comprendendo pure quelle inerenti al risarcimento del danno, ma non ha stabilito una nuova giurisdizione esclusiva.
La consulta ha ribadito una diversa interpretazione secondo la quale l’art. 7 della l. 205 del 2000, sostituendo gli artt. 33, 34, 35, d.lg. n. 80 del 1998, non solo ha modificato la natura di tali norme, facendole diventare leggi in senso formale e quindi affrancandole dal vizio di eccesso di delega in base al quale la Corte cost., 292/2000, aveva dichiarato incostituzionale l’art. 33 del d.lg., ma ha anche stabilito direttamente la giurisdizione per i giudizi sopra menzionati.
Secondo tale interpretazione, pertanto, la giurisdizione sarebbe, nella specie, stabilita dall’art. 34 nel nuovo testo del d.lg., che è norma con natura di legge formale e che non può, quindi, essere sottoposta a questione di legittimità costituzionale per eccesso di delega (Corte cost., 10.4.2002, n. 123, GD, n. 23, 60).
Tale passaggio logico è criticato dalla dottrina, poiché lo stesso legislatore ha espresso la non retroattività dell’art. 7, l. 205/2000 (Andreis 2002, 655).
La dottrina riconosce alla decisione della Corte costituzionale l’effetto di chiudere ogni questione relativa alle controversie sorte nelle more dell’entrata in vigore della l. 205/2000, pur non riscontrando delle carenze nelle motivazioni della decisione.

La soluzione alla quale perviene la Corte costituzionale con l’ordinanza 123/2002, solleva numerose perplessità.
Appare del tutto evidente, per un verso, come la Corte abbia voluto chiudere definitivamente ogni possibile questione di diritto intertemporale posta dalle vicende collegate agli artt. 33-35 del d. lg. 80/198; d’altra parte, l’eventuale giudizio di illegittimità costituzionale dell’art. 34 nel testo previgente alla l. 205/2000, avrebbe dovuto avere ad oggetto, paradossalmente, una norma non più in vigore
(Forlenza 2002 (2), 63).



127. L'interesse ad impugnare.

LEGISLAZIONE: l. urb., art. 31 - d.p.r. 6.6.2001, n. 380, art. 136.

L'art. 31 della l. urb. estendeva a chiunque la legittimazione a ricorrere avverso i provvedimenti di concessione:

Chiunque può prendere visione, presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto e ricorrere contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione
(art. 31, 9° co., l. urb.).

La norma modifica il principio generale di diritto amministrativo secondo il quale un provvedimento può essere impugnato solamente dal destinatario o da chi ne abbia un interesse

Si accoglie apparentemente, nella nostra materia, una sorta di azione popolare urbanistica
(Mengoli 2003, 1055).

L'interpretazione giurisprudenziale ha sostanzialmente limitato il contenuto della norma, poiché il termine “chiunque” è stato considerato come equivalente alla forma impersonale

Va esclusa la legittimazione del ricorrente ad impugnare atti di rilevanza urbanistica, in quanto "cittadino residente nel centro storico", giacché tale legittimazione va riconosciuta soltanto a coloro che si trovino in una particolare situazione di fatto in quanto possessori di beni nella stessa via o quartiere, e, comunque, residenti in una zona localizzata in modo tale da risentire direttamente del danno eventualmente determinato dal nuovo insediamento edilizio
(Cons. St., sez. IV, 12.3.2001, n. 1382, FA, 2001, 367).

Legittimati ad impugnare la concessione edilizia sono tutti coloro che si trovano in una situazione di stabile collegamento, che può derivare da un titolo di proprietà ovvero da un rapporto contrattuale di locazione, con la zona in cui si intende realizzare la costruzione, purché facciano valere un interesse di carattere urbanistico quale è quello dell'osservanza delle prescrizioni relative alla zona con la quale sussiste il collegamento
(Cons. St., sez. V, 15.6.1988, n. 393, CS, 1988, 653).

Accogliendo tale interpretazione l’art. 136, t.u. ed., ha provveduto ad abrogare con la sua entrata in vigore tale disposizione.



128. L’impugnazione del silenzio dell’amministrazione nel caso di vincolo decaduto.

LEGISLAZIONE: l. 19.11.1968, n. 1187, art. 2, 1° co. - l. 7.8.1990, n. 241, art. 2 - l. 6.12.1971, n. 1034, art. 21 bis - l. 21.7.2000, n. 205, artt. 2, 7.

La giurisprudenza prevalente considera illegittimo il silenzio serbato dall'amministrazione comunale sull'istanza presentata dal proprietario di lotti di tipicizzare l'area di proprietà, priva di disciplina urbanistica a seguito di decadenza del vincolo precedentemente imposto da un piano.
A seguito della decadenza del vincolo imposto su di un’area dal piano regolatore generale viene a mancare una disciplina urbanistica della zona.
Il vincolo di piano, infatti, decade dopo il quinquennio nel caso non intervenga a disciplinare la zona vincolata né un piano di lottizzazione né un piano particolareggiato.

L'art. 2, 1° co., l. 19.11.1968, n. 1187, stabilisce che le indicazioni di piano regolatore generale, nella parte in cui incidono su beni determinati ed assoggettano i beni stessi a vincoli preordinati all'espropriazione od a vincoli che comportino l'inedificabilità, perdono ogni efficacia qualora entro cinque anni dalla data di approvazione del piano regolatore generale non siano stati approvati i relativi piani particolareggiati od autorizzati i piani di lottizzazione convenzionati
(T.A.R. Basilicata, 27.12.2002, n. 1044).

Atteso che i Comuni sono obbligati a dotarsi di uno strumento urbanistico generale che copra l'intero territorio, la situazione di inedificabilità conseguente alla sopravvenuta inefficacia di talune destinazioni di piano è stata ritenuta per sua natura provvisoria, essendo destinata a durare fino all'obbligatoria integrazione del piano (o del programma di fabbricazione), divenuto parzialmente inoperante.
Il Comune, dunque, alla scadenza del vincolo potrebbe anzitutto determinarsi a reiterarlo, con adeguata motivazione (Corte cost. 20.5.1999, n. 179).
Se, tuttavia, non si attiva, mediante la reiterazione o, più in generale, mediante una rinnovata regolamentazione urbanistica dell'area, il privato che vi abbia interesse può promuovere gli interventi sostitutivi della Regione oppure agire in via giurisdizionale, seguendo il procedimento del silenzio rifiuto.
Il proprietario inciso dal vincolo decaduto può diffidare il Comune a ritipizzare l'area di loro proprietà secondo le disposizioni di zona previste per gli appezzamenti circostanti.

Stante l'obbligo dell'intimato Comune di provvedere, è illegittimo il silenzio da esso serbato sulla formale diffida e messa in mora ritualmente notificata tramite ufficiale giudiziario
(T.A.R. Basilicata, 27.12.2002, n. 1044).

Il silenzio serbato dall'Amministrazione sulla predetta domanda è illegittimo per violazione dell'art. 2, l. 7.8.1990, n. 241.
Il Comune, alla scadenza del termine quinquennale di durata del vincolo, è obbligato ad assegnare una nuova disciplina urbanistica alla zona che ne è sprovvista, con conseguente illegittimità del comportamento omissivo serbato.
Il ricorso deve pertanto essere accolto, peraltro solo nei limiti dell'affermazione dell'obbligo per il Comune di provvedere sull'istanza presentata dai ricorrenti.
Il giudizio disciplinato dall'art. 21 bis, l. 6.12.1971, n. 1034, introdotto dall'art. 2, l. 21.7.2000, n. 205, è diretto ad accertare se il silenzio serbato da una Pubblica amministrazione sull'istanza del privato violi l'obbligo di adottare il provvedimento esplicito richiesto con l'istanza stessa, con la conseguenza che il giudice, a prescindere dalla natura vincolata o meno del provvedimento de quo, non può sostituirsi all'Amministrazione in alcuna fase del giudizio, ma può (e deve) accertare esclusivamente se il silenzio sia illegittimo o no, imponendo all'Amministrazione, nel caso di accoglimento del ricorso, di provvedere sull'istanza entro un termine assegnato (Cons. St., AP, 9.1.2002, n. 1).
L'amministrazione comunale, ex art. 21 bis, l. 1034 del 1971, deve concludere il procedimento, per la parte di propria competenza, entro il termine assegnato dalla notifica e/o dalla comunicazione in via amministrativa della sentenza di condanna.
La giurisprudenza ritiene infondata la richiesta di nominare sin dalla sentenza di condanna ad adempiere il commissario ad acta, atteso che l’art. 21 bis, l. 1034 del 1971, subordina detta nomina all'inottemperanza all'ordine del giudice di provvedere e, comunque, previa richiesta delle parti che devono preventivamente accertare il mancato adempimento dell’amministrazione all’obbligo di provvedere (Cons. St., V Sez., 17 aprile 2002 n.2023).
La dichiarazione di illegittimità del silenzio non comporta l’accoglimento della richiesta di risarcimento danni, qualora il ricorrente non alleghi alcuna prova del pregiudizio effettivamente subito per effetto degli provvedimenti dichiarati illegittimi (T.A.R. Lecce, sez. II, 25.11.1999, n. 789. T.A.R. Marche 7.10.1999, n. 1068).
Ai fini dell'ammissibilità dell’azione per risarcimento dei danni davanti al giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 7, l. 21.7.2000, n. 205, l'accertamento della illegittimità dell'atto adottato dall'amministrazione, da cui dipende la lesione dell'interesse legittimo, è presupposto necessario, ma non sufficiente, per la configurazione di una responsabilità.
Il ricorrente deve, necessariamente, fornire la prova dell'esistenza di un danno (Cons. St., sez. V, 6.8.2001 n.4239. Cons. St., sez. V, 11.7.2001, n. 3863. Cons. St., sez. VI, 26.4.2000, n. 2490. Cons. St., sez. V, 14.1.2000, n. 244. T.A.R. Napoli 12.6.2001, n. 2713. T.A.R. Lazio, sez. I, 23.9.1999, n. 2838).

129. La tutela penale.

LEGISLAZIONE: l. 47 del 1985, art. 20, lett. c) - d.p.r. 6.6.2001, n. 380, art. 44, lett. c).

La normativa urbanistica prevede una specifica contravvenzione disciplinata dall’art. 20, lett. c), l. 47 del 1985, sost. art. 44, lett. c), d.p.r. 6.6.2001, n. 380, per sanzionare i comportamenti contrari alle disposizioni che impongono vincoli di piano.
Essa prevede due distinte fattispecie: la prima è quella della lottizzazione abusiva, la seconda è quella relativa alla realizzazione di costruzioni in variazione essenziale e in totale difformità o in assenza di concessione edilizia, ora permesso di costruire, nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico, archeologico, paesistico e ambientale.
In entrambe le ipotesi è previsto l’arresto fino a due anni e l’ammenda da euro 15.493, a euro 51.645 (Italia 2002, 520).

130. La pianificazione privata in contrasto col vincolo di piano. La lottizzazione abusiva.

LEGISLAZIONE: l. 47 del 1985, art. 18 - d.p.r. 6.6.2001, n. 380, art. 30.

La contravvenzione di lottizzazione abusiva viene definita facendo riferimento alla definizione di lottizzazione data dall'art. 30 del d.p.r. 6.6.2001, n. 380.
Si ha lottizzazione cosiddetta materiale quando vengono iniziate opere che comportino la trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti o adottati; si ha, invece, lottizzazione negoziale quando tale trasformazione venga attuata attraverso il frazionamento o la vendita o atti equivalenti del terreno in lotti, che denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio (Centofanti 2002 (2), 147).
La violazione delle leggi vigenti si realizza in varie fattispecie per cui, ad esempio, si deve ritenere che sussista il reato nel caso di lottizzazione realizzata in comuni privi di piano regolatore generale o programma di fabbricazione.
Il reato di lottizzazione abusiva si configura non soltanto quando esiste la necessità di attuare le previsioni dello strumento urbanistico generale, attraverso la redazione di un piano esecutivo e la stipula di una convenzione lottizzatoria adeguata alle caratteristiche dell'intervento di nuova lottizzazione, ma anche allorquando detto intervento non potrebbe in ogni caso essere realizzato perché, per le sue connotazioni obiettive, si pone in contrasto con previsioni di zonizzazione e/o di localizzazione dello strumento generale di pianificazione che non possono essere modificate da piani urbanistici attuativi.

La Suprema Corte, nell'annullare con rinvio sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto, ha osservato che questo è il punto fondamentale trascurato dalla sentenza impugnata, poiché i giudici di merito - in relazione alla previsione incriminatrice dell'art. 18, l. 28.2.1985, n. 47, - avrebbero dovuto valutare se, nella fattispecie in esame, si sia o meno di fronte alla predisposizione di un appezzamento di terreno agricolo ad una plurima edificazione residenziale, ed una valutazione siffatta avrebbero dovuto operare tenendo conto della già avvenuta realizzazione di due villette dotate di piscine, della cessione a terzi di una di esse e di una porzione frazionata di suolo, nonché della progettata costruzione di una terza unità abitativa: il tutto comportante anzitutto la necessità di un raccordo viario con la strada pubblica più vicina e di spazi da destinare a pubblici parcheggi
(Cass. pen., sez. III, 19.9.1996, n. 11249, CP, 1998, 1224).

Il reato di lottizzazione abusiva è reato progressivo che giunge a compimento solo con l'ultimazione delle costruzioni, sicché anche quando le attività di edificazione siano portate a termine da persone diverse da quelle che hanno proceduto alla lottizzazione, la permanenza cessa solo quando l'intero programma di lottizzazione viene attuato e cioè all'epoca di ultimazione della ultima opera, sia essa una costruzione abusiva o un'urbanizzazione primaria o secondaria.
Conseguentemente solo da tale momento può computarsi il termine necessario per la prescrizione del reato (Cass. pen., sez. III, 8.11.1995, n. 12212, CP, 1998, 618. Cass. pen., sez. III, 15.10.1997, n. 11436, UA, 1998, 202 nota Ferraro).
La giurisprudenza ha precisato che il reato di lottizzazione abusiva sussiste anche in mancanza di iniziative di tipo edificatorio.
E’ sufficiente la cosiddetta lottizzazione negoziale che si verifica quando la trasformazione urbanistica dei terreni avvenga: 1) attraverso il frazionamento degli stessi; a) attraverso la vendita dei suoli; 3) attraverso atti equivalenti alla vendita. A tal fine è sufficiente anche la vendita di un solo lotto (Cass. pen., sez. III, 8.2.1994, GP, 1994, II, 735).
L'art. 18, l. 28.2.1985, n. 47, configura la lottizzazione negoziale allorché la trasformazione urbanistica sia predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per una serie di indici, denuncino in modo non equivoco la loro destinazione a scopo edificatorio.



130.1. La valutazione autonoma del reato di lottizzazione abusiva.

LEGISLAZIONE: l. 1150/1942 art. 28.

Le Sezioni Unite della Cassazione penale hanno precisato che non è corretto affermare che il reato di lottizzazione possa dirsi sussistere unicamente qualora manchi il provvedimento autorizzativo finale e non pure qualora, in presenza di tale autorizzazione, si accerti la violazione di altre norme urbanistiche.
L’art. 28, l. 1150/1942 prevede la necessaria redazione del piano di lottizzazione che deve essere conforme alla normativa edilizia e agli standard urbanistici vigenti.
Tale piano, quale piano di attuazione, deve di regola conformarsi alle norme, prescrizioni, e previsioni dello strumento urbanistico generale di cui costituisce applicazione.
Qualora il piano di lottizzazione si discosti dalla pianificazione generale, esso può essere approvato in variante al p.r.g.
La procedura di variante deve obbligatoriamente essere posta in essere, poiché gli atti di pianificazione urbanistica esecutiva assolvono alla funzione di consentire una più razionale utilizzazione del territorio nell'ambito delle scelte operate dal piano urbanistico sovraordinato.
A tali scelte deve necessariamente conformarsi il rilascio della autorizzazione a lottizzare da cui scaturisce la facoltà dei proprietari di richiedere il rilascio del permesso di costruire per dare esecuzione al progetto

L'identificazione del reato di lottizzazione abusiva, malgrado la presenza di un'autorizzazione emessa in base all'art. 28, l. 17.8.1942, n. 1150, nel testo modificato dall'art. 8, l. 6.8.1967, n. 765, non postula alcuna disapplicazione del provvedimento amministrativo, ma presuppone l'accertamento del fatto concreto in rapporto alla fattispecie astratta descrittiva del reato, prescindendo da qualunque giudizio sull'autorizzazione.
La descrizione normativa del reato di lottizzazione abusiva impone al giudice un riscontro diretto di tutti gli elementi che concorrono a determinare la condotta criminosa, che, giusta il disposto dell'art. 18, 1° co., l. 28.2.1985, n. 47, non è soltanto quella effettuata in assenza di autorizzazione ma principalmente quella contrastante con le prescrizioni degli strumenti urbanistici e delle leggi statali e regionali
(Cass. pen., Sez. U., 8.2.2002, n. 5115, RGE, 2002, 844).

Il reato di lottizzazione è a consumazione alternativa, potendo realizzarsi sia per difetto di autorizzazione sia per il contrasto della stessa con le prescrizioni degli strumenti urbanistici, sussistendo in capo ai soggetti che partecipano al piano di lottizzazione l'obbligo di controllare la conformità dell'intera lottizzazione e/o delle singole opere alla normativa urbanistica ed alle previsioni di pianificazione, ed atteso che l'interesse protetto dalla l. 28.2.1985, n. 47, non è soltanto quello di assicurare il controllo preventivo da parte della p.a., ma altresì quello di garantire che lo sviluppo urbanistico si realizzi concretamente in aderenza all'assetto risultante dagli strumenti urbanistici
(Cass. pen., sez. III, 29.1.2001, n. 11716, CP, 2003, 244).

Un altro l’indirizzo sicuramente minoritario esclude l’abusività della lottizzazione ogniqualvolta la stessa sia autorizzata dall’autorità amministrativa senza che al giudice penale sia consentito disapplicare l’atto amministrativo, a meno che questo non sia o inesistente o invalido (Cass. pen., sez. III, 4.6.2001).
131. La realizzazione di costruzioni in variazione essenziale e in totale difformità o in assenza di permesso di costruire in zone vincolate.

LEGISLAZIONE: l. 47/1985, art. 20, lett. b) e c) - l. 431/1985, art. 1 sexies - d.p.r. 6.6.2001, n. 380, art. 44, lett. c).

Il reato di cui all'art. 20, lett. c), l. 28.2.1985, n. 47, sost. art. 44, lett. c), d.p.r. 6.6.2001, n. 380, prevede che le costruzioni siano realizzate in variazione essenziale e in totale difformità o in assenza di permesso di costruire in violazione del vincolo storico, artistico, archeologico, paesistico, ambientale (Cass. pen., sez. III, 30.3.2000, n. 6104, RP, 2001, 179).
La giurisprudenza ha precisato che il giudice del merito, qualora affermi l'esistenza di un vincolo, deve specificamente motivare, indicando la categoria alla quale lo stesso appartiene e gli elementi di fatto e di diritto su cui fonda la decisione di condanna.
Nella specie, relativa ad annullamento con rinvio di sentenza di condanna, la Suprema Corte ha osservato che l'esistenza del vincolo è ritenuta implicitamente, senza alcuna precisazione del tipo di vincolo e della fonte di prova, dalla quale il medesimo risulterebbe (Cass. pen., sez. III, 26.5.1995, n. 8507, CP, 1998, 231).
La giurisprudenza sottolinea la gravità di detto reato rispetto alle altre fattispecie previste dall'art. 20, lett. c), l. 28.2.1985, n. 47, sost. art. 44, lett. c), d.p.r. 6.6.2001, n. 380.

L’illecito all'art. 20, lett. c), l. 28.2.1985, n. 47, presenta sotto il profilo strutturale un elemento superiore rispetto a quello di cui all'art. 20, lett. b), l. 28.2.1985, n. 47, cioè la violazione del vincolo, e tale requisito è stato fissato dal legislatore poiché la condotta disciplinata viene ad incidere in modo rilevante non soltanto sull'assetto del territorio, ma sull'intero ambiente: la violazione determina un vulnus alle condizioni di vita della popolazione ivi residente, della quale altera le condizioni soggettive ed oggettive di vita, la cui protezione è costituzionalmente statuita dall'art. 9; tale illecito comporta una lesione del paesaggio, che va considerato anche una risorsa, non soltanto naturalistica, ma anche economica, poiché rappresenta fonti di introiti per la collettività
(Cass. pen., sez. III, 13.10.1997, n. 10392, CP, 1999, 263).
Le ipotesi di reato sono tra loro autonome.

La fattispecie di cui all'art. 20 lett. c) della l. 26.2.1985, n. 47, relativa alla realizzazione di costruzioni in variazione essenziale e in totale difformità o in assenza di concessione in zone vincolate, costituisce ipotesi autonoma di reato, rispetto a quelle di cui alle lett. a) e b), dello stesso art. 20 e non circostanza aggravante
(Cass. pen., sez. III, 11.2.1994, CP, 1995, 1038).

Negli immobili esistenti, ma costruiti senza permesso di costruire, fino a quando non sia sanata la illiceità, non possono essere compiuti interventi di completamento edilizi.

La realizzazione, in zona rientrante nel Parco dell'Alto Garda, di una baracca in lamiera in assenza di concessione integra il reato di cui all'art. 20, lett. c), della l. 47/1985, ma non anche la fattispecie sanzionata dall'art. 1 sexies, della l. 431 del 1985
(Pret. Brescia, 15.10.1993, GM, 1994, 357).

La fattispecie è distinta ed autonoma rispetto al reato che si configura per mancata autorizzazione relativa a lavori su beni ambientali prevista dall’art. 1 sexies, l. 431/1985, sost. art. 163, d.lg. 490/1990 (Centofanti 2002 (2) 167).

Nell'ipotesi in cui sia costruito un pontile sottraendo terraferma al mare, il banchinamento così realizzato viola il vincolo imposto dall'art. 1 della l. 8.8.1985, n. 431 a tutela dei territori costieri compresi in una fascia di profondità di trecento metri dalla linea di battigia.
E' pertanto configurabile il reato di cui all'art. 20, lett. c), della l. 28.2.1985, n. 47
(Cass. pen., sez. III, 26.2.1993, MPC, 1993, 35).



132. L’abuso d’ufficio.

LEGISLAZIONE: c.p. art. 323, 1° e 2° co. - l. 234/1997, art. 1.

Il reato di abuso d’ufficio è contemplato dall’art. 323 del c.p., mod. art. 1, l. 234 del 1997.
Il reato è configurabile solo qualora il comportamento del pubblico uffciale o dell’incaricato di pubblico servizio concretizzi un danno.
Esso può consistere nell’avere procurato a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o nell’avere causato ad altri un danno ingiusto.

Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.
La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno carattere di rilevante gravità
(Art. 323 c.p., mod. art. 1, l. 234 del 1997).

La ratio della l. 234 del 1997 è di limitare l’ambito di applicabilità dell’art. 323 del c.p., al fine di evitare abusi dell’abuso, attraverso una precisa determinazione del fatto punibile.
La modifica è stata richiesta da più parti, per porre un freno al dilagare delle incriminazioni per abuso d’ufficio e, di conseguenza, al moltiplicarsi dei procedimenti penali, che spesso, inoltre, si concludono con l’assoluzione dell’imputato.
Il legislatore ha ritenuto necessario dare certezza all’azione amministrativa; i ritardi, o addirittura i blocchi di attività, soprattutto nei settori subordinati alla discrezionalità della pubblica amministrazione, erano attribuiti al terrore della firma, provocato dall’eccesso di interventi del potere giudiziario nell’ambito della pubblica amministrazione.
Interpretando la dizione precedente di cui all'art. 323, 2° co., c.p., la giurisprudenza ha precisato il contenuto del vantaggio patrimoniale, affermando che per l'integrazione del reato di abuso di ufficio è necessario che il vantaggio avuto dall'agente risulti apprezzabile in termini patrimoniali.
Il vantaggio deve avere un connotato di intrinseca patrimonialità, essendo irrilevante che esso possa essere rivolto o strumentalizzato dal soggetto favorito a conseguire utilità valutabili solo indirettamente sotto l'aspetto patrimoniale.
La mera eventualità della natura patrimoniale del vantaggio non è idonea a caratterizzare, teleologicamente, con certezza e concretezza, il dolo specifico dell'autore della condotta (Cass. pen., sez. VI, 19.1.1996, GP, 1997, II, 157).
Il legislatore nel delineare la nuova fattispecie, dà carattere di concretezza ad una condotta da ritenersi punibile, individuandone gli aspetti tipici ed evitando così abusi ed eccessi nell’interpretazione giurisprudenziale.
L’elemento del dolo che prima è stato elemento essenziale ora perde la sua consistenza.
Il nuovo abuso d’ufficio è un reato di danno.
Non si tratta più, quindi, del contenuto del dolo specifico, consistente nell’avvantaggiare sé o altri o nel danneggiare qualcuno.
L’abuso non patrimoniale mantiene rilevanza penale solo qualora sia arrecato un danno ad altri intenzionalmente; è abrogato, invece, il tipo di abuso che mira a procurare un vantaggio non patrimoniale, rendendo così particolarmente difficili i controlli sui cosiddetti microabusi.
Il reato di abuso d’ufficio è stato modificato dal legislatore da delitto a consumazione anticipata e a dolo specifico a delitto di evento.
Il reato non sussiste più quando si manifesta solo l’intenzione di avvantaggiare o di danneggiare, ma esso consiste nell’effettiva produzione di un vantaggio o di un danno.
Tale vantaggio, inoltre, deve essere patrimoniale; ne consegue che l’abuso si concretizza solo se l’imputato ha procurato a sé o ad altri un beneficio economicamente valutabile.
Qualora, pertanto, si tratti di abuso volto a procurare un ingiusto vantaggio non patrimoniale - ai sensi dell’abrogato art. 323, 1° co., c.p. - si verifica una vera e propria abolitio criminis e, quindi, comportamenti di questo tipo non costituiscono più reato e debbono cessare gli effetti penali delle condanne ad essi relative.


133. Il rilascio di provvedimenti autorizzatori contro le disposizioni di piano.

LEGISLAZIONE: c.p. art. 323 - l. 10/1977, art. 4 - l. 47 del 1985, art. 20, lett. c) - d.p.r. 6.6.2001, n. 380, art. 12: 133.

L’abuso d’ufficio può consistere nel rilascio di provvedimenti autorizzatori in contrasto con la normativa di piano.
Affinché la violazione di legge o di regolamento possa integrare, insieme con gli altri elementi richiesti dall'art. 323, c.p., il delitto di abuso di ufficio occorrono due presupposti.
Il primo di essi è che la norma violata non sia genericamente strumentale alla regolarità dell'attività amministrativa, ma vieti puntualmente il comportamento sostanziale del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio.
Il secondo presupposto è che l'agente violi leggi e regolamenti che di questi atti abbiano i caratteri formali ed il regime giuridico, non essendo sufficiente un qualunque contenuto materialmente normativo della disposizione trasgredita.
Il permesso di costruire inefficace perché subordinato all'autorizzazione paesaggistica, anche se adottato in violazione di legge, non avendo prodotto alcun effetto, non dà luogo all'evento del reato di abuso di ufficio, non ipotizzabile neppure nella forma tentata perché non sussiste nella specie la prova dell'elemento soggettivo.
La giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del t.u. ed. richiede, infatti, che dalla condotta derivi una lesione effettiva del bene giuridico e non la mera messa in pericolo. Manca, inoltre, nella fattispecie il conseguimento dell'ingiusto vantaggio patrimoniale quale conseguenza diretta e voluta del rilascio della concessione ad aedificandum (Cass. pen., sez. VI, 30.4.1999, n. 12928, CP, 2001, 1458, nota Condemi. Cass. pen., sez. VI, 26.3.1999, n. 8631, CP, 2000, 2246).
Integra il delitto di abuso d'ufficio, trattandosi di condotta che viola specifiche norme di legge, il rilascio da parte del sindaco, ora responsabile del procedimento, di un permesso di costruire, contraria alle disposizioni del vigente piano regolatore.

Se è vero che il piano regolatore non può equipararsi al regolamento richiamato dallo stesso art. 323 c.p., la condotta sopra descritta viola direttamente la legge, e precisamente le norme della l. 1150 del 1942, che statuisce che i pareri e gli atti del pubblico ufficiale in relazione a domande di concessione edilizia debbano essere conformi a quanto previsto dai piani regolatori; in tal caso, infatti, il provvedimento amministrativo svolge una funzione integrativa rispetto agli elementi normativi del fatto
(Cass., pen., sez. V, 31.1.2001, UA, 2001, 459).

L'art. 4, l. 10 del 1977, ora sost. art. 12, d.p.r. 380/2001, impone alla p.a. comunale di conformarsi alle previsioni degli strumenti urbanistici comunali - primo fra tutti, il p.r.g., -, nel rilasciare le concessioni edilizie.
La condotta del pubblico ufficiale che rilasci una concessione edilizia, in violazione delle disposizioni urbanistiche comunali, integra un'ipotesi di violazione di legge, rilevante ai fini e per gli effetti dell'art. 323 c.p.

Si deve ritenere responsabile del reato di cui all'art. 323 c.p.- l'assessore comunale delegato dal sindaco che, nella sua qualità, abbia abusato del suo ufficio, rilasciando una concessione edilizia relativa all'edificazione di un immobile su un suolo destinato a verde agricolo e per una volumetria superiore all'indice di edificabilità consentito dal piano comprensoriale, a tal fine ritenendo asserviti al vincolo altri fondi non contigui, situati in zone opposte del territorio comunale e distanti diversi chilometri rispetto all'erigendo fabbricato.
(Cass. pen., sez. VI, 16.10.1998, n. 1354, DPP, 1999, 1005, nota Vipiana. Cass. pen., sez. VI, 14.3.2000, n. 6247, RGPL, 2000, 800).

Il rilascio del permesso di costruire in violazione dello strumento urbanistico generale - che subordinava l'utilizzazione delle aree in causa alla previa formazione dello strumento attuativo – lede i principi fissati dalla legge urbanistica che prescrivono la conformità del provvedimento autorizzatorio alle previsioni dello strumento urbanistico in vigore nel territorio comunale.

La condotta illecita del sindaco che violi le disposizioni di piano lede il combinato disposto degli artt. 1 e 4, l. 28.1.1977, n. 10, e 31, l. 17.8.1942, n. 1150.
Detta condotta si configura, senza che si possa ritenere violato il principio di stretta legalità vigente in materia penale, come violazione di legge in quanto le prescrizioni di piano alle quali detta legge si richiama rappresentano solo dei presupposti di fatto della violazione della legislazione su richiamata in materia di concessione edilizia, violazione che integra un elemento costitutivo della fattispecie di cui all'art. 323 c.p.
(Cass. pen., sez. VI, 6.10.1999, n. 13794, CP, 2001, 838).

Integra gli estremi del reato di abuso di ufficio, secondo la formulazione di cui all'art. 1, l. 16.7.1997, n. 234, il comportamento dell'amministratore comunale che rilasci autorizzazioni in precario per la realizzazione di manufatti non connotati dal requisito della provvisorietà o da quello della pertinenzialità.

Il rilascio di autorizzazioni in precario configurano non solo la violazione della normativa in tema di rilascio di autorizzazioni gratuite, ex artt. 48, l. 5.8.1978, n. 457, e 7, l. 94/1982, avuto, soprattutto, riguardo al carattere non precario delle opere, ma anche ex art. 4, l. 28.1.1977, n. 10, che, a fronte del dovere di chi voglia edificare di munirsi della concessione edilizia, prevede il dovere dell'organo comunale competente di provvedere a norma di legge, in conformità delle previsioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi
(Cass. pen., sez. VI, 4.4.1999, n. 6274, CP, 2000, 2244. Cass. pen., sez. VI, 11.5.1999, n. 8194, CP, 2000, 350, nota Gambardella).

134. L’omessa vigilanza sull'attività edilizia.

LEGISLAZIONE: c.p. art. 323 - l. 47/1985, art. 4 - d.p.r. 6.6.2001, n. 380, art. 27.

L’abuso d’ufficio può consistere nell’omessa vigilanza sull'attività edilizia.
La giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del t.u. ed. afferma che il sindaco, che dolosamente ometta di adottare i provvedimenti necessari ad assicurare il rispetto delle norme urbanistiche comunali, ex art. 4, l. 47 del 1985, sost. art. 27 d.p.r. 380/2001, risponde del reato di abuso di ufficio, ex art. 323 c.p. (Cass. pen., sez. VI, 15.2.2001, n. 6192, RGPL, 2001, 613).




135. Il reato di omissione di atti d’ufficio.

LEGISLAZIONE: c.p. art. 328, 1°, 2° co. - l. 86/1990, art. 16 - l. 192/1998, art. 2, 12° co.

Nel reato di omissione di atti d’ufficio incorrono gli amministratori che non esercitano la dovuta vigilanza sugli abusi edilizi.
In tal caso si rientra nell’ipotesi di cui all’art. 328, 1° co., del c.p., poiché l’atto di controllo è atto che per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene o sanità deve essere compiuto senza ritardo, come recita l’art. 328, c.p., mod. dall’art. 16, l. 86/1990.
I solleciti regionali non integrano il reato da parte del sindaco.

Non integra il reato, di omissione di atti d'ufficio, ai sensi dell'art. 328, 2°, c.p., la mancata ottemperanza da parte del sindaco alle sollecitazioni dell'assessorato regionale territorio e ambiente in ordine agli interventi repressivi e sanzionatori di violazioni edilizie commesse nel territorio comunale, giacché entrambe le amministrazioni coinvolte sono tenute ad una collaborazione nell'assicurare la vigilanza sull'attività edilizia, non potendosi ravvisare in capo all'assessorato regionale un interesse giuridicamente qualificato nei confronti dell'amministrazione comunale.
Nella specie, si trattava di reiterate richieste affinché il sindaco disponesse la demolizione di fabbricati abusivi
(Cass. pen., sez. VI, 28.2.2001, FI, 2001, II, 461).

Per la giurisprudenza può integrare il reato l’omettere di emanare un ordine di demolizione sia nel caso di un procedimento di autotutela sei nel caso di annullamento di provvedimento autorizzativo.

L'ordine di demolizione di un immobile abusivamente realizzato costituisce, per l'amministrazione comunale, un atto dovuto. Ne consegue che esso non può considerarsi viziato per il solo fatto che, in presenza di abusi plurimi, sia stato adottato soltanto nei confronti di alcuni dei costruttori, potendo tale circostanza rilevare unicamente sotto il profilo della responsabilità penale degli amministratori comunali per omissione di atti d'ufficio.
(Trib. Roma, 28.4.2000, Grom, 2000, 371).

In caso di annullamento di una concessione edilizia da parte del T.A.R. l'emanazione, da parte del sindaco, dell'ordine di demolizione della costruzione abusiva costituisce atto dovuto per ragioni di giustizia, il cui compimento deve quindi avvenire "senza ritardo" ai sensi dell'art. 328, 1° co., c.p.
Deve pertanto ritenersi consumato il reato previsto da tale disposizione normativa quando l'adempimento in questione, in assenza di un termine stabilito nella decisione del giudice amministrativo, sia procrastinato oltre la data della prima riunione della giunta comunale dopo il ricevimento formale della notizia di detta decisione ed il decorso dei termini per l'eventuale impugnazione; tempi, questi, da ritenere ragionevolmente esauribili, al massimo, in 180 giorni.
È invece da escludere che il momento consumativo del reato possa essere individuato in quello in cui il sindaco cessa dalla sua carica, atteso che una tale interpretazione potrebbe legittimare sine die il rifiuto di compiere l'atto d'ufficio per tutto il tempo della durata in carica del pubblico ufficiale
(Cass. pen., sez. VI, 26.5.1999, n. 9400, RP,1999, 990).

Il reato può realizzarsi anche per denuncia di un terzo.
Il denunciante deve diffidare il responsabile del procedimento, ora competente in luogo del sindaco, ad esercitare la vigilanza a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno, diffidandolo espressamente ad esercitare i suoi doveri di controllo pena la trasmissione della querela alla procura della repubblica, ai sensi dell’art. 323, 2° co., c.p.
Il reato si concretizza qualora chi compete la vigilanza, dopo trenta giorni dalla diffida non abbia dato caso ad atti sanzionatori quanto meno sospensivi dei comportamenti che realizzano l’abuso edilizio.
Dopo la divisione delle funzioni fra organi tecnici e politici con l’attribuzione delle funzioni esecutive ai dirigenti, il soggetto attivo del reato è il responsabile dell’ufficio che deve vigilare sull’attività edilizia. Il sindaco semmai può rispondere di omessa vigilanza sull’attività degli uffici.

L'art. 6, l. 127 del 1997, modificando l'art. 51, l. 142 del 1990, attribuisce al responsabile del competente ufficio o servizio dell'ente locale le attribuzioni amministrative in materia di rilascio di provvedimenti autorizzatori o concessori, mentre, per i provvedimenti sanzionatori nella stessa materia, analoga attribuzione di competenza esclusiva si rinviene nell'art. 2, 12° co., l. 192 del 1998.
Il sindaco, conseguentemente, risulta del tutto privo di competenza al riguardo e non può legittimamente avocare la trattazione di pratiche edilizie, salva l'ipotesi di inerzia od omissione di atti d'ufficio, che peraltro nella fattispecie non si riscontra
(T.A.R. Emilia Romagna Parma, 25.2.2002, n. 139, FATAR, 2002, 465).



136. La giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche per violazioni ai vincoli imposti dal regime delle acque pubbliche.

LEGISLAZIONE: r.d. 11.12.1933, n. 1775, artt. 48, 68, 140, 143 - d.p.r. 8.6.2001, n. 327, art. 49.

A norma dell'art. 143, r.d. 11.121933, n. 1775, appartengono alla cognizione diretta del Tribunale superiore delle acque pubbliche, fra l'altro, i ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere e per violazione di legge avverso i provvedimenti definitivi presi dall'amministrazione in materia di acque pubbliche.
La giurisprudenza ha sempre interpretato la norma nel senso che, per ricadere nella cognizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche in unico grado, il ricorso deve rivolgersi contro un provvedimento della p.a. che incide direttamente sul regime delle acque pubbliche (Cass. civ., Sez. U. n. 3894/1991).
La discriminazione fra la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche e quella del giudice amministrativo si realizza in base al principio che il provvedimento amministrativo deve, comunque, riferirsi ad un'opera o ad un'attività necessaria per l'utilizzazione delle acque pubbliche e che la situazione soggettiva dedotta in giudizio sia di interesse legittimo (Cass. civ., Sez. U. n. 1542/1989).
La giurisprudenza ha ritenuto che l'adozione di un provvedimento, che anche indirettamente, si propone di tutelare il corretto deflusso delle acque va sottoposto alla giurisdizione del tribunale superiore, ai sensi dell'art. 143 del r.d. 11.12.1933, n. 1775.
Il tribunale superiore delle acque è altresì competente qualora sussista la necessità di una speciale autorizzazione per la rimozione del vincolo che osta alla realizzazione di qualsiasi costruzione nelle zona vincolata, perché prossima ad un corso d'acqua.

In base all'art. 96, lett. f), r.d. 25.7.1904, n. 523, che vieta le costruzioni a distanza inferiore a 10 metri dal corso d'acqua, si rende necessaria una speciale autorizzazione per la rimozione del vincolo, con la conseguenza che la controversia relativa ad un provvedimento, che anche indirettamente, si propone di tutelare il corretto deflusso delle acque, va sottoposta alla giurisdizione del Trib. Sup. Acque Pubbl., ai sensi dell'art. 143, r.d. 11.12.1933 n. 1775
(T.A.R. Piemonte, sez. I, 31.5.2002, n. 1142, FATAR, 2002, 1496. Cass. civ., S.U. 9.11.1998, n. 11274. Trib. Sup. acque pubbl. 24.11.1997, n. 78. T.A.R. Molise, 5.7.1995, n. 181).

Il tribunale superiore delle acque pubbliche ha giurisdizione nei casi tassativamente stabiliti dall’art. 140 del r.d. 11.12.1933, n. 1775.
Sono devolute le controversie intorno alla demanialità delle acque; circa i limiti dei corsi e dei bacini, loro alveo e sponde; ai diritti relativi alle derivazioni o utilizzazioni di acqua pubblica (Cass. civ., Sez. U., 22.12.1987, n. 9562, FA, 1988, 3151).
La materia delle acque pubbliche indicata nell'art. 143, r.d. 11.12.1933, n. 1775, include, oltre ai fatti ed atti relativi al sorgere, al decorso ed all'utilizzazione delle acque pubbliche sotto l'aspetto quantitativo e distributivo - ed alle opere idrauliche inerenti - anche il governo e l'utilizzazione delle acque stesse sotto l'aspetto qualitativo secondo l'uso a cui sono destinate.
La giurisprudenza ha affermato che si tratta di acque pubbliche anche nell’ipotesi di derivazione o captazione d'acqua che soddisfa un interesse pubblico, interesse che sarebbe frustrato se non si potesse impedire il rischio d'inquinamento, essendo ovvio che il Comune non può distribuire per il consumo umano acqua inquinata.

Si verte in tema di acque pubbliche, con conseguente competenza giurisdizionale del tribunale superiore delle acque a conoscere delle relative controversie, qualora sia impugnato il provvedimento con il quale la p.a. inibisca determinate attività e destinazioni di un'area del raggio di 200 metri attorno ai pozzi (in aree di proprietà privata) dai quali il comune deriva acqua destinata al consumo umano, cioè acqua potabile trasportata dall'acquedotto comunale
(Cass. civ., Sez. U., 4.8.1992, n. 9242, GC, 1993, I, 1005).

Sono altresì devolute le controversie riguardanti: la occupazione totale o parziale dei fondi e le relative indennità, da ultimo disciplinate dall’art. 49, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, in conseguenza dell'esecuzione o manutenzione di opere idrauliche, di bonifica e derivazione o utilizzazione di acque; le indennità per espropriazione dei diritti esclusivi di pesca sulle acque del demanio marittimo ed idrico; gli indennizzi derivanti dai danni provocati da modifiche fatte dallo Stato per motivi di pubblico interesse in materia di acque pubbliche, ai sensi dell'art. 48, r.d. 11.12.1933, n. 1775; le controversie relative al riparto provvisorio e definitivo delle spese sostenute dai consorzi obbligatori fra privati per l'utilizzazione delle acque pubbliche, ai sensi dell'art. 68, r.d. 11.12.1933, n. 1775.

La controversia tra il concessionario avente diritto all'utilizzazione dell'acqua pubblica ed il privato proprietario del fondo asservito per il passaggio dell'acqua stessa, in ordine al mancato rispetto delle distanze legali tra la condotta del concessionario e la costruzione eretta sul suo fondo dal privato e che sia causa della riduzione della utilitas del fondo dominante, spetta alla competenza del giudice ordinario e non del tribunale regionale delle acque pubbliche, atteso che non comporta alcuna questione sulla natura delle acque, sul diritto del concessionario ad utilizzarle e sulle modalità di uso dalle stesse, ma attiene esclusivamente alla legittimità della costruzione viciniore secondo le norme del codice civile in tema di rapporti di vicinato o di servitù
(Cass. civ., sez. II, 17.3.1995, n. 3107, GCM, 1995, 631).

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