mercoledì 10 ottobre 2012

Vincoli piano. 8 Espropriazione.


1.1         PARTE TERZA I VINCOLI DI PIANO ED ESPROPRIAZIONE

CAPITOLO VIII

La dichiarazione di pubblica utilità e l’indennità di espropriazione.

SOMMARIO: 115. La pianificazione urbanistica e l’espropriazione.
116. La dichiarazione esplicita di pubblica utilità.
117. La dichiarazione implicita di pubblica utilità.
118. I termini.
119. La proroga dei termini.
119.1. L’annullamento della dichiarazione di p.u. Effetti.
120. La cessione bonaria.
120.1. Il corrispettivo dell’atto di cessione. L’area edificabile. La costruzione edificata.
120.2. L’area non edificabile. La coltivazione da parte del proprietario.
121. L’indennità di esproprio per le aree edificabili.
122. Le possibilità legali ed effettive di edificazione.
123. L’indennità di esproprio per aree non edificabili.
124. Il calcolo dell’indennità per area edificata.



115. La pianificazione urbanistica e l’espropriazione.

LEGISLAZIONE: l. 17.8.1942, n. 1150, artt. 7, 18 - l. 359/1992, art. 15 - l. 109/1994, art. 37 bis.

La dottrina tradizionalmente inquadra come limite alla proprietà privata ogni provvedimento pianificatorio che è visto come limitazione al pieno esercizio dello ius aedificandi (Mengoli 2003, 35).
Un indirizzo dottrinale, seguito anche da un filone giurisprudenziale significativo, capovolge i termini del problema, verificando come un ordinato assetto del territorio possa essere considerato anche come forma di valorizzazione della stessa proprietà.
Un immobile collocato in una zona dotata di pubblici servizi, di opere di urbanizzazione, facilmente accessibile è sicuramente più appetibile di un altro sito in zona non urbanizzata.
Il valore economico dell’immobile subisce un evidente incremento per il conseguente accrescimento della sua rendita di posizione.
Diversa è, chiaramente, l’ipotesi in cui la pianificazione acclara quella che è una vocazione naturale dell’immobile, come nel caso delle zone agricole.

La destinazione agricola di un fondo è espressiva della suddivisione del territorio comunale in zone omogenee, operata dallo strumento urbanistico secondo le prescrizione dell'art. 7, l. 17.8.1942, n. 1150, e del d.m. 2.4.1968 n. 1444, e, come tale, costituisce non già una particolare limitazione delle facoltà dominicali private, bensì una statuizione pianificatoria, attraverso cui la p.a. conforma il contenuto del diritto di proprietà onde renderlo compatibile con la migliore tutela di un ordinato assetto urbanistico e degli interessi ambientali.
(Cons. St., sez. V, 7.8.1996, n. 881, FA, 1996, 2286).

La sequenza logica non sempre si traduce, tuttavia, in un comportamento perequato rispetto alla proprietà edilizia a causa della discrezionalità che l’amministrazione ha nella scelta delle aree da espropriare, per l’attuale incertezza legata al criterio di indennizzo dell’edificabilità delle aree e per la mancata soluzione di alcune problematiche legate soprattutto ai vincoli di piano.
La discrezionalità amministrativa caratterizza l’intero sistema in quanto il procedimento ablatorio non sempre si pone come atto obbligatorio, ma può essere facoltativo o ammettere la sostituzione dell’intervento dell’amministrazione con quello di altri soggetti.
Non esiste uno stretto rapporto fra disegno programmatorio esercitato dai piani urbanistici generali ed espropriazione, salvo scarse eccezioni, come, ad esempio, nel caso del piano di zona per l’edilizia economico popolare.
L’acquisizione al demanio delle aree inserite nel piano è elemento essenziale per la sua attuazione e per l’acquisizione delle aree necessarie all’esecuzione delle opere pubbliche.
L’espropriazione è facoltativa, qualora la pubblica amministrazione intervenga direttamente per l’urbanizzazione delle aree di espansione (Mengoli 2003, 592).
L’amministrazione difficilmente realizza tale tipo di espropriazione, in quanto le risorse finanziarie sono indirizzate prevalentemente ad interventi stabiliti dalla pianificazione attuativa:

In conseguenza dell'approvazione del piano regolatore generale i comuni, allo scopo di predisporre l'ordinata attuazione del piano medesimo, hanno facoltà di espropriare entro le zone di espansione dell'aggregato urbano di cui al n. 2 dell'art. 7 le aree inedificate e quelle su cui insistano costruzioni che siano in contrasto con la destinazione di zona ovvero abbiano carattere provvisorio.
(art. 18, l. 17.8.1942, n. 1150).

L’amministrazione ha, come unico obbligo, quello di quantificare la spesa occorrente:

Allorquando il comune deve deliberare circa l'espropriazione delle aree private è richiesta una relazione finanziaria di massima delle spese occorrenti.
La relazione finanziaria non costituisce più elemento essenziale per l'adozione del p.r.g. potendo anche sopravvenire in un successivo momento allorquando, cioè, il comune deve deliberare circa l'espropriazione delle aree private ex art. 18, l. 17.8.1942, n. 1150
(T.A.R. Campania, sez. Salerno, 10.7.1991, n. 232, T.A.R. 1991, I, 3144).

L’espropriazione è sostitutiva dell’intervento dei privati nei casi in cui questi non concorrano a realizzare i lavori previsti dai piani attuativi.
Il mancato adeguamento dei privati alla pianificazione esecutiva può comportare la possibilità che le opere vengano realizzate dalla amministrazione comunale attraverso una espropriazione, che, però, è eventuale e sostitutiva del mancato intervento privato.
In tal caso l’espropriazione non ha, in ogni modo, funzione sanzionatoria - nei confronti dei privati che non hanno attuato spontaneamente alle disposizioni di piano – ma deve considerarsi esplicazione del potere pubblico di intervenire nell’esecuzione delle opere previste dalla pianificazione urbanistica.
L’espropriazione è, invece, obbligatoria nel caso di realizzazione d’opere pubbliche.
L’espropriazione è, ancora, obbligatoria qualora sia prevista l’acquisizione delle aree al patrimonio indisponibile del comune e la loro relativa urbanizzazione.
Successivamente, le aree sono assegnate, salva la realizzazione diretta degli interventi da parte del comune - secondo i procedimenti stabiliti dalla legge di riserva - a coloro che operano sulla base di convenzionamento, come nel caso di interventi edilizi realizzati in piano di zona.
Lo schema che vede lo strumento urbanistico attuato attraverso il procedimento ablatorio è legato al principio dominante che considera l’opera pubblica come parte necessaria del demanio o quanto meno del patrimonio indisponibile.
Dalla crescente esigenza di privatizzazione, tesa alla riduzione dell’intervento pubblico al fine di ottenere, attraverso il ricorso al libero mercato, una riduzione dei costi, deriva un nuovo istituto che consente ad un operatore privato la realizzazione e la gestione di opere pubbliche attraverso un trasparente meccanismo di gara, vedi art. 37 bis l. 109/1994 (Cianflone e Giovannini 1999, 169).
La norma non precisa se l’area su cui deve realizzarsi l’opera debba essere o meno di proprietà dell’amministrazione aggiudicatrice.
Trattandosi d’opere inserite nella programmazione triennale, sembra del tutto conforme ai principi generali ritenere che il promotore possa ipotizzare nel progetto anche il costo relativo al procedimento espropriativo.
Appare, a mio avviso, una mancanza della normativa quella di non avere previsto la possibilità di delega al promotore del procedimento ablatorio come già avviene ad esempio, nell’ipotesi prevista dall'art. 15 della l. 359/1992.
La legge, in tal caso, pur trasformando l’ENI in società per azioni, ha conservato, a favore delle s.p.a. derivanti dalla trasformazione di enti pubblici economici, le attribuzioni già spettanti in materia espropriativa agli enti originari, legittimando la dichiarazione di pubblica utilità ex lege relativamente ad opere intraprese da parte di soggetti di diritto privato.



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116. La dichiarazione esplicita di pubblica utilità.

LEGISLAZIONE: d.p.r. 8.6.2001, n. 327, art. 16 - d.lg. del 27.12.2002, n. 302, art. 1, 1° lett. o).

La dichiarazione di pubblica utilità costituisce un subprocedimento necessario che definisce una qualificazione giuridica del bene, rendendolo oggetto del procedimento ablatorio (Centofanti 2003 (3), 213).
Essa come abbiamo visto non è contenuta negli strumenti di pianificazione generale.
Essa, però, è portata ex lege, oltre che negli strumenti di pianificazione comunale attuativa, da singoli atti in esecuzione di realizzazione di opere pubbliche da parte del comune.
La dichiarazione di pubblica utilità può essere sollecitata dal soggetto anche privato che è interessato alla realizzazione dell’opera pubblica, predisponendo gli elaborati previsti dall’art. 16, d.p.r. 8.6.2001, n. 327.

1. Il soggetto, anche privato, diverso da quello titolare del potere di approvazione del progetto di un'opera pubblica o di pubblica utilità, può promuovere l'adozione dell'atto che dichiara la pubblica utilità dell'opera. A tale fine, egli deposita pressa l'ufficio per le espropriazioni il progetto dell'opera, unitamente ai documenti ritenuti rilevanti e ad una relazione sommaria, la quale indichi la natura e lo scopo delle opere da eseguire, nonché agli eventuali nulla osta, alle autorizzazioni o agli altri atti di assenso, previsti dalla normativa vigente. (L)
(Art. 16, d.p.r. 8.6.2001, n. 327. d.lg. del 27.12.2002, n. 302, art. 1, 1° lett. o).

La dichiarazione di pubblica utilità può essere emanata in conformità a diversi atti formali purché l’opera prevista sia conforme alle previsioni dello strumento urbanistico o della sua variante (Saturno e Stanzione 2002, 183. Conti 2003, 258).

La corrispondenza fra pianificazione urbanistica e dichiarazione di pubblica utilità deve essere piena.
Il potere conformativo attribuito ai piani urbanistici non consente una localizzazione contrastante con la zonizzazione senza un preventivo adeguamento delle disposizioni di piano:

E’ illegittima la dichiarazione di pubblica utilità di un’opera localizzata in zona con destinazione urbanistica con essa contrastante in conseguenza della mancata adozione della variante di piano regolatore
(T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 8.1.1997, n. 4, T.A.R., 1997, 1010).

In tal caso l’amministrazione comunale deve procedere a variare lo strumento urbanistico (Caringella, De Marzo, De Nictolis e Maruotti 2002 165).



117. La dichiarazione implicita di pubblica utilità.

LEGISLAZIONE: d.p.r. 8.6.2001, n. 327, art. 12, 1° co. - d.lg. 27.12.2002, n. 302, art. 1, 1° co. lett. i).

L’art. 12, 1° co., d.p.r. 8.6.2001, n. 327, contempla fra gli atti che comportano la dichiarazione di pubblica utilità: l’approvazione del progetto definitivo dell’opera pubblica, il piano particolareggiato, il piano di lottizzazione, il piano di recupero urbano, il piano di ricostruzione, il piano delle aree da destinare a insediamenti produttivi e il piano di zona. Essa è implicita; la dichiarazione non deve essere espressamente dichiarata in quanto portata ex lege.
Il t.u. espr. riprende quanto affermato dalle disposizioni normative in materia di pianificazione, che attribuiscono efficacia di dichiarazione di pubblica utilità all’approvazione degli strumenti urbanistici attuativi.
La stessa dizione legislativa ammette che la elencazione degli atti da cui si intende disposta la dichiarazione di pubblica utilità è meramente esemplificativa (Volpe 2001, 70).

Gli atti che comportano la dichiarazione di pubblica utilità
1. La dichiarazione di pubblica utilità si intende disposta:
a) quando l'autorità espropriante approva a tale fine il progetto definitivo dell'opera pubblica o di pubblica utilità, ovvero quando sono approvati il piano particolareggiato, il piano di lottizzazione, il piano di recupero, il piano di ricostruzione, il piano delle aree da destinare a insediamenti produttivi, ovvero quando è approvato il piano di zona;
b) in ogni caso, quando in base alla normativa vigente equivale a dichiarazione di pubblica utilità l'approvazione di uno strumento urbanistico, anche di settore o attuativo, la definizione di una conferenza di servizi o il perfezionamento di un accordo di programma, ovvero il rilascio di una concessione, di una autorizzazione o di un atto avente effetti equivalenti. (L)
2. Le varianti derivanti dalle prescrizioni della conferenza di servizi, dell'accordo di programma o di altro atto di cui all'articolo 10, nonché le successive varianti in corso d'opera, qualora queste ultime non comportino variazioni di tracciato al di fuori delle zone di rispetto previste ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 753, nonché ai sensi del decreto ministeriale 1 aprile 1968, sono approvate dall'autorità espropriante ai fini della dichiarazione di pubblica utilità e non richiedono nuova apposizione del vincolo preordinato all'esproprio. (L)
3. Qualora non sia stato apposto il vincolo preordinato all'esproprio la dichiarazione di pubblica utilità diventa efficace al momento di tale apposizione a norma degli articoli 9 e 10. (L)
(art. 12, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, sost. art. 1, 1° co. lett. i), d.lg. 27.12.2002, n. 302).

Tale effetto non è riconosciuto agli strumenti urbanistici generali, ma solo a quelli attuativi, ai quali è espressamente attribuita tale qualità al momento della loro approvazione, ovvero a quei provvedimenti cui tale effetto giuridico sia riconosciuto espressamente dalla legge.

La dichiarazione di pubblica utilità dell'opera, oltre ad essere contenuta in un espresso provvedimento amministrativo, può risultare implicitamente, non da una mera situazione di fatto, ma dall'esistenza di una disposizione di legge che attribuisca a determinati provvedimenti amministrativi diretti ad altri fini - come l'approvazione del progetto dell'opera pubblica o il rilascio di autorizzazioni o concessioni, ovvero l'approvazione di un piano urbanistico di terzo livello, piano particolareggiato, p.e.e.p., piano di lottizzazione ed altri,- lo stesso valore della dichiarazione di pubblica utilità
(Cass. civ., sez. I, 11.6.1993, n. 6546, GCM, 1993, 1024).



118. I termini.

LEGISLAZIONE: l. 25.6.1865, n. 2359, art. 13 - d.p.r. 8.6.2001, n. 327, art. 13, 1° co. - d.lg. 302/2002, art. 1, 1° co., lett. l).

Il limite all’emanazione della dichiarazione di pubblica utilità è la decadenza del vincolo quinquennale dall’approvazione dello strumento urbanistico generale, ex art. 13, 1° co., d.p.r. 8.6.2001, n. 327.
Se manca l’espressa determinazione del termine di esecuzione del decreto di esproprio, esso può essere eseguito entro il termine di cinque anni, decorrente dalla data in cui diventa efficace l’atto che dichiara la pubblica utilità dell’opera.

1. Il provvedimento che dispone la pubblica utilità dell'opera può essere emanato fino a quando non sia decaduto il vincolo preordinato all'esproprio. (L) 2. Gli effetti della dichiarazione di pubblica utilità si producono anche se non sono espressamente indicati nel provvedimento che la dispone. (L)
(art. 13, d.p.r. 8.6.2001, n. 327).

Il provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità può stabilire il termine entro il quale il decreto di esproprio deve essere eseguito.
Manca nel testo legislativo la distinzione fra termine relativo alle espropriazioni e termine relativo ai lavori che caratterizzava la dizione dell’art. 13, l. 25.6.1865, n. 2359.

L'indicazione dei termini di inizio ed ultimazione delle espropriazioni e dei lavori è prerogativa dell'atto con il quale l'amministrazione esplicita per la prima volta, in modo inequivoco, l'intenzione di esercitare il potere ablatorio sugli immobili, e cioè dell'atto con il quale viene approvato il progetto esecutivo. Si deve ritenere che soltanto in questo momento si effettua quel necessario concreto raffronto tra opera pubblica e strumento urbanistico in virtù del quale l'immobile prescelto viene asservito al procedimento espropriativo ed a cui è coessenziale la limitazione temporale dell'effetto ablatorio tipico della dichiarazione di pubblica utilità, nonché soltanto in questo momento dovranno essere indicati i mezzi finanziari per far fronte all'esecuzione dell'opera
(T.A.R. Emilia Romagna Bologna, sez. I, 8.1.1997, n. 4, FA, 1997, 2081).

Con l’entrata in vigore del nuovo t.u. espr. p.u. viene meno la necessità
di indicare i termini, distintamente, per le due attività, la cui mancanza comportava, nella precedente disciplina la dichiarazione di illegittimità.

E' illegittimo il decreto di approvazione del progetto implicante dichiarazione di pubblica utilità privo della predeterminazione dei termini di inizio e conclusione dei lavori, nonché dei termini delle espropriazioni
(T.A.R. Sicilia sez. I, 3.7.2001, n. 1327, FA, 2001).

E' illegittima la dichiarazione di pubblica amministrazione che contenga solo il termine d'inizio e di ultimazione dei lavori e non anche, distintamente, i termini d'inizio e fine delle espropriazioni, atteso che l'art. 13, l. 25.6.1865, n. 2359, prescrive l'indicazione specifica e distinta dei due tipi di termine. Nell'atto che si dichiari un'opera di pubblica utilità saranno stabiliti i termini, entro i quali dovranno cominciarsi e compiersi le espropriazioni ed i lavori.
E’ illegittima l'approvazione del progetto di un'opera pubblica, ex art. 1, 1° co., l. n. 1 del 1978, che non fissi i suddetti termini
(Cons. Giust. Amm. Sicilia, sez. giurisd., 28.1.1998, n. 21, FA, 1998, 1147).

L’apposizione del termine per le operazioni espropriative è facoltativa, per cui la mancanza dell’indicazione della durata del procedimento non è motivo di illegittimità della procedura.

3. Nel provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera può essere stabilito il termine entro il quale il decreto di esproprio va eseguito. (L)
4. Se manca l'espressa determinazione del termine di cui al comma 3, il decreto di esproprio può essere emanato entro il termine di cinque anni, decorrente dalla data in cui diventa efficace l'atto che dichiara la pubblica utilità dell'opera. (L)
(art. 13, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, mod. art. 1, 1° co., lett. l), d.lg. 302/2002).

La norma è vista dalla dottrina in maniera assolutamente positiva, poiché destinata a ridurre il contenzioso tanto più che l’opera sorge su area già acquisita dall’ente espropriante, per cui i tempi di realizzazione non devono più essere rapportati all’urgenza dichiarata dell’opera.

Da un lato non hanno più rilevanza i termini di inizio e di conclusione dei lavori: in base alla riforma l’opera è realizzata sull’area oramai espropriata (quando già vi è stata l’immissione nel possesso), sicché (salve le norme sulla retrocessione) i tempi di realizzazione dell’opera non riguardano l’espropriato.
Dall’altro lato neppure rileva il termine di inizio dell’ultima fase del procedimento espropriativo: l’unica prescritta formalità (la determinazione dell’indennità provvisoria) può essere effettuata anche in prossimità della scadenza del termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità
(Caringella, De Marzo, De Nictolis e Maruotti 2002, 149).

La normativa, secondo quanto richiesto dalla giurisprudenza, è adeguata a quanto richiesto nei casi di dichiarazione implicita di pubblica utilità.
Per le aree interessate dalla pianificazione attuativa il limite è la relativa scadenza dei piani, che è ad esempio, decennale per il piano particolareggiato.
In tali casi la legge espressamente fissa dei termini di efficacia per la durata dello stesso piano tanto da escludere che il procedimento ablatorio debba tassativamente stabilire dei termini essendo essi già fissati dalla norma.

L'art. 13, l. 25.6.1865, n. 2359, in materia di apposizione di termini iniziale e finale sia dei lavori che delle espropriazioni, non è applicabile alle espropriazioni conseguenti ai piani di zona per l'edilizia economica e popolare, essendo sostituito ed assorbito dalle disposizioni che delimitano nel tempo ope legis l'efficacia dei piani stessi.
In altri termini la durata legale dell'efficacia del p.e.e.p. assolve, da sola, alle esigenze cui, in altro contesto, sopperiscono i termini di cui all'art. 13, sicché appare superflua l'imposizione di specifici termini ai singoli atti espropriativi, che possono intervenire durante tutto il periodo di vigenza dei piani
(Cons. St., sez. IV, 24.10.1997, n. 1228, UA, 1998, 201. Cons. St., sez. IV, 17.4.1998, n. 645, FA, 1998, 1034. Cons. St., sez. IV, 16.10.1998, n. 1313, RGE, 1999, 330).

Viene richiesta unicamente l’indicazione del termine finale, premesso che il termine iniziale è determinato automaticamente fino alla scadenza della possibilità di emettere la dichiarazione di pubblica utilità.


119. La proroga dei termini.

LEGISLAZIONE: cost. art. 42 - l. 25.6.1865, n. 2359, art. 13 - d.p.r. 8.6.2001, n. 327, art. 13, 5° co..

L’art. 13, 5° co., d.p.r. 8.6.2001, n. 327, consacra il principio fissato dalla giurisprudenza che consente la proroga dei termini nei casi di forza maggiore e per altre giustificate ragioni.

5. L'autorità che ha dichiarato la pubblica utilità dell'opera può disporre la proroga dei termini previsti dai commi 3 e 4 per casi di forza maggiore o per altre giustificate ragioni. La proroga può essere disposta, anche d'ufficio, prima della scadenza del termine e per un periodo di tempo che non supera i due anni. (L)
(art. 13, d.p.r. 8.6.2001, n. 327).

I requisiti della proroga sono tassativi; essa deve essere disposta prima della scadenza del termine e non avere durata maggiore dei due anni. Vale sempre il termine quinquennale disposto dall’art. 13, 4° co., d.p.r. 327/2001, che prevede l'emanazione del decreto di esproprio entro il quinquennio dalla data di approvazione dell’atto che dichiara la pubblica utilità
La giurisprudenza ha in precedenza ammesso la proroga dei termini che doveva essere, secondo i principi generali, congruamente motivata e approvata prima della scadenza.
E’ stato affermato che i termini possono essere prorogati per i casi di forza maggiore e per altri motivi indipendenti dalla volontà dell'espropriante, ma sempre fissando la relativa scadenza; l'inadeguata motivazione è fonte di illegittimità del relativo provvedimento.

I termini possono essere prorogati per i casi di forza maggiore e per altri motivi indipendenti dalla volontà dell'espropriante, ma sempre fissando la relativa scadenza; l'inadeguata motivazione è fonte di illegittimità del relativo provvedimento.
Non può ammettersi una proroga implicita del termine per l'espropriazione, da desumersi dalla sola proroga del termine per l'inizio ed il compimento dei lavori
(Cons. St., sez. IV, 21.7.1997, n. 724, CS, 1997, 1008. Cons. St., sez. IV, 8.10.1985, n. 416, RGE, 1986, 189).

Solo in presenza di un accertato sopravvenuto evento che abbia rappresentato un obiettivo impedimento al completamento del procedimento ablatorio si può giustificare la proroga che rappresenta altrimenti una ingiustificata ulteriore compressione al diritto dei proprietari.
La proroga dei termini già scaduti è illegittima poiché essa è in conflitto col principio costituzionale, fissato dall’art. 42 cost., che prevede per la proprietà solo limiti a tempo determinato o comunque oggetto di indennizzo.
E’, invece, esclusa la possibilità di regolarizzazione di un provvedimento nel quale sia omessa l'indicazione dei termini per l'inizio e il compimento dei lavori e delle procedure espropriative.

L'atto di approvazione del progetto dell'opera, in cui la dichiarazione di pubblica utilità è implicita deve prevedere i termini, iniziali e finali, per l'esecuzione dei lavori ed il compimento della procedura espropriativa, la cui indicazione è imposta dall'art. 13, l. 25. 6.1865, n. 2359, senza possibilità di successive indicazioni a sanatoria, al fine garantistico di non lasciare il privato indefinitamente esposto alla vicenda ablatoria
(Cons. St., A. P., 26.8.1991, n. 6, RAm, 1991, 1800. Con. St., sez. IV, 15.4. 1997, n. 395, FA, 1997, 1069. Cass. civ., Sez. U., 4.3.1997, n. 1907, RGE, 1997, 504).

L’atto amministrativo può naturalmente essere rinnovato.
In tal caso la dichiarazione di pubblica utilità deve contenere una nuova indicazione dei termini svincolati da quelli originari; il suo rinnovo impone la riproduzione di tutti gli atti successivi alla precedente dichiarazione, secondo l'ordine logico del procedimento espropriativo, ma non anche di quelli precedenti.

La reiterazione nelle forme di legge della dichiarazione di pubblica utilità scaduta, ai sensi dell'art. 13, 3° co., l. 25.6.1865, n. 2359, deve avvenire mediante il nuovo svolgimento del procedimento amministrativo strumentale alla detta dichiarazione per tenere conto sia delle determinazioni di tutti gli organi amministrativi legittimati ad interloquire, sia dell'attuale assetto dei luoghi e degli eventuali mutamenti sopravvenuti alla dichiarazione divenuta inefficace per scadenza dei termini
(Cons. St. sez. IV, 22.3.2001, n. 1683, GI, 2001, 1967).

Nel caso di rinnovazione della dichiarazione di pubblica utilità, deve essere nuovamente determinata ed offerta l'indennità provvisoria di espropriazione
(Trib. sup. acque, 29.11.1997, n. 84, CS, 1997, II, 1829. Cons. St., sez. IV, 14.7.1997, n. 715, FA, 1997, 1941).


119.1. L’annullamento della dichiarazione di p.u. Effetti.

LEGISLAZIONE: l. 3.1.1978, n. 1, art. 1.

Il procedimento che dispone la dichiarazione di p.u. è automaticamente impugnabile, senza necessità di attendere il successivo decreto di espropriazione, la mancata impugnazione nei termini rituali del provvedimento ne preclude le successive censure.

La dichiarazione di pubblica utilità di un'opera (anche quando derivi dall'approvazione del progetto esecutivo) è un provvedimento che lede i proprietari delle aree interessate in quanto conferisce a tali aree il carattere specifico di bene assoggettato al procedimento espropriativo, condizione essenziale per la successiva espropriazione; pertanto non si tratta di un atto meramente preparatorio ma di un provvedimento immediatamente lesivo che va impugnato entro i consueti termini decadenziali
(T.A.R. Trentino Alto Adige, sez. Trento, 14.6.2001, n. 407. T.A.R. Trentino Alto Adige, sez. Trento, 2.5.2000, n. 141, CI, 2000, 1591).

Il ricorso è teso ad acclarare la legittimità del procedimento di esproprio nella fase programmatoria che deve essere seria ed attendibile.

E' illegittima l'espropriazione di aree di proprietà privata non occorrenti alle attuali esigenze di pubblico interesse ma finalizzate ad obiettivi di là da venire per i quali non sussiste allo stato alcuna progettazione neppure di larga massima e tanto meno l'impegno delle necessarie risorse finanziarie
(T.A.R. Piemonte, sez. II, 4.4.1997, n. 180, FA, 1997, 3150).

Nell’impugnazione non si può censurare il merito del provvedimento a meno che il vizio si manifesti nella assoluta carenza di logicità delle scelte effettuate dall’amministrazione.

La scelta delle aree da espropriare è rimessa all'apprezzamento della pubblica amministrazione e non è sindacabile in sede di giurisdizione di legittimità, salvo che il giudice non consideri l'illogicità ovvero l'inutilità ictu oculi della scelta effettuata
(Cons. St., sez. IV, 14.7.1997, n. 715, CS, 1997, I, 1002).

La giurisprudenza ammette la possibilità di verificare la disponibilità finanziaria dell’amministrazione al fine della realizzazione dell’opera.

L'accertamento da parte del giudice amministrativo dell'esistenza della necessaria copertura finanziaria per la realizzazione di un'opera pubblica, desumibile dall'imputazione della spesa in bilancio e dall'indicazione dello strumento per il reperimento della somma, tende a verificare la possibilità o meno per la p.a. di procedere all'esecuzione del progetto posto alla base della dichiarazione di pubblica utilità
(Cons. St., sez. IV, 2.2.1998, n. 147, FA, 1998, 332).

Gli effetti dell’annullamento della dichiarazione di pubblica utilità si riflettono sugli atti successivi del procedimento che perdono di conseguenza efficacia, anche se non sono stati impugnati.
La dichiarazione di pubblica utilità dichiarata illegittima non può essere sanata, con effetti ex tunc, mediante l'eliminazione dei vizi dai quali era affetta al momento della sua emanazione.

L'annullamento in sede giurisdizionale della dichiarazione di pubblica utilità dell'opera ha effetti caducanti e non già invalidanti sugli atti ablatori successivamente assunti, quali il decreto di occupazione o il decreto di espropriazione, anche se non impugnati
(T.A.R. Abruzzo, Pescara, 10.4.1997, n. 172, FA, 1997, 3214).

Il termine di impugnazione della dichiarazione di pubblica utilità differisce a seconda che essa provenga ex lege o sia esplicita.
Qualora venga approvato uno strumento urbanistico la dichiarazione implicita di pubblica utilità deve essere impugnata avendo a riferimento i termini per la approvazione, mentre nel caso di dichiarazione esplicita il termine decorre dal momento della notifica del provvedimento.
Il termine per l'impugnazione, in ipotesi di dichiarazione di p.u. implicita - approvazione del progetto di opera pubblica ai sensi e per gli effetti dell'art. 1, l. 3.1.1978, n. 1 - non può che discendere dal momento della effettiva e piena conoscenza dell'esistenza dell'atto deliberativo dichiarativo della p.u. (e dell'indifferibilità ed urgenza delle opere), non già dalla sua pubblicazione in quanto i proprietari espropriandi sono destinatari diretti e determinati dell'atto che introduce la procedura ablatoria e vanno considerati, quindi, soggetti direttamente contemplati nell'atto o provvedimento nel senso di cui all'art. 2, r.d. 17.8.1907, n. 642
(T.A.R. Puglia, sez. I, Bari, 30.5.1997, n. 375, FA, 1998, 555).



120. La cessione bonaria.

LEGISLAZIONE: l. 865/1971, art. 12 - l. 10/1977, art. 4, 1° co., 14 - l. urb. 1150/1942, art. 5.

Il procedimento ablatorio può concludersi con un contratto che sostituisce il procedimento, qualora l’espropriando stipuli con l’amministrazione la cessione bonaria del bene, ovvero con il procedimento ablatorio che porta ad una determinazione contenziosa dell’indennità.
Le norme che determinano l’indennità di esproprio sono fondamentali per comprendere i criteri che regolano la misura dell’indennità da corrispondere in presenza di vincoli di piano, vedi Cap. IV, n. 51.
L’art. 12, l. 865/1971, mod. art. 4, 1° co., l. 10/1977, ha disposto che il proprietario espropriando, entro trenta giorni dalla notifica dell’avviso con cui è comunicato l’ammontare dell’indennità provvisoria, ha diritto di convenire con l’espropriante la cessione volontaria degli immobili per un prezzo non superiore al 50% dell’indennità provvisoria.
L’importo, come si vede, non è fissato in maniera precisa dal legislatore (Centofanti 2003 (3) 232).
Tale disposizione normativa ha fatto sollevare dei dubbi sulla facoltà dell’amministrazione espropriante di sottrarsi alle richieste dell’espropriando, qualora queste - pur rientrando nei limiti fissati - siano state giudicate eccessive.
Rarissime sono le decisioni che ritengono piena la discrezionalità dell’amministrazione di determinare l’importo dell’indennità da offrire.

La maggiorazione del 50% dell'indennità provvisoria prevista dall'art. 14, l. 28.11977, n. 10, non costituisce un diritto potestativo del soggetto espropriato; pertanto, l'amministrazione, ove, tenuto conto che l'indennità provvisoria va commisurata al valore dell'area e delle costruzioni che vi insistono, ritenga che la detta indennità maggiorata del 50% non sia conveniente, può rifiutare la cessione volontaria e dare seguito alla procedura espropriativa
(Cons. St., sez. II, 23.1.1980 n. 212, RGE, 1982, I, 144).

La giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del t.u. espr., invece, sostiene l’obbligo dell’amministrazione di giungere alla cessione ritenendo il limite imposto dal legislatore come fonte di un diritto per l’espropriando.

La denuncia da parte dell'espropriando di omissioni o vizi della fase procedimentale successiva all'offerta dell'indennità provvisoria e concernenti la determinazione dell'indennità definitiva in sede amministrativa, che si siano tradotti in un impedimento all'esercizio della facoltà di convenire la cessione volontaria del bene a norma dell'art. 12 della l. 22.10.1971, n. 865, si ricollega a posizioni di diritto soggettivo, stante la stretta connessione delle regole procedimentali che si assumono violate con la determinazione della indennità e con il presupposto legittimante il potere ablativo della amministrazione, e spetta quindi alla giurisdizione del giudice ordinario, nel cui potere rientra il sindacato incidentale sulla legittimità dell'operato dell'amministrazione
(Cass. civ., Sez. U., 29.11.1986, n. 7080, GCM, 1986).

La dottrina è su tali posizioni; essa ritiene fondamentale la scelta del legislatore di fissare nel triplo l’ammontare dell’indennità di cessione volontaria nel caso in cui l'area sia di proprietà del coltivatore diretto, senza possibilità di deroga.

La dizione adoperata dal legislatore, secondo cui l’espropriando ha diritto di convenire la cessione volontaria per un prezzo superiore del 50% dell’indennità provvisoria, non contiene un riferimento ad un importo rigidamente predeterminato.
La norma in esame se da un lato attribuisce al proprietario la facoltà di convenire la cessione volontaria, dall’altro lato, non sembra lasciare alcun dubbio per una contrattazione fra espropriante ed espropriato nella misura della maggiorazione, ovvero sulla possibilità di non concedere nessun incremento sulla somma offerta
(Leone e Marotta 1997, 373).

L’impostazione è ribadita dall’art. 45, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, che predetermina in maniera chiara l’ammontare del corrispettivo (De Marzo 2002, 189).
La norma, come afferma il Consiglio di Stato, mira ad estendere per quanto è possibile la figura della cessione volontaria per evidenti intenti deflativi (Cons. Stato, AG, par. 29.3.2001).
Se il proprietario accetta la determinazione della indennità provvisoria, l’amministrazione espropriante è obbligata a concludere l'accordo di cessione del bene.

9. Il beneficiario dell'esproprio ed il proprietario stipulano l'atto di cessione del bene qualora sia stata condivisa la determinazione della indennità di espropriazione e sia stata depositata la documentazione attestante la piena e libera proprietà del bene. Nel caso in cui il proprietario percepisca la somma e si rifiuti di stipulare l'atto di cessione del bene, può essere emesso senza altre formalità il decreto di esproprio, che dà atto di tali circostanze, e può esservi l'immissione in possesso, salve le conseguenze risarcitorie dell'ingiustificato rifiuto di addivenire alla stipula.
(art. 20, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, sost. art. 1, lett. r), d.lg. del 27.12.2002, n. 302).

La dottrina inquadra tale atto come un contratto pubblico, classificandolo come ausiliario al provvedimento amministrativo, poiché, in tal caso, il provvedimento amministrativo ablatorio rimane solo eventuale, ossia se ne fa ricorso unicamente nel caso di mancata stipulazione della cessione.
Qualora l'accordo bonario non si perfezioni il procedimento riprende il suo iter dall'ultimo atto ossia l’amministrazione procede al pagamento delle indennità accettate ed al deposito delle altre indennità presso la Cassa Depositi e Prestiti.
Il proprietario ha il diritto soggettivo di essere invitato all'accordo bonario, ma lo deve esercitare, pena la decadenza, nei termini fissati.
L'accordo sostituisce il successivo procedimento amministrativo poiché la pubblica amministrazione realizza il suo scopo non tanto attraverso la sua potestà autoritativa, ma attraverso un accordo con il destinatario soggetto passivo dell'azione amministrativa.
La riscossione dell'indennità di espropriazione in base a cessione volontaria comporta la preclusione di ogni pretesa sia riguardo al prezzo del terreno ceduto sia in relazione al degrado della parte residua del terreno sia, infine, per quanto attiene ad ulteriori ripercussioni patrimoniali sfavorevoli sull'attività lavorativa interrotta dall'azione espropriativa, salva l'azione di rescissione in caso di abuso dello stato di bisogno del privato (Trib. sup.re acque, 14.10.1992, n. 74, CS, 1992, II, 1541).
La dottrina evidenzia la contraddittorietà del fatto di consentire la cessione volontaria di un bene già oggetto del decreto di esproprio.

Sembra si sia trattato di un lapsus calami: infatti, non pare possibile cedere un bene che già sia stato espropriato, in quanto il proprietario ha perduto disponibilità e titolarità sul bene in questione, viceversa, sembra che la finalità dell’estensore della norma sia stata quella di consentire al proprietario espropriato di non perdere i benefici derivanti dall’accettazione dell’indennità, consentendogli di concordare l’ammontare della stessa fin quando non sia eseguito il decreto di esproprio
(Leone 2001, 309).

Le ragioni di celerità procedimentali e di rinuncia ad eventuali ricorsi giurisdizionali sembrano superate con l’emanazione del decreto di esproprio.


120.1. Il corrispettivo dell’atto di cessione. L’area edificabile. La costruzione edificata.

LEGISLAZIONE: d.p.r. 6.6.2001, n. 380, artt. 30, 31, 3° co. - d.p.r. 8.6.2001, n. 327, artt. 37, 38, 45, 2° co., lett. a), b) - d.lg. 27.12.2002, n. 302, art. 1, 1° co., lett. mm).

I benefici economici sono previsti dall’art. 45, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, che fissa la determinazione del corrispettivo dell’accordo di cessione in relazione a quattro situazioni nelle quali può trovarsi l’area oggetto del procedimento ablatorio:
1) area edificabile;
2) costruzione edificata;
3) area non edificabile;
4) area non edificabile coltivata direttamente dal proprietario.
La classificazione è tassativa e, pertanto, non è da ravvisarsi un criterio di determinazione diverso da quelli previsti nei quali deve farsi rientrare necessariamente ogni ipotesi possibile.
Per ogni situazione il legislatore stabilisce un diverso criterio di determinazione del corrispettivo.

2. Il corrispettivo dell'atto di cessione:
a) se riguarda un'area edificabile, è calcolato ai sensi dell'articolo 37, senza la riduzione del quaranta per cento;
b) se riguarda una costruzione legittimamente edificata, è calcolato nella misura venale del bene ai sensi dell'articolo 38;
c) se riguarda un'area non edificabile, è calcolato aumentando del cinquanta per cento l'importo dovuto ai sensi dell'articolo 40, comma 3;
d) se riguarda un'area non edificabile, coltivata direttamente dal proprietario, è calcolato moltiplicando per tre l'importo dovuto ai sensi dell'articolo 40, comma 3. In tale caso non compete l'indennità aggiuntiva di cui all'articolo 40, comma 4. (L)
3. L'accordo di cessione produce gli effetti del decreto di esproprio e non li perde se l'acquirente non corrisponde la somma entro il termine concordato. (L)
4. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del capo X. (L)
(art. 45, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, mod. art. 1, 1° co., lett. mm), d.lg. 27.12.2002, n. 302).

1) Il beneficio di maggiore effetto si realizza nel caso di cessione di area edificabile.
Nel caso di accettazione del valore dell’indennità non ha luogo la riduzione del 40% che segue alla mancata accettazione dell’indennità provvisoria proposta, ex art. 45, 2° co., lett. a), d.p.r. 8.6.2001, n. 327.
L’accettazione consente di ottenere un beneficio diretto sulla formula che determina l’indennità di esproprio.
L’indennità di espropriazione di un’area edificabile è determinata, infatti, ex art. 37, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, nella misura pari all’importo, diviso per due e ridotto del quaranta per cento, equivalente alla somma del valore venale del bene e del reddito dominicale netto, rivalutato ai sensi degli artt. 24 ss., d.lg. 22.12.1986, n. 917, e moltiplicato per dieci.
2) Nell’ipotesi di indennizzo riguardante una costruzione legittima, compete il valore venale della costruzione, ex art. 45, 2° co., lett. b), d.p.r. 8.6.2001, n. 327.
La norma riproduce il criterio per la determinazione dell’indennizzo di esproprio previsto dall’art. 38, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, che, nel caso di espropriazione di un’area edificata, fissa l’indennità in misura pari al valore venale dell’immobile.
La dottrina rileva che non vi è incentivo nella cessione volontaria di costruzioni perché il corrispettivo è identico a quello che si ottiene subendo il decreto di esproprio (Caringella, De Marzo, De Nictolis e Maruotti 2002, 662).
La soluzione appare armonica al sistema legislativo vigente anche se il criterio è inidoneo a rappresentare un reale incentivo alla cessione bonaria, visto che le conseguenze economiche per l’espropriato sono uguali a quelle previste dal calcolo dell’indennità di esproprio (Cons. Stato, AG, par., 29.3.2001).
La disposizione conferma implicitamente l’interpretazione dell’art. 12, l. 865/1971; essa sosteneva che la parola immobili, usata dal legislatore, era da riferirsi alle sole aree edificabili o agricole e non alle costruzioni (Forlenza 2001, 83).
Il criterio espressamente prevede la legittimità della costruzione ossia essa deve essere edificata sulla base di un idoneo provvedimento abilitativo, o quanto meno deve essere stata oggetto di condono edilizio.
In ogni caso l’art. 37, 3° co., d.p.r. 6.6.2001, n. 380, esclude tassativamente che debba corrispondersi l’indennità per le costruzioni costruite abusivamente.
Le opere abusive non oggetto di condono devono essere, infatti, acquisite al patrimonio del comune attraverso il procedimento disposto dall'art. 7 della l. 47/1985, sost. art. 31, d.p.r. 6.6.2001, n. 380.
Oggetto del provvedimento di acquisizione sono le opere abusivamente eseguite su terreni sottoposti a vincolo di inedificabilità e le opere eseguite in totale difformità dalla concessione, ora permesso di costruire, che comportano la realizzazione di un organismo edilizio diverso da quello indicato nel provvedimento o che abbia subito varianti cosiddette essenziali rispetto al progetto approvato, così come determinato dalle regioni.
Sono oggetto di acquisizione, inoltre, le aree lottizzate senza autorizzazione, ai sensi dell’art. 30, d.p.r. 6.6.2001, n. 380.
L'oggetto dell'acquisizione, in carenza di concessione, può comprendere l'area di pertinenza per una estensione che raggiunga fino a dieci volte la complessiva superficie abusivamente realizzata, ex art. 31, 3° co., d.p.r. 6.6.2001, n. 380.
Se l’area deve essere acquisita ovviamente non può essere ceduta dal proprietario a fronte di un impegno finanziario per l’amministrazione procedente.
Né, in pratica, l’ipotesi è possibile poiché l’amministrazione comunale è tenuta alla repressione dell’abusivismo in tempi perentori che non possono essere successivi all’intervento contro l’abusivismo.


120.2. L’area non edificabile. La coltivazione da parte del proprietario.

LEGISLAZIONE: d.p.r. 8.6.2001, n. 327, artt. 40, 1° co., 45, 2°, lett. c), d), 3° co., - d.lg. 27.12.2002, n. 302, art. 1, 1° co., lett. mm).

Le ipotesi di area non edificabile impongono un indennizzo diverso a seconda che l’area sia coltivata o meno da parte del proprietario.
3) Nel caso di indennizzo riguardante un’area non edificabile, il valore agricolo, di cui all’art. 40, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, è aumentato del 50 per cento, ex art. 45, 2° co., lett. c), d.p.r. 8.6.2001, n. 327, mod. art. 1, 1° co., lett. mm., d.lg. 27.12.2002, n. 302.
Ove l’area comprenda anche dei fabbricati la dottrina ritiene che questi vadano valutati considerando il loro valore venale senza alcuna maggiorazione, per non contrastare con l’ipotesi precedentemente esaminata.

Nell’esame di questa norma è stato rilevato che essa non potrebbe trovare applicazione in caso di aree sulle quali insistono manufatti, come l’art. 40, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, ammette. Se non si facesse applicazione del valore venale, a norma entrerebbe in contrasto con la lett. b) dell’art. 45.
Tuttavia, l’esistenza di manufatti non rende le aree legalmente edificabili, mentre sembra che la previsione di cui alla lett. b) aspiri a codificare l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, sempre che sussista il requisito legale dell’edificabilità dell’area – che nella specie implica essenzialmente la regolarità della costruzione – esclude l’indennizzabilità dei fabbricati dall’ambito di applicazione dell’art. 5 bis, l. 359/1992. In conclusione, se l’area ceduta non è legalmente qualificabile come edificabile, il corrispettivo va determinato alla stregua del valore agricolo, ex art. 40, 1° co., d.p.r. 8.6.2001, n. 327, o del valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura prevalente nella zona, tenendo conto dei manufatti sempre che siano stati legittimamente realizzati, ex art. 40, 2° co., d.p.r. 8.6.2001, n. 327
(Caringella, De Marzo, De Nictolis e Maruotti 2002, 662).

4) Nel caso di indennizzo riguardante un’area non edificabile coltivata dal proprietario, il valore agricolo è moltiplicato per tre, ex art. 45, 2° co., lett. d), d.p.r. 8.6.2001, n. 327.
L’importo dovuto ai sensi dell’art. 40, 1° co., d.p.r. 8.6.2001, n. 327, è pari al valore agricolo del fondo.
La dottrina nota la differenza della dizione legislativa dal precedente art. 17, l. 865/1971, che, disciplinando la stessa fattispecie, fissava come indennizzo il valore agricolo medio.

In tema di espropriazione per pubblica utilità, la triplicazione dovuta in caso di cessione dell'immobile al proprietario che sia anche coltivatore diretto del fondo, ex art. 17, 1° co., l. 865 del 1971, deve essere applicata sulla sola indennità dovuta per il terreno e calcolata con il criterio tabellare di cui all'art. 16, l. 865 del 1971.
(Cass. civ., sez. I, 8.8.2001, n. 10930, GCM, 2001, 1569).

Essa propone una interpretazione correttiva in tal senso della norma.
L’art. 17, l. 865/971, indicava che l’indennità provvisoria doveva essere determinata dalla commissione, ex art. 16, 4° co., l. 865/971, facendo riferimento al valore agricolo medio, nel precedente anno, dei terreni considerati liberi da vincoli di contratti agrari, corrispondente al tipo di coltura in atto nell’area da espropriare.

Mentre, pertanto, nel sistema della l.865/1971, la triplicazione assumeva come base di computo il valore agricolo medio, l’art. 45, 2° co., lett. d), d.p.r. 8.6.2001, n. 327, triplica l’importo dovuto ai sensi dell’art. 40, 1° co., che ha riguardo al valore agricolo tout court.
Il che ci sembra finisce per realizzare, prima ancora che un incentivo sproporzionato per l’espropriato, una sicura (e a nostro avviso non consentita) innovazione sostanziale dei criteri indennitari
(Caringella, De Marzo, De Nictolis e Maruotti 2002, 663).

L’art. 45, 3° co., d.p.r. 8.6.2001, n. 327, ha inteso rafforzare gli effetti dell’accordo di cessione affermando testualmente che sono gli stessi del decreto di esproprio.
Sicuramente il legislatore ha esagerato in quanto gli effetti ablatori della cessione volontaria si realizzano anche qualora, dopo l’accettazione del proprietario, l’espropriante non versi il corrispettivo concordato, mentre è noto che il decreto di esproprio non può essere emanato senza che esso dia conto del deposito dell’indennità a fronte della mancata accettazione da parte del soggetto passivo del procedimento, anche se la dottrina dubita che la norma sia in linea con i principi generali.

Se da un punto di vista sostanziale si avverte l’opportunità di assoggettare ad una regolamentazione tendenzialmente uniforme gli effetti del decreto di esproprio e quelli della cessione volontaria, tenuto conto della causa specifica di quest’ultima, dal punto di vista formale è dubbio che l’intervento del d.p.r. 327/2001, sia in linea con i limiti del potere normativo attribuito al governo
(De Marzo 2002, 192).

Il parere del Consiglio di Stato giustifica pienamente la scelta normativa che rafforza gli effetti dall’adesione del proprietario; essa dimostra che ogni suo diritto si sposta sul pagamento del corrispettivo.
L’art. 45, 3° co., d.p.r. 327/2001, intende evitare le questioni, sorte in dottrina ed in giurisprudenza, sulla natura dell’accordo e sull’esperibilità dell’azione di risoluzione dell’accordo nel caso di inadempimento, con la distinzione degli aspetti pubblicistici da quelli attinenti al pagamento della somma dovuta
(Cons. St., par. 29.3.2001).

L’interpretazione giurisprudenziale è stata invece sinora contraria riconoscendo addirittura in caso di mancato pagamento una azione restitutoria non solo nei confronti dell’espropriante, ma anche del terzo che abbia ricevuto il bene dall’amministrazione.
Si pensi ad esempio ad un’area di piano di zona assegnata ad una cooperativa senza che sia stato pagato il corrispettivo all’espropriato.

L'annullamento di un accordo di cessione nell'ambito di procedura espropriativa di un determinato bene, per errore in ordine ai criteri legali di determinazione del corrispettivo, integra una situazione di indebito oggettivo, fonte autonoma di obbligo restitutorio, che prescinde dal titolo annullato, ed impone, in caso di alienazione del bene dell'ente espropriante a un terzo, ai sensi dell'art. 2038 c.c., l'accertamento della buona fede dell'accipiens indipendentemente dal giudicato di annullamento basato sull'errore bilaterale.
Nella specie, si è ritenuto che l'errore dell'amministrazione comunale nell'applicazione dei criteri per l'indennità di esproprio non escluda che l'ignoranza sia dipesa da mala fede, tenuto conto dell'importanza rivestita dalla questione delle espropriazioni per le amministrazioni comunali, e dunque della necessaria conoscenza delle fonti legislative
(Cass. civ., sez. I, 17.4.1993, n. 4553, FI, 1994, I, 1752).


121. L’indennità di esproprio per le aree edificabili.

LEGISLAZIONE: d.lg. 22.12.1986, n. 917, art. 24 - l. 359/1992, art. 5 bis
- d.p.r. 8.6.2001, n. 327, artt. 32, 37, 1° e 2° co.

Il d.p.r. 8.6.2001, n. 327, determina il sistema del calcolo dell’indennità, seguendo le indicazioni giurisprudenziali che hanno dichiarato incostituzionale il sistema di indennizzo basato sul valore agricolo medio formulato dalla l. 865/1971 (Centofanti 2003 (3) 295).
Rimane, quindi, la distinzione, introdotta in via provvisoria dall’art. 5 bis della l. 359/1992, fra aree edificabili e aree non edificabili.
L’indennità di espropriazione di un’area edificabile è determinata nella misura pari all’importo, diviso per due e ridotto del quaranta per cento, equivalente alla somma del valore venale del bene e del reddito dominicale netto, rivalutato ai sensi degli artt. 24 ss., d.lg. 22.12.1986, n. 917, e moltiplicato per dieci, art. 37, d.p.r. 8.6.2001, n. 327.

1. L'indennità di espropriazione di un'area edificabile è determinata nella misura pari all'importo, diviso per due e ridotto nella misura del quaranta per cento, pari alla somma del valore venale del bene e del reddito dominicale netto, rivalutato ai sensi degli artt. 24 e seguenti del decreto legislativo 22.12.1986, n. 917, e moltiplicato per dieci. (L)
(art. 37, 1° co., d.p.r. 8.6.2001, n. 327).

La Corte costituzionale non ha accolto la dichiarazione di incostituzionalità della riduzione del 40% fissata dall'art. 5 bis, 1° e 2° co., l. 8.8.1992, n. 359, nella parte in cui impone l'abbattimento del 40% dell'indennità di espropriazione per il solo fatto dell’instaurazione del giudizio teso alla determinazione dell’indennità, vedi par. prec.
La norma, invece, prevede che la riduzione non si applichi, oltre che nel caso di accettazione dell’indennità da parte dell’espropriando, qualora la cessione non sia stata conclusa per fatto non imputabile al proprietario o perché a questo sia stata offerta una indennità provvisoria che, attualizzata, risulti inferiore agli otto decimi di quella determinata in via definitiva.

2. La riduzione di cui al comma 1 non si applica se sia stato concluso l'accordo di cessione o se esso non sia stato concluso per fatto non imputabile all'espropriato o perché a questi sia stata offerta una indennità provvisoria che, attualizzata, risulti inferiore agli otto decimi di quella determinata in via definitiva. (L)
(art. 37, 2° co., d.p.r. 8.6.2001, n. 327).

Rimane la riduzione dell’indennità nei limiti della dichiarazione ICI.
Principio fondamentale in materia di indennità di espropriazione, dettato dall'art. 42, l. 25.6.1865, n. 2359, ora sost. art. 32, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, è che l’indennità deve rimanere insensibile al fenomeno dell'espropriazione e non può, quindi, risentire né degli aumenti né delle diminuzioni di valore del terreno, dipendenti proprio dall'espropriazione o dall'esecuzione dell'opera pubblica costituente titolo per l'esproprio.

1. Salvi gli specifici criteri previsti dalla legge, l'indennità di espropriazione è determinata sulla base delle caratteristiche del bene al momento dell'accordo di cessione o alla data dell'emanazione del decreto di esproprio, valutando l'incidenza dei vincoli di qualsiasi natura non aventi natura espropriativa e senza considerare gli effetti del vincolo preordinato all'esproprio e quelli connessi alla realizzazione dell'eventuale opera prevista, anche nel caso di espropriazione di un diritto diverso da quello di proprietà o di imposizione di una servitù. (L)
2. Il valore del bene è determinato senza tenere conto delle costruzioni, delle piantagioni e delle migliorie, qualora risulti, avuto riguardo al tempo in cui furono fatte e ad altre circostanze, che esse siano state realizzate allo scopo di conseguire una maggiore indennità. Si considerano realizzate allo scopo di conseguire una maggiore indennità le costruzioni, le piantagioni e le migliorie che siano state intraprese sui fondi soggetti ad esproprio dopo la comunicazione dell'avvio del procedimento. (L)
3. Il proprietario, a sue spese, può asportare dal bene i materiali e tutto ciò che può essere tolto senza pregiudizio dell'opera da realizzare. (L)
(art. 32, d.p.r. 8.6.2001, n. 327).

Il valore deve essere determinato con riferimento alla data del decreto di espropriazione, senza tenere conto degli incrementi derivanti dalla presenza di infrastrutture, opere od impianti realizzati o da realizzare appunto per l’esecuzione dell'opera cui l'espropriazione stessa è preordinata (Cass. civ., sez. I, n. 798/1990)
Quanto al momento temporale cui si deve fare riferimento per la determinazione dell'indennità, bisogna aver riguardo al valore venale del terreno all’epoca dell'espropriazione, depurato dalla quota di esso che, sempre in quel momento, sia da attribuire alla presenza di opere o di infrastrutture realizzate o da realizzare per l'esecuzione dell'opera pubblica.
Non è tanto rilevante, ai fini della detrazione, il costo in sé delle opere, quanto l'aumento di valore del fondo determinatosi, alla data di riferimento, a seguito della loro esecuzione.
Anche a volere considerare la spesa per le opere medesime, in quanto ritenuta specularmente corrispondente all'aumento di valore avuto dal fondo, il costo da considerare non può essere che quello determinatosi alla data del decreto di espropriazione.

In tema di criteri per la determinazione dell'indennità d'espropriazione, il tenore letterale dell'art. 5 bis della l. 359 del 1992 nella parte in cui prevede che ai fini della valutazione dell'edificabilità delle aree si deve fare riferimento "al momento dell'apposizione del vincolo preordinato all'esproprio" intende solo riaffermare il principio dell'irrilevanza del vincolo espropriativo ai fini dell'accertamento del valore del bene.
Esso, pertanto, non opera uno spostamento nel tempo del momento al quale bisogna aver riguardo per determinare il valore del bene; momento che resta fissato in quello dell'emissione del decreto d'espropriazione - non del decreto d'occupazione - siccome bisogna tenere conto delle caratteristiche dell'area espropriata allorquando il proprietario ne è privato, senza che possano avere influenza gli aumenti o le diminuzioni del valore del suolo dipendenti dall'espropriazione o dalla realizzazione dell'opera pubblica, vedi Corte cost. n. 283 e 442 del 1993
(Cass. civ., sez. I, 15.1.2000, n. 425, GCM, 2000, 69).



122. Le possibilità legali ed effettive di edificazione.

LEGISLAZIONE: l. 359/1992, art. 5 bis, 3° co. - d.p.r. 8.6.2001, n. 327, art. 37, 3° e 4° - d.lg. 302/2002, art. 1, 1° co., lett. ee), n. 1.

Il legislatore non ha risolto con l’art. 5 bis, 3° co., l. 359/1992, il problema del riconoscimento della qualità edificatoria alla edificabilità legale, ossia alla possibilità di edificare prevista dagli strumenti urbanistici, o alla edificabilità di fatto ossia alla possibilità di edificazione valutata in rapporto all’esistenza nella zona delle principali infrastrutture (Caringella e De Marzio 1997, 39).
Ove il piano regolatore o il programma di fabbricazione o altri strumenti equivalenti prevedano l'edificabilità della zona in cui è ubicato l'immobile, siffatta destinazione legale è sufficiente ad imprimere allo stesso detta qualità (Cass. civ., sez. I, 19.9.2000, n. 12408, GCM, 2000, 1956).
La qualifica è attribuita indipendentemente da ogni valutazione delle condizioni di fatto, che assumono rilevanza nella sede di determinazione dell’indennità di esproprio, quali, ad esempio, le particolari caratteristiche dell’area - ossia la posizione nella quale essa si colloca nel contesto urbano, le prescrizioni in materia di distanze da costruzioni od opere pubbliche - il rispetto stradale e l’esistenza di opere di urbanizzazione.
Sotto il profilo temporale non vi è dubbio che l’edificabilità debba essere rapportata alla disposizione di piano vigente al momento del procedimento di esproprio:

Premesso che il momento di riferimento per la determinazione dell'indennità di esproprio è quello della data del decreto di esproprio, agli effetti della classificazione del suolo come edificabile o non edificabile, e dell'individuazione della normativa applicabile, va tenendo conto della disciplina urbanistica all'epoca vigente.
Ne consegue l'irrilevanza della pregressa approvazione di un piano di lottizzazione, ove l'amministrazione abbia adottato in prosieguo differenti scelte urbanistiche, delle quali deve tenersi conto, se vigenti alla data del decreto di esproprio
(Cass. civ., sez. I, 2.9.1998, n. 8702, GCM, 1998, 1834).

Il criterio dell'edificabilità di fatto ricorre in difetto della disciplina legale, in assenza cioè di un vigente piano regolatore generale o in caso di decadenza del vincolo quinquennale.

In tema di espropriazione per pubblica utilità, ai fini della valutazione dell'edificabilità di un'area, le possibilità legali ed effettive di edificazione previste dall'art. 5 bis, l. 359 del 1992 non devono e non possono logicamente coesistere, avendo il suddetto articolo prospettato invece due distinte situazioni.
Una, principale, in cui l'edificabilità deriva dall'esistenza di una regolamentazione legale dell'assetto urbanistico, dalla cui osservanza discende la condizione di legalità, e l'altra, secondaria, relativa alle aree comprese in comuni sprovvisti di strumento urbanistico e situate fuori dal perimetro del centro edificato, dove l'edificabilità può essere valutata solo di fatto secondo gli indici elaborati dalla giurisprudenza e dalla tecnica estimatoria.
Pertanto, anche in seguito all'art. 5 bis, l. n. 359 del 1992, può essere valutata l'edificabilità di fatto di un'area, purché, pur in assenza di uno strumento urbanistico adottato o approvato, tale edificabilità risulti comunque compatibile con le generali scelte urbanistiche
(Cass. civ., sez. I, 17.9.1997, n. 9242, GCM, 1997, 1732).

Anche il il t.u. espr. ribadisce che l’area si intende edificabile se sussistono possibilità legali ed effettive di edificazione, valutandone le caratteristiche oggettive.

3. Ai soli fini dell'applicabilità delle disposizioni della presente sezione, si considerano le possibilità legali ed effettive di edificazione, esistenti al momento dell'emanazione del decreto di esproprio o dell'accordo di cessione. In ogni caso si esclude il rilievo di costruzioni realizzate abusivamente. (L)
4. Salva la disposizione dell'articolo 32, comma 1, non sussistono le possibilità legali di edificazione quando l'area è sottoposta ad un vincolo di inedificabilità assoluta in base alla normativa statale o regionale o alle previsioni di qualsiasi atto di programmazione o di pianificazione del territorio, ivi compresi il piano paesistico, il piano del parco, il piano di bacino, il piano regolatore generale, il programma di fabbricazione, il piano attuativo di iniziativa pubblica o privata anche per una parte limitata del territorio comunale per finalità di edilizia residenziale o di investimenti produttivi, ovvero in base ad un qualsiasi altro piano o provvedimento che abbia precluso il rilascio di atti, comunque denominati, abilitativi della realizzazione di edifici o manufatti di natura privata. (L)
(art. 37, d.p.r. 8.6.2001, n. 327).

Le caratteristiche dell’edificabilità di fatto sono valutate in base alle effettive possibilità di edificazione fino alla redazione del regolamento demandato al Ministero delle infrastrutture e trasporti, art. 37, 5° co., d.p.r. 8.6.2001, n. 327, mod. art. 1, 1° lett. ee), n. 1.
In carenza di regolamento valgono i criteri interpretativi fissati dalla giurisprudenza.

5. I criteri e i requisiti per valutare l'edificabilità di fatto dell'area sono definiti con regolamento da emanare con decreto del Ministro delle infrastrutture e trasporti. (L)
6. Fino alla data di entrata in vigore del regolamento di cui al comma 5, si verifica se sussistano le possibilità effettive di edificazione, valutando le caratteristiche oggettive dell'area. (L)
(art. 37, 5° e 6° co., d.p.r. 8.6.2001, n. 327, - d.lg. 302/2002, , art. 1, 1° co., lett. ee), n. 1).
Le possibilità legali di edificazione non sussistono qualora l’area sia sottoposta a inedificabilità assoluta in base alla normativa o ad un atto di pianificazione territoriale, art. 37, 4° co., d.p.r. 8.6.2001, n. 327.
L’area può appartenere solo a queste due categorie: o è edificabile o non lo è.
Ne consegue che non può essere classificata come edificabile un'area che gli strumenti urbanistici non preordinati alla espropriazione assoggettino a vincolo di inedificabilità, o alla quale gli stessi attribuiscano destinazione agricola, dovendo, in tal caso, la relativa indennità di espropriazione essere determinata secondo il criterio agricolo.
L’edificabilità deve essere esclusa in presenza di vincoli d'inedificabilità ovvero di destinazione agricola contemplati dagli strumenti urbanistici.
L'art. 5 bis, 3° co., della l. n. 359 del 1992, introduce il precetto che non può essere classificata come edificabile un'area che gli strumenti urbanistici non preordinati all'espropriazione - come un piano regolatore generale - assoggettino a vincolo di inedificabilità, ad esempio a verde pubblico o a zona agricola, precludendone in tal modo le possibilità legali di edificazione.

Il carattere edificatorio del fondo espropriato non è desumibile dalla mera edificabilità di fatto, occorrendo che questa si armonizzi con la edificabilità di diritto, e deve essere escluso in presenza di vincoli di inedificabilità, ovvero di destinazione agricola, contemplati dagli strumenti urbanistici.
La Suprema corte ha così cassato la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto l'area edificabile, nonostante essa fosse destinata dagli strumenti urbanistici a zona agricola o di servizio, senza tenere quindi conto del contestuale criterio dell'edificabilità di diritto
(Cass. civ., sez. I, 11.12.1996, n. 11037, FI, 1997, 814. Cass. civ., sez. I, 10.4.1998, n. 3717, GCM, 1998, 784. Cass. civ., sez. I, 16.5.1998, n. 4921, GCM, 1998, 1052).

123. L’indennità prevista per le aree non edificabili.

LEGISLAZIONE: d.p.r. 8.6.2001, n. 327, art. 40, 41, 4° co. - d.lg. 302/2002, art. 1, 1° co., lett. ee), n. 1.

Sono considerate come aree non edificabili, oltre alle aree agricole, quelle colpite da vincolo di inedificabilità assoluta - quelle, ad esempio, destinate a verde nel piano regolatore generale anche qualora ad esse sia attribuito un modesto indice di fabbricazione per la realizzazione di strutture di servizio al verde. Tale qualifica riveste secondo la giurisprudenza, un’area che sia espropriata per la realizzazione di un parco comunale, con progetto approvato, costituente vincolo preordinato all'esproprio (Cass. civ., sez. I, 16.11.2000, n. 14851, GCM, 2000, 2343).
I terreni non legalmente edificabili, anche se suscettibili di una utilizzazione differente da quella agricola, devono essere valutati secondo parametri omogenei a quelli adottati per i terreni agricoli, non potendosi più sostenere, a seguito dell'intervento della Corte costituzionale con la sentenza n. 261 del 1997, la esistenza di un tertium genus, oltre quelli delle aree edificabili e delle aree agricole.

Sono considerate come aree non edificabili quelle colpite da vincolo di inedificabilità assoluta, oltre che le aree agricole, quelle, ad esempio, destinate a verde nel piano regolatore generale anche qualora ad esse sia attribuito un modesto indice di fabbricazione per la realizzazione di strutture di servizio al verde, che sia espropriata per la realizzazione di un parco comunale, con progetto approvato, costituente vincolo preordinato all'esproprio (Cass. civ., sez. I, 16.11.2000, n. 14851, GCM, 2000, 2343).

Non assume, di per sé, alcun rilievo la circostanza che i terreni non legalmente edificabili, originariamente compresi, in base agli strumenti urbanistici, nella Zona E agricola, abbiano successivamente ottenuto, in sede di variante al p.r.g., l'attribuzione della destinazione urbanistica Fb attrezzature di interesse comprensoriale, nel caso che tali attrezzature non siano idonee a far sorgere possibilità legali di edificazione, in assenza, tra l'altro, di un piano comunale particolareggiato
(Cass. civ., sez. I, 15.2.2000, n. 1684, GCM, 2000, 342).

Qualora l'area espropriata non sia integralmente compresa nella zona omogenea di espansione urbana, rientrando parzialmente nella contigua zona a destinazione agricola, non può riconoscersi, valorizzando la situazione di fatto, anche per quest'ultima porzione il carattere decisamente edificatorio.
La giurisprudenza afferma che la zonizzazione degli strumenti urbanistici conforma il diritto di proprietà delle aree comprese nelle differenziate zone omogenee, anche in funzione della capacità edificatoria dei suoli.

Ai fini della determinazione dell'indennità di espropriazione, non può essere riconosciuta l'edificabilità di un'area (valutata in rapporto a speciali condizioni di fatto) in contrasto con la disciplina urbanistica che neghi una tale utilizzazione del suolo, soccorrendo il criterio dell'edificabilità di fatto soltanto in difetto della disciplina legale, in assenza cioè di un vigente piano regolatore generale
(Cass. civ., sez. I, 9.6.2000, n. 7874, GC, 2000, 1258).

L’art. 40, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, distingue, nell’ambito delle aree non edificabili, quelle coltivate dalle altre.

1. Nel caso di esproprio di un'area non edificabile, l'indennità definitiva é determinata in base al criterio del valore agricolo, tenendo conto delle colture effettivamente praticate sul fondo e del valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati, anche in relazione all'esercizio dell'azienda agricola, senza valutare la possibile o l'effettiva utilizzazione diversa da quella agricola. (L)
2. Se l'area non è effettivamente coltivata, l'indennità è commisurata al valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura prevalente nella zona ed al valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati. (L)
3. Il criterio di cui al comma 2 si applica anche per la determinazione dell'indennità provvisoria. (L)
5. Nei casi previsti dai commi precedenti, l'indennità è aumentata delle somme pagate dall'espropriato per qualsiasi imposta relativa all'ultimo trasferimento dell'immobile. (L)
(art. 40, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, art. 1, 1° co., lett. gg), n. 1. d.lg. 302/2002).

Quelle non coltivate sono indennizzate con una somma pari al valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura effettivamente praticato.
Nel caso di aree coltivate l’indennità è stabilita sulla base del valore agricolo con riferimento delle colture effettivamente praticate.
In tal caso si deve tenere conto del valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati per l’esercizio dell’azienda agricola.
Riprendendo il disposto dell’art. 15, l. 865/1971 la nuova disposizione determina il valore agricolo con riferimento al valore della azienda oggetto del provvedimento di esproprio, correttivo da sempre evidenziato dalla giurisprudenza soprattutto in rapporto alle ipotesi di esproprio parziale.

La dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui alla dell'art. 16, l. 865 del 1971, mod. art. 14, l. 10 del 1977 - Corte cost. n. 5 del 1980 - nella parte in cui imponeva il criterio del valore agricolo medio dei terreni a prescindere dalla loro destinazione economica, non comporta che, in caso di espropriazione di terreni ad effettiva destinazione agricola, la relativa indennità debba quantificarsi automaticamente in misura pari al prezzo di mercato del fondo ed al suo valore venale, dovendo essa invece essere commisurata, ai sensi del combinato disposto degli artt. 15 e 16 della citata l. 865 del 1971 (cui si riferisce, ancora, l'art. 5 bis, 4° co., l. 359 del 1992), al valore agricolo del fondo medesimo, quale si determina sia in base alla media dei valori, nell'anno solare precedente il provvedimento ablativo, dei terreni ubicati nell'ambito della medesima regione agraria nei quali siano praticate le stesse colture in opera nel fondo espropriato, sia in relazione all'incidenza dell'espropriazione nei riguardi dell'azienda agricola della quale il fondo è elemento
(Cass. civ., sez. I, 14.3.2001, n. 3662, GCM, 2001, 473).

Anche dopo la sentenza della corte costituzionale n. 5 del 30.1.1980, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 15, 5°, 6° e 7° co., l. 22.10.1971, n. 865, la disciplina legislativa in ordine ai criteri per la determinazione dell'indennità definitiva per l'espropriazione dei terreni a destinazione agricola rimane fissata non solo nell'art. 15 della menzionata l. n. 865 del 1971, ma anche nel successivo art. 16, come modificato dall'art. 14 della l. 28.1.1977, n. 10, in quanto le disposizioni contenute nelle due norme risultano complementari ed inscindibili e concorrono a fissare la disciplina per le dette espropriazioni.
Dalle fonti normative così individuate discende che l'indennità per le espropriazioni delle quali si tratta non è automaticamente pari al prezzo di mercato del fondo agricolo ed al suo valore venale, ma è invece commisurata al valore agricolo del fondo, ossia al valore determinato sulla base dei parametri costituiti sia dal valore medio (cioè ottenuto sulla media dei valori concretamente individuati), nell'anno solare precedente al provvedimento ablativo, dei terreni ubicati nell'ambito della medesima regione agraria, nei quali erano praticate le stesse colture in opera nel fondo espropriato, sia dall'incidenza dell'espropriazione nei riguardi dell'azienda agricola della quale il fondo è elemento, ivi compresa la diminuzione di valore dell'area residuata dopo l'espropriazione, che costituisce un pregiudizio dell'azienda
(Cass. civ., sez. I, 21.7.1992 n. 8797).

Il nuovo disposto dell’art. 40, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, non richiama, al primo comma, il concetto di valore agricolo medio esplicitato, invece, per le aree non coltivate e nell’art. 41, 4° co., d.p.r. 8.6.2001, n. 327, per quanto riguarda le determinazione della commissione provinciale.
La dottrina non ritiene possibile l’interpretazione letterale della norma perché essa introduce il valore venale dei terreni e sottolinea la necessità di ricorrere, come correttivo al valore agricolo medio, alla valutazione dell'importanza economica dell’esercizio dell’azienda.

Due sono le strade ermeneutiche praticabili:
a) pensare che nel caso di aree coltivate si debba procedere da parte dell’organo deputato alla stima dell’indennità ad una valutazione specifica del valore agricolo della coltura concretamente praticata, oltre che dell’azienda nel suo complesso, così finendosi per applicare alle aree effettivamente agricole il parametro del valore venale nel senso stretto;
b) ovvero reputare, in conformità alla giurisprudenza consolidata che, ferma restando la valutazione in concreto dell’azienda agricola, il valore agricolo, anche in caso di area effettivamente coltivata, debba essere quello medio accertato dalla commissione di cui al vecchio art. 16, l. 865/1971, sost. art. 41, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, sulla base delle rilevazioni dell’anno solare precedente in rapporto alla colture effettivamente praticate – parametro ora evocato dall’art. 40, 4° co., per l’indennità aggiuntiva al coltivatore diretto.
Detta ultima soluzione appare più convincente, sia perché più rispettosa dei limiti del t.u. sia perché consente di meglio armonizzare l’indennità spettante all’espropriato e quella aggiuntiva di pertinenza del coltivatore diretto.
Si deve soggiungere che l’esigenza di adeguare la stima all’effettivo pregiudizio patito dal soggetto passivo pare adeguatamente soddisfatta mercé la ricordata verifica dello spessore economico dell’azienda agricola
(Caringella, De Marzo, De Nictolis e Maruotti 2002, 520).
Si deve tenere conto, inoltre, del valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati per l’esercizio dell’azienda agricola.
La giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del t.u. espr. ha confermato che il sistema di determinazione dell’indennizzo è chiuso fra due posizioni estreme: o l’area è agricola o è edificabile.

Nel sistema di disciplina della stima dell'indennizzo espropriativo introdotto dall'art. 5 bis della l. 359 del 1992, caratterizzato dalla rigida dicotomia, che non lascia spazi per un tertium genus, tra aree edificabili (indennizzabili in percentuale del loro valore venale) ed aree agricole o non classificabili come edificabili (tuttora indennizzabili in base a valori agricoli tabellari, ex legge n. 865 del 1971.
Un'area va ritenuta edificabile quando, e per il solo fatto che, come tale, essa risulti classificata al momento dell'apposizione del vincolo espropriativo dagli strumenti urbanistici, secondo un criterio di prevalenza o autosufficienza della edificabilità legale.
La cosiddetto edificabilità di fatto rileva esclusivamente in via suppletiva - in carenza di strumenti urbanistici - ovvero, in via complementare ed integrativa, agli effetti della determinazione del concreto valore di mercato dell'area espropriata, incidente sul calcolo dell'indennizzo
(Cass. Civ., Sez. U., 23.4.2001, n. 172, RGE, 2001, I, 853).

124. Il calcolo dell’indennità per area edificata.

LEGISLAZIONE: l. 865/1971, art. 16, 9° co. - d.p.r. 8.6.2001, n. 327, art. 38.
L’art. 16, 9° co., l. 865/1971, distingueva fra valore dell’area, computata secondo il valore agricolo, ed il valore dell’edificio calcolato al valore venale.
La giurisprudenza fornisce una interpretazione differente, valutando complessivamente il valore del manufatto con quello del terreno, poiché riscontra la difficoltà di tenere distinta la valutazione del suolo nell’ambito di una costruzione già edificata.

I manufatti insistenti sul fondo occupato non possono essere assimilati alle "aree edificabili" menzionate nell'art. 5 bis, l. 8.8.1992, n. 359, ai fini dell'applicazione dei criteri estimativi posti dalla norma in questione; sicché l'indennità ad essi relativa va determinata, a norma dell'art. 16, l. 22.10.1971, n. 865, in misura corrispondente al loro effettivo valore.
Nella specie si tratta di un fabbricato rurale e dei relativi muri di recinzione
(Cass. civ. sez. I, 4.11.1998, n. 11058, AUE, 2000, 168).
Il criterio di determinazione dell'indennità di esproprio, di cui all'art. 5 bis, l. 8.8.1992, n. 359, non è applicabile all'area di sedime di un fabbricato (abbattuto per la costruzione dell'opera pubblica) ed al cortile interno, che a questo da' luce ed aria e non costituisce pertinenza, ma va commisurato al valore venale complessivo dell'edificio, a norma dell'art. 39, l. 25.6.1865, n. 2359
(Cass. civ., sez. I, 10.7.1998, n. 6718, FI, 1999, I, 1230).

L’art. 38, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, nel caso di espropriazione di una area edificata determina l’indennità in misura pari al valore venale dell’immobile.

1. Nel caso di espropriazione di una costruzione legittimamente edificata, l'indennità è determinata nella misura pari al valore venale. (L)
(art. 38, d.p.r. 8.6.2001, n. 327).

Tale criterio vale qualora la costruzione sia stata realizzata con regolare concessione, ora permesso di costruire (Saturno e Stanzione 2002, 371).
In caso contrario l’indennità è determinata solo con riferimento al valore dell’area secondo il principio prima vigente.
La giurisprudenza ha definito i criteri di indennizzo nel caso di edificio di interesse storico artistico ritenendo che esso debba essere calcolato con riferimento al valore di mercato di beni che abbiano simili caratteristiche e che si trovino nelle stesse situazioni di manutenzione.

Nel caso in cui l'espropriazione cada su un edificio di valore storico e artistico, la determinazione del valore venale dell'immobile espropriato, ai sensi dell'art. 39, l. 25.6.1865, n. 2359, non può essere operata con riferimento al criterio del valore meramente ipotetico che l'immobile acquisterebbe all'esito di una sua ristrutturazione e destinazione ad usi produttivi, detratte le spese a ciò necessarie, ma occorre far riferimento al valore di mercato del bene nelle condizioni in cui esso si trova al momento dell'espropriazione avendo riguardo alla valutazione attribuita a beni con caratteristiche simili, e - cioè - ad edifici antichi in stato di notevole degrado ed insuscettibili di qualsiasi destinazione senza l'esecuzione di rilevanti lavori di ripristino
(Cass. civ., sez. I, 30.3.1998, n. 3320, GC, 1998, I, 2849). 

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