mercoledì 10 ottobre 2012

Vincoli piano. 7 Ex lege.


PARTE SECONDA I VINCOLI EX LEGE

CAPITOLO VII
I VINCOLI ALLA PROPRIETÀ PRIVATA DISPOSTI DALLA LEGGE

SOMMARIO: 87. I vincoli di rispetto dei beni di interesse paesaggistico nel t.u. dei beni culturali e ambientali.
88. I vincoli regionali e ministeriali.
89. Il procedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico.
90. L’autorizzazione regionale.
91. Il potere ministeriale.
92. I vincoli di rispetto del patrimonio artistico. I beni soggetti.
93. Il procedimento di vincolo. L’accesso.
94. La dichiarazione dell’interesse storico ed artistico. I poteri del Ministero.
95. L’autorizzazione per interventi edilizi su immobili di interesse storico ed artistico.
96. Il vincolo indiretto.
97. I vincoli di destinazione.
98. I vincoli cimiteriali.
99. I vincoli di rispetto per le aree distrutte dall’incendio.
100. I vincoli aeronautici.
101. Il rilascio del permesso di costruire.
102. I vincoli stradali. La definizione del centro abitato.
103. Le distanze dalle strade.
104. Le distanze per gli edifici preesistenti.
105. I vincoli autostradali.
106. I vincoli ferroviari.
107. I limiti nell’applicazione del vincolo.
108. I vincoli di rispetto delle acque pubbliche.
109. I limiti all’applicazione della normativa.
110. I vincoli di rispetto delle acque per consumo umano.
111. I vincoli di rispetto delle distanze dalle farmacie.
112. I vincoli di rispetto degli elettrodotti.
113. La disciplina regionale integrativa alla luce delle decisioni della Corte costituzionale.
114. L'installazione di impianti pericolosi.
115. I vincoli di rispetto degli impianti di carburanti liquidi.
116. Le distanze di sicurezza nel d.lg. 334/1999.
117. La differenza fra i vincoli imposti ex lege ed i vincoli di piano. La mancanza dell’indennizzabilità.


87. I vincoli di rispetto dei beni di interesse paesaggistico nel t.u. dei beni culturali e ambientali.

LEGISLAZIONE: l. 29.6.1939, n. 1497, art. 1 - l. 8.8.1985, n. 431, art. 1 - d.lg. 29.10.1999, n. 490, artt. 139, 146 - d.lg. 22.1.2004, n. 41, artt. 134, 142.

I beni di interesse paesaggistico trovano una prima forma di tutela con la l. 29.6.1939, n. 1497.
Essa ha un contenuto prettamente conservativo dell’esistente patrimonio delle cosiddette bellezze naturali per evitare che l’urbanizzazione del territorio cancelli definitivamente ambiti del territorio di particolare rilevanza.
E’ necessario, però, un atto di accertamento della natura paesaggistica o ambientale del bene.
In carenza di un atto dell’amministrazione che acclari volta per volta la qualità del bene, esso si trova privo di ogni tipo di tutela che consenta all’autorità preposta al vincolo un preventivo esame degli interventi edilizi che la proprietà voglia realizzare.
La tutela del paesaggio è stata assunta a principio fondamentale dall’art. 9 della cost.; esso non può essere condizionato a nessun altro valore. La dottrina rileva che la mancanza di specificazione rafforza l’idea stesa della tutela.

La Repubblica tutela tutto il paesaggio: si tratta un concetto di tutela caratterizzata dal duplice aspetto della integrità e della globalità
(Tamiozzo 2000, 112).

L’art. 134, d.lg. 22.1.2004, n. 41, che mod. l’art. 139, d.lg. 490/1999, che abroga l'art. 1, l. 1497/1939, prevede la possibilità di imporre vincoli speciali su singoli beni paesaggistici.
La legge Galasso, sost. d.lg. 22.1.2004, n. 41, ha introdotto un concetto più vasto di ambiente che caratterizza non il bene in sé, ma individua un contesto più ampio del territorio in cui il bene si colloca.
Essa sottopone ad una maggiore tutela i beni aventi rilevante interesse ambientale aumentando il limite di rispetto in attesa dei piani paesaggistici.
E’ definita una serie di beni che si ritengono oggettivamente, per la loro stessa esistenza, meritevoli di tutela e sono fissati dei limiti spaziali entro i quali è vietato ogni intervento prima che sia data una regolamentazione mediante i piani territoriali paesistici, ex art. 142, d.lg. 22.1.2004, n. 41.
Dalla elencazione proposta si evidenzia che si possono distinguere due differenti categorie di beni.
La prima comprende i beni il cui riconoscimento è automatico. Non vi sono difficoltà a classificare nella categoria, ad esempio, i fiumi, le cui caratteristiche sono evidenti.
La seconda categoria comprende beni il cui riconoscimento presuppone un atto ricognitivo della pubblica amministrazione.
In tal caso, come, ad esempio, nell’ipotesi di beni di interesse archeologico, il vincolo può essere posto solo ove sussista un idoneo atto di ricognizione da parte degli organi competenti, che attesti il presupposto stesso per l’apposizione del vincolo:

Sebbene il vincolo gravante sulle zone di interesse archeologico ai sensi dell'art. 1 lett. m) l. 8.8.1985, n. 431 abbia natura paesaggistica, e come tale sia affidato in via diretta all'Autorità regionale, - e soltanto in sede di controllo e vigilanza allo Stato - non è consentito che l'attività ricognitiva dell'interesse archeologico di una zona determinata, ai fini dell'inclusione della medesima fra quelle sottoposte a vincolo ex lege, prescinda dalla effettiva presenza di valori archeologici, il cui particolare rapporto col paesaggio costituisce la ratio della tutela prevista dalla l. 431/1985.
La sussistenza di emergenze archeologiche sul territorio o, quantomeno, la accertata e notoria possibilità che in esso si trovino reperti archeologici costituisce il presupposto necessario e sufficiente perché una zona sia dichiarata di interesse archeologico e, come tale, assoggettata al vincolo paesaggistico di cui all'art. 1 lett. m) della l. 431/1985.
Qualora siano assenti gli elementi minimi necessari da cui dedurre la presenza di valori archeologici - sia sul piano dell'effettivo rinvenimento di reperti, sia su quello della accertata e notoria possibilità che essi si trovino su un'area determinata - non sussistono le condizioni per l'inserimento dell'area fra le dette zone di interesse archeologico
(T.A.R. Toscana, sez. III, 6.3.1996, n. 185, TAR, 1996, I, 1981).



88. I vincoli regionali e ministeriali.

LEGISLAZIONE: d.p.r. 616/1977, art. 82, 5° co. - l. 431/1985, art. 1 ter, 1 quinquies.

Un vincolo particolare riguarda alle aree individuate dalle regioni e assoggettate a tutela paesaggistica.

Le regioni, entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, possono individuare con indicazioni planimetriche e catastali, nell'ambito delle zone elencate dal quinto comma dell'art. 82 del d.p.r. 24.7.1977, n. 616, come integrato dal precedente art. 1, nonché nelle altre comprese negli elenchi redatti ai sensi della l. 29.6.1939, n. 1497, e del r. d. 3.6.1940, n. 1357, le aree in cui è vietata, fino all'adozione da parte delle regioni dei piani di cui al precedente art. 1 bis, ogni modificazione dell'assetto del territorio nonché qualsiasi opera edilizia, con esclusione degli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici. La notificazione dei provvedimenti predetti avviene secondo le procedure previste dalla l. 29.6. 1939, n. 1497, e dal relativo regolamento di esecuzione approvato con r. d. 3.6.1940, n. 1357
(art. 1 ter, l. 431/1985).

Un altro vincolo ha come oggetto le aree e i beni individuati nei decreti ministeriali, cosiddetti Galassini, che hanno posto vincoli di inedificabilità prima della legge e i cui effetti sono confermati, appunto, dalla l. 431/1985.

Le aree ed i beni individuati ai sensi dell'art. 2 del d. m. 21.9.1984, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 265 del 26.9.1984, sono inclusi tra quelli in cui è vietata, fino all'adozione da parte delle regioni dei piani di cui all'art. 1 bis, ogni modificazione dell'assetto del territorio nonché ogni opera edilizia, con esclusione degli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici
(art. 1 quinquies, l. 431/1985).

Tali disposizioni, fino all'adozione dei piani paesistici regionali, impongono vincoli di inedificabilità assoluta.

Nell'ambito delle aree individuate dalle regioni, ai sensi dell’art. 1 ter della l. 8.8.1985, n. 431 e dell’art. 82, 5° co., d.p.r. 24.7.1977, n. 616 ai fini dell'applicazione delle misure di salvaguardia vanno compresi anche gli immobili in esse ricadenti, che sono, pertanto, assoggettati ad una temporanea inedificabilità fino all'approvazione dello strumento programmatorio, piano paesistico e/o piano urbanistico territoriale
(Cons. St., sez. VI, 20.9.1995, n. 941, RGA, 1996, 483).

L’imposizione del vincolo ex lege o per effetto del provvedimento amministrativo comporta il divieto di realizzare qualsiasi opera in carenza di autorizzazione.

Il vincolo è operante a prescindere dall'adozione dei piani paesistici regionali ed è quindi sempre necessaria l'autorizzazione paesistica per opere che possano stabilmente alterare l'ambiente
(Cass. pen., sez. III, 1.3.1991, DGA, 1992, 610).

Il divieto assoluto di edificabilità, conseguente ai vincoli imposti dalla l. 431/1985, persiste fino all’approvazione formale del piano paesistico regionale.

Ai sensi dell'art. 1 quinquies della l. 431/1985 l'operatività di tale salvaguardia cautelare non tollera deroghe sino a quando non siano adottati dalle Regioni i piani paesistici previsti dal precedente art. 1 bis; peraltro, per ritenere adottati i suddetti piani non è sufficiente la loro materiale predisposizione, occorrendo invece che, concluso il loro processo formativo, essi siano stati approvati e siano quindi operativi.
Ne consegue che non avendo il Consiglio regionale della Campania provveduto ad approvare il piano paesistico, persiste in tale Regione il divieto assoluto di edificabilità stabilito dal ricordato art. 1 quinquies, l. 431/1985
(Cass. pen., Sez. U., 25.3.1993, RGE, 1993, I, 973).



89. Il procedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico.

LEGISLAZIONE: l. 1497/1939, art. 7 - d.lg. 490/1999, artt. 139, 140, 141, 149, 151 - d.lg. 22.1.2004, n. 41, artt. 137, 138, 146.

L’iter procedurale per deliberare la dichiarazione di notevole interesse pubblico delle aree ed immobili oggetto del cod. beni cult. è previsto dall’art. 137 ss., d.lg. 22.1.2004, n. 41, che abroga l’art. 140, d.lg. 490/1999 (Mengoli 2003, 463).
Il procedimento è radicalmente modificato dagli artt. 137 ss., d.lg. 22.1.2004, n. 41, dalla data della sua entrata in vigore 1.5.2004.
La norma ha attribuito al direttore della regione o degli altri enti pubblici interessati l’iniziativa di acquisire le informazioni necessarie a proporre alla Commissione, istituita in ogni provincia, l’identificazione dei beni e dei luoghi di notevole interesse ambientale, ex art. 138, d.lg. 22.1.2004, n. 41.
La proposta deve essere motivata con riferimento alle caratteristiche storiche culturali, naturali, morfologiche ed estetiche proprie degli immobili e delle aree oggetto del provvedimento.

Il vincolo paesaggistico di cui all'art. 9 l. r. Piemonte 5.12.1977 n. 56, che consente (tenuto conto dell'introduzione da parte della l. 8.8.1985, n. 431 della nozione di tutela non di singoli beni, quale si ricavava dalle disposizioni risalenti al 1939, ma di intere aree di interesse pubblico) di includere ampie porzioni di territorio nel novero delle zone da salvaguardare in base a considerazioni prevalentemente ambientali, anche se ha tratto occasionalmente spunto da istanze dirette alla tutela dei luoghi della battaglia della Bicocca del 1849, è legittimamente imposto dalla regione allorché dalla motivazione contenuta nella deliberazione si evinca che il fine concretamente perseguito sia quello di estendere la protezione dei luoghi oggetto di memoria storica alla più estesa zona circostante, presa in considerazione perché dotata di pregi paesaggistici non comuni
(T.A.R. Piemonte, sez. I, 21.12.2002, n. 2102).

La giurisprudenza ha dichiarato unanimemente illegittimo il provvedimento
Privo o con motivazione insufficiente.

È illegittima l'imposizione di un vincolo diretto da parte del Ministero per i beni culturali e ambientali che, senza fornire adeguata motivazione, abbia disatteso il parere della locale sovrintendenza che aveva concluso per l'assenza di pregio dell'immobile e proposto l'imposizione soltanto di un vincolo indiretto
(Cons. St., sez. VI, 5.10.2001, n. 5235, RGE, 2001, I, 1213).

La proposta deve essere pubblicata per novanta giorni all’albo pretorio dei comuni interessati e deposita presso i loro uffici, inoltre deve essere diffusa la notizia sulla stampa.
A tal punto la regione comunica l’avvio del procedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico al proprietario interessato e al comune interessato.
I soggetti interessati possono presentare osservazioni entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione.
La giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del cod. beni cult. ha ritenuto che l’interesse al proceidemtno è limitato ai proprietari o detentori del bene.

Il ricorso può essere proposto solo dai proprietari, possessori o detentori di beni immobili situati nelle zone vincolate ai sensi della legge citata; pertanto è inammissibile il ricorso de quo prodotto da un Comune o da una Associazione di industriali non proprietari di beni vincolati
(Cons. St., sez. II, 17.5.1978, n. 925, RGE, 1981, I, 146).

Il provvedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico è altresì notificato in via amministrativa ai proprietari degli immobili; il che comporta la necessità di munirsi di apposita autorizzazione rilasciata da parte della sovrintendenza inerente ai progetti dei lavori (Filippi 1996, 195).
La mancata notifica degli elenchi ai proprietari non è stata considerata dalla giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del cod. beni cult. causa di illegittimità del procedimento.

E' infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della l. 29.6.1939, n. 1497, nella parte in cui non dispongono la notificazione degli elenchi di cui ai nn. 3 e 4 dell'art. 1 della stessa legge, ai proprietari, possessori o detentori, a qualsiasi titolo, degli immobili così come previsto per gli elenchi delle cose di cui ai nn. 1 e 2 del medesimo art. 1, con riferimento agli artt. 3, 24, c. 2, e 97, c. 1, della costituzione
(Corte cost., 28.7.1995, n. 417, FI, 1996, I, 422).

Le competenze già degli organi statali centrali e periferici inerenti alla tutela dei beni ambientali ed alle funzioni delle Commissioni provinciali sono state delegate alle Regioni, ai sensi dell’art. 146, d.lg. 22.1.2004, n. 41, che mod. art. 140, d.lg. 490/1999.
Le Regioni hanno emanato proprie leggi per disciplinare l’esercizio delle funzioni loro delegate.
Alcuni compiti amministrativi sono stati riservati agli organi regionali, altri sono stati subdelegati ai Comuni.
Ad esempio, nella regione Emilia Romagna la competenza al rilascio dell'autorizzazione ambientale è stata subdelegata ai comuni dall'art. 10 della l. r. 1.8.1978, n. 26.
Del pari la l. r. Lombardia 18/1997 ha delegato ai comuni il rilascio dell'autorizzazione e, in base al principio di sussidiarietà, che impone all’ente di grado superiore di non espletare l’attività amministrativa attribuita all’ente sotto ordinato, ha riservato alla regione le funzioni in materia di autorizzazione ambientale per le opere di competenza dello Stato, per gli interventi di smaltimento rifiuti e per quelli riguardanti l’attività mineraria.
La composizione delle Commissioni per i beni ambientali è stata rinnovata e la loro competenza territoriale in alcune Regioni è rimasta a carattere provinciale, mentre in altre essa è stata adeguata alla circoscrizione di una pluralità di comuni o delle Comunità montane.



90. L’autorizzazione regionale.

LEGISLAZIONE: d.lg. 29.10.1999, n. 490, art. 146 - d.lg. 22.1.2004, n. 41, art. 146.

Il cod. beni cult. sottopone gli interventi di modifica o di alterazione dei beni ambientali, oggetto di tutela, ad autorizzazione ambientale di competenza della regione o all’autorità da essa delegata, ex art. 146 d.lg. 22.1.2004, n. 41.
Vi è, pertanto, un secondo controllo che si affianca alla disciplina urbanistica comunale.
L’intervento sul bene, quindi, deve essere prima autorizzato dalla regione e poi, successivamente, deve ottenere il rilascio del permesso di costruire da parte del comune.
Non cambiano le caratteristiche dell’intervento autorizzatorio già rilevate dalla dottrina precedente all’entrata in vigore del cod. beni cult.

L’autorizzazione si sostanzia in un apprezzamento tecnico discrezionale che muove da una comparazione tra lo stato attuale dell’immobile e quello che potrà assumere in seguito alle opere progettate, in funzione di verifica della non menomazione di quegli aspetti esteriori ai quali è collegata la protezione ambientale
(Alibrandi e Ferri 1995, 599).

Il sistema di dichiarazione di interesse pubblico viene meno qualora la pianificazione urbanistica comunale abbia già regolamentato gli interventi su detti beni.
Resta ugualmente l’obbligo di richiedere l’autorizzazione prima dell’esecuzione di lavori.
Non sono sottoposte a vincolo le aree che al 6.9.1985 erano delimitate negli strumenti urbanistici come zone A e B e - limitatamente alle parti comprese nei piani pluriennali di attuazione - le altre zone, come delimitate negli strumenti urbanistici, ai sensi del d.m. 2.4.1968, n. 1444; inoltre, nei comuni sprovvisti di tali strumenti, i centri edificati perimetrati, ai sensi dell'art. 18 della l. 865/1971.

L'art. 146, d.lg. 490 del 1999, non ha mutato tale principio di vicolo contenuto nella legge Galasso, poiché l'aggiunta, rispetto alla precedente formulazione, dell'indicazione temporale specifica del 6.9.1985 ha l'unico scopo di definire esplicitamente il termine di inizio della deroga, dato il tempo trascorso dall'entrata in vigore dell'originaria disposizione.
La norma nulla ha mutato in ordine alla cessazione degli effetti ivi previsti; ove dovesse ritenersi diversamente, la norma sarebbe costituzionalmente illegittima, in relazione agli artt. 76 e 77, 1° co. cost., per straripamento dai limiti della delega legislativa, che autorizzava il Governo a redigere un testo unico cosiddetto ricognitivo o di mera compilazione, senza alcuna possibilità di apportare modificazioni sostanziali alla disciplina previgente
(Cass. pen., sez. III, 26.3.2001, UA, 2001, 689).

La pianificazione urbanistica comunale può consentire delle deroghe alla disciplina delle distanze; essa deve tenere presenti le esigenze ambientali che devono essere, comunque, tutelate.

Il piano regolatore comunale può consentire l'edificazione anche a distanza inferiore ai dieci metri dall'argine di un fiume – distanza prevista nella norma fissata in via sostitutiva generale - ma la disciplina urbanistica, per essere idonea a disporre in tal senso derogativo, deve essere improntata espressamente alla necessità di difesa del fiume e non essere ispirata a fini urbanistici o criteri costruttivi
(T.A.R. Emilia Romagna, sez. Parma, 29.5.1989, n. 197, FA, 1989, 3118).

La necessità del rispetto delle distanze deve essere salvaguardata nella realizzazione di qualsiasi opera, anche di interesse pubblico, come, ad esempio, di una discarica di rifiuti.

Ai sensi del punto 4.2.2, lett. a) della delibera del comitato interministeriale 27.7.1984 istituito ai sensi dell'art. 5, d.p.r. 10.9.1982, n. 15, per l'assolvimento delle funzioni di competenza statale in materia di rifiuti previste dall'art. 4, d.p.r. cit., una discarica controllata per lo smaltimento di rifiuti deve essere ubicata a distanza di sicurezza, in relazione alle caratteristiche geologiche e idrogeologiche del sito, sia dai punti di approvvigionamento di acque destinate ad uso potabile sia di alveo di laghi, fiumi e torrenti, essendo in ogni modo vietata, ai sensi dell'art. 1, l. 8.8.1985 n. 431, la localizzazione dell'impianto nella fascia dei 150 metri dall'alveo di un corso d'acqua iscritto nell'elenco delle acque pubbliche
(T.A.R. Molise, 16.7.1998, n. 254, RGSan, 1999, f. 184-8, 137).

La giurisprudenza ha ripetuto che l’opera pubblica di un comune, pur non essendo soggetta al permesso di costruire, deve essere soggetta ad autorizzazione ambientale e rispettare la disciplina delle distanze.

Le opere pubbliche comunali non sono soggette a concessione edilizia, ma il costruttore pubblico non è esonerato dal regime dell'autorizzazione derivante dalla edificazione in zona sottoposta a vincolo ambientale.
Né, sotto questo profilo, un regime derogatorio, per le opere realizzate in Sicilia, è desumibile dall'art. 19, l. reg. siciliana.
Nell'affermare il principio la Corte ha ritenuto soggetta ad autorizzazione la costruzione di un manufatto in cemento armato destinato ad alloggiare la strumentazione di un impianto di potabilizzazione delle acque, costruito a m. 45 di distanza dall'alveo di un torrente iscritto nell'elenco delle acque pubbliche
(Cass. pen., sez. III, 6.11.1997, n. 27988, GP, 1999, II, 117).


91. Il potere ministeriale.

LEGISLAZIONE: d.lg. 490/1999, artt. 149, 153 - d.lg. 22.1.2004, n. 41, art. 150.


Il Ministero per i beni e le attività culturali ha, parallelamente alla regione, un potere supplettivo di tutela delle bellezze naturali che si manifesta anche prima dell’imposizione del vincolo, purché successivamente si addivenga all’approvazione dell’elenco nei termini perentori fissati dalla legge.

1. Indipendentemente dall’avvenuta pubblicazione all’albo pretorio prevista dagli articoli 139 e 141 ovvero dall’avvenuta comunicazione prescritta dall'articolo 139, 4° co., la Regione o il Ministero ha facoltà di:
a) inibire che si eseguano lavori senza autorizzazione o comunque capaci di pregiudicare il bene;
b) ordinare, anche quando non sia intervenuta la diffida prevista alla lettera a), la sospensione di lavori iniziati.
2. Il provvedimento di inibizione o sospensione dei lavori incidenti su immobili o aree non ancora dichiarati di notevole interesse pubblico cessa di avere efficacia se entro il termine di novanta giorni non sia stata effettuata la pubblicazione all’albo pretorio della proposta della commissione di cui all'articolo 138 o della proposta dell’organo ministeriale prevista all'articolo 141, ovvero non sia stata ricevuta dagli interessati la comunicazione prevista dall’articolo 139, 4° co.
(art. 150, d.lg. 22.1.2004, n. 41).

Tale potere, già previsto dall'art. 8, l. n. 1497 del 1939, e dall’art. 153, d.lg. 490/1999, può essere esercitato anche quando il bene non è ancora inserito negli elenchi dei beni vincolati, per cui la dottrina ne ravvisa il carattere di procedimento cautelare.

E’ chiara ed indiscussa la loro natura di misure cautelari, avendo la funzione di un intervento urgente volto ad evitare che la instaurazione del regime di tutela nelle vie ordinarie sopravvenga, dati i tempi occorrenti per i relativi procedimenti amministrativi, quando siano già state portate a compimento delle irrimediabili alterazioni dei luoghi lesive della bellezza naturale
(Alibrandi e Ferri 1995, 599).

L’intervento può essere effettuato anche nel corso dell'esecuzione dei lavori per evitare che questi alterino irreversibilmente lo stato dei luoghi.

Il ministero può ordinare la sospensione di lavori edilizi, già autorizzati con concessione edilizia, anche nel periodo successivo alla emanazione del decreto di imposizione e del vincolo e fin quando esso divenga esecutivo con la pubblicazione nella G.U.; può ordinare la stessa sospensione quando le costruzioni in corso - in assenza di adeguate prescrizioni da parte della commissione edilizia integrata - siano in contrasto con le esigenze di tutela di un complesso monumentale.
Il procedimento di sospensione dei lavori edificatori in aree comprese nel decreto di vincolo paesistico, è legittimamente emanato in pendenza della pubblicazione del decreto stesso sulla gazzetta ufficiale della repubblica e pertanto prima che siano realizzati compiutamente i requisiti di efficacia, ai sensi espressamente dell'art. 153, 1° co., t.u. 29.10.1999, n. 490, che ha ribadito la norma già indicata nell'art. 8 della l. n. 1497 del 1939
(Cons. St., sez. VI, 20.102000, n. 5661).

I vincoli paesistici che accertano una naturale vocazione dei luoghi alla inedificabilità sono imposti senza indennizzo alle proprietà che ne sono oggetto (Corte cost., 9.5.1968, n. 56).
L’obbligatorietà della pianificazione paesistica è confermata dall’art. 150, d.lg. 22.1.2004, n. 41, che mod. l’art. 149, d. lg. 29.10.1999, n. 490.
In carenza di pianificazione gli immobili sono soggetti ad un vincolo permanente di tutela (Mengoli 2003, 455).
Le regioni il Ministero per i beni e le attività culturali ed il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio possono stipulare accordi per l’elaborazione d’intesa dei piani paesaggistici.
In caso di mancato esercizio del potere da parte delle regioni scatta quello sostitutivo del Ministero che si esercita attraverso l’emanazione di atti di indirizzo.


92. I vincoli di rispetto del patrimonio artistico. I beni soggetti.

LEGISLAZIONE: d.lg. 29.10.1999, n. 490, artt. 2, 5 - d.lg. 22.1.2004, n. 41, artt. 10, 12.

La tutela sul patrimonio artistico è attuata dall’art. 10, d.lg. 22.1.2004, n. 41, che mod. artt. 5 e ss., d.lg. 490/1999, tramite un meccanismo di vincolo di interesse pubblico - sulle cose d’interesse artistico o storico - notificato con un procedimento speciale.
Il provvedimento di vincolo di particolare interesse artistico e storico colpisce le cose mobili ed immobili, tassativamente indicate dall'art. 10, d.lg. 22.1.2004, n. 41, art. 150.

1. Sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico
(art. 10, - d.lg. 22.1.2004, n. 41).

La giurisprudenza ha precisato che il provvedimento di vincolo deve indicare dettagliatamente sia il bene cui si riferisce sia i motivi che lo giustificano.

Il provvedimento di vincolo deve indicare, nella relazione che lo accompagna, quale interesse lo motivi, fra quelli indicati nell'art. 2, d. lg. n. 490 del 1999, onde esso appare contraddittorio quando si riferisce al 1° co., lett. a), di detta disposizione (interesse artistico, storico, archeologico o demo - antropologico) mentre la relazione valorizza invece la connessione dell'immobile con la storia politica della città di Trieste, cioè con uno degli elementi considerati dal 1° co., lett. b) dell’art. 2, d. lg. n. 490/1999
(T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 25.7.2002, n. 593).

Tali beni devono avere un particolare collegamento con la storia della cultura della città:

L’imposizione del vincolo deve risultare motivata con la sussistenza sia dell'immedesimazione e compenetrazione dei valori storico-culturali con le strutture materiali nonché del collegamento dei beni e della loro utilizzazione con gli eventi storico-culturali della città, sia del pregio artistico dell'immobile e di alcuni arredi in esso contenuti
(T.A.R. Sardegna, 13.2.1997, n. 192, T.A.R., 1997, I, 1557).

Il procedimento di vincolo non è correlato ad uno strumento di pianificazione territoriale, ma ad un atto del Ministero per i beni e le attività culturali.



93. Il procedimento di vincolo. L’accesso.

LEGISLAZIONE: l. 241/1990, art. 7 - d.lg. 29.10.1999, n. 490, art. 7 - d.lg. 22.1.2004, n. 41, art. 12.

Il procedimento di vincolo si articola attraverso tre atti distinti: 1) la dichiarazione dell’interesse storico ed artistico; 2) la notifica da parte dell’autorità che porta a conoscenza dell’interessato la dichiarazione; 3) la trascrizione al fine di rendere edotti i terzi dei vincoli gravanti sulla cosa qualora si tratti di beni soggetti a pubblicità immobiliare (Mengoli 2003, 509).
La dottrina rileva l’applicazione obbligatoria del procedimento di accesso previsto dalla l. 241/1990 (Assini 2000, 62).
Il procedimento tende a riconoscere la partecipazione del soggetto proprietario dell’immobile garantendo la pubblicità dell’iniziativa ministeriale.
La giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del cod. beni cult. ha affermato che il contenuto della comunicazione di avvio del procedimento deve essere tale da porre il destinatario nella condizione di potere partecipare al procedimento di accesso formulando osservazioni congrue e pertinenti.

La comunicazione di avvio del procedimento di dichiarazione dell'interesse particolarmente importante delle cose immobili di cui all'art. 2, 1° co., lett. a) e b), d.lg. n. 490 del 1999, deve contenere, ai sensi del successivo art. 7, non solo gli elementi identificativi del bene, nella specie mancanti, ma soprattutto quelli valutativi, cioè i presupposti dell'apposizione del vincolo da parte dell'organo procedente, di cui nel caso non si trova traccia, impedendo al destinatario di presentare osservazioni pertinenti all'orientamento dell'amministrazione, non essendo dato comprendere il motivo per cui essa ha ritenuto l'immobile meritevole di tutela
(T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 25.7.2002, n. 593).

La giurisprudenza ritiene che la pubblicità abbia effetti costitutivi e, pertanto, l’omissione della fase partecipativa comporta l’illegittimità del successivo procedimento.
La regola di cui all'art. 7, l. n. 241 del 1990, che stabilisce in termini generali la necessità che sia dato avviso dell'avvio del procedimento ai soggetti nella cui sfera è destinato ad incidere il provvedimento finale, è ribadita, con riferimento al procedimento di imposizione di vincolo indiretto ai sensi dell’art. 49, 3° co., d.lg. 29.10.1999, n. 490.
Tale norma prevede che la comunicazione suddetta deve essere eseguita con le modalità previste dall'art. 7, 2° co., l. n. 241 del 1990, ovvero, se per il numero di destinatari la comunicazione personale non sia possibile o risulti particolarmente gravosa, mediante idonee forme di pubblicità
(Cons. St., sez. VI, 25.6.2002, n. 3478, FACDS, 2002, 1510).
È illegittimo il decreto del Ministero per i beni e le attività culturali che impone su un immobile il vincolo archeologico indiretto, ex art. 49, d. lg. 29.10.1999, n. 490 senza, tuttavia, comprovare l'avvenuto adempimento della


comunicazione dell' avvio del procedimento con le modalità di cui all' art. 7, l. 7.8.1990, n. 241 ovvero le altre idonee forme di pubblicità
(T.A.R. Calabria Reggio Calabria, 8.6.2001, n. 445).


94. La dichiarazione dell’interesse storico ed artistico. I poteri del Ministero.

LEGISLAZIONE: l. 1.6.1939, n. 1089, artt. 1, 3 - d.lg. 29.10.1999, n. 490, art. 23 - d.lg. 22.1.2004, n. 41, art. 12, 2° co.

La dichiarazione dell’interesse storico ed artistico deve essere effettuata dall'amministrazione fornendo indicazioni specifiche circa la concreta sussistenza di reperti di interesse artistico, storico, archeologico o etnografico.
L’art. 12, 4° co., d.lg. 22.1.2004, n. 41, precisa che non è sufficiente una corretta motivazione e che essa deve essere in linea con gli indirizzi di carattere generale stabiliti dal Ministero al fine di assicurare uniformità di valutazione.
Ci si aspetta, quindi, una maggiore razionalizzazione nell’opera di salvaguardia, con una intensificazione della protezione delle opere di maggior pregio e con una maggiore flessibilità nelle gestione delle opere minori che ne consenta la catalogazione, la tutela, oltre che la commerciabilità.
Il provvedimento di imposizione del vincolo storico - artistico, di cui agli artt. 1 e 3, l. 1.6.1939 n. 1089, può essere legittimamente adottato anche sotto la pressione dell'opinione pubblica e senza previo contraddittorio con gli interessati, ma deve necessariamente contenere una puntuale motivazione, sia pure nella forma per relationem, con la quale l'Amministrazione dimostri di aver compiutamente valutato gli elementi che costituiscono i presupposti per l'imposizione stessa
(T.A.R. Lazio, sez. II, 3.12.1999, n. 2517, FA, 2000, 2354. T.A.R. Puglia Bari, sez. I, 3.11.1999, n. 1481, UA, 2000, 211).
In tal senso la giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del cod. beni cult. ha evidenziato la necessità della materiale presenza fisica del bene che si intende tutelare.

Presupposto imprescindibile per l'imposizione del vincolo diretto, di cui agli artt. 1 e 3, l. 1089 del 1939, è l'effettiva esistenza delle cose da tutelare; ne discende che il decreto impositivo si deve considerare illegittimo per mancanza o errore nei presupposti, ove si dimostri che nella zona vincolata in realtà non esiste alcun bene archeologico suscettibile di protezione
(Cons. St., sez. VI, 4.11.2002, n. 5997, FACDS, 2002, 2941).

L’obbligo della motivazione è costitutivo del provvedimento di vincolo e la sua mancanza rende censurabile l’atto presso la giustizia amministrativa.
L'amministrazione dei beni culturali e ambientali, nell'esercizio del potere di vincolo diretto su beni immobili di proprietà privata, ai sensi dell'art. 1, l. 1.6.1939, n. 1089, pur fruendo di discrezionalità nella valutazione degli interessi tutelati, ha l'obbligo di motivare adeguatamente la misura imposta con sacrificio del diritto del privato
(Cons. St., sez. VI, 8.3.2000, n. 1171, FA, 2000, 927).
Questo procedimento interessa i beni di proprietà privata poiché, se i beni sono di proprietà pubblica, l’assoggettamento alla legge è automatico.
I beni soggetti a vincoli notificati non possono essere demoliti, rimossi, modificati o restaurati senza l’autorizzazione del Ministero.
I competenti organi del Ministero notificano ai privati, proprietari a qualsiasi titolo dei beni, il vincolo sulle cose che siano di particolare interesse.
Tale atto di vincolo è trascritto, per i beni immobili, nei registri delle Conservatorie immobiliari ed esso mantiene la sua efficacia nei confronti di ogni successivo proprietario o detentore, a qualsiasi titolo, del bene.
Il Ministero, con il concorso delle regioni e degli altri enti pubblici, assicura la catalogazione dei beni culturali; esso coordina le relative attività.
La dichiarazione, diretta ad affermare che un bene è di interesse storico o artistico, pur non essendo il fondamento del vincolo, che nasce infatti dalla stessa legge, rende noto a tutti che si è accertata l’esistenza in un bene dei requisiti che ne dispongono una immediata rigorosa tutela e che, pertanto, da quel momento in poi, si intende presentare ricorso alla stessa legge.
Ne consegue che il bene, dopo tale dichiarazione, acquista una nuova qualificazione che ne limita notevolmente l’uso e che impedisce qualsiasi modifica dello stesso senza autorizzazione.
Qualora sia intervenuto il vincolo i privati devono sottoporre al Ministero o al sovrintendente i progetti delle opere che intendano eseguire sul bene per ottenere la relativa approvazione, ai sensi dell’art. 12, d.lg. 22.1.2004, n. 41, che sost. art. 23, d.lg. 490/1999.


95. L’autorizzazione per interventi edilizi su immobili di interesse storico ed artistico.

LEGISLAZIONE l. 1089/1939, art. 18, 59 - l. 15.5.1997, n. 127, art. 12 - d.lg. 490/1999, artt. 21, 23, 24, 28, 131 - d.lg. 22.1.2004, n. 41, artt. 21, 22, 160.

E’ fatto obbligo di richiedere l’autorizzazione al Ministero per i beni e le attività culturali per la demolizione e lo spostamento dei beni soggetti a vincolo o per lo smembramento di collezioni, ai sensi dell’art. 21, d.lg. 22.1.2004, n. 41, che sost. art. 21, d.lg. 490/1999.
I progetti per interventi di esecuzione di opere e lavori su beni appartenenti a privati devono essere sottoposti alla Soprintendenza per ottenere la relativa approvazione, ai sensi dell’art. 22, d.lg. 490/1999, che sost. art. 23, d.lg. 490/1999.

I beni soggetti a vincolo, infatti, non possono essere utilizzati in modo non compatibile con il loro carattere storico o artistico o in modo da pregiudicare la loro conservazione od integrità (Mengoli 2003, 516).

Al fine dell'esercizio della funzione di cui agli artt. 21, 1° co., e 23 t.u. 29.10.1999, n. 490, è condizione necessaria e sufficiente che l'elaborato progettuale trasmesso alle autorità preposte alla tutela del vincolo sia idoneo al raggiungimento dell'obiettivo che il procedimento avviato è finalizzato a perseguire ovvero che dal medesimo risulti chiaramente individuabile l'intervento futuro
(T.A.R. Lombardia Milano, sez. II, 6.12.2002, n. 5093).

I proprietari o i detentori, a qualsiasi titolo, di beni mobili ed immobili riconosciuti d’interesse storico od artistico a seguito di notifica devono sottoporre all’esame della competente Soprintendenza il progetto di qualunque opera intendano realizzare, allo scopo di ottenerne la preventiva autorizzazione.
Qualora vi sia assoluta urgenza si possono eseguire i lavori provvisori indispensabili per evitare gravi danni ai beni, con l’obbligo di comunicarne immediata notizia alla Soprintendenza.
Alla stessa dovranno essere inviati in seguito, nel più breve tempo possibile, i progetti definitivi dei lavori per averne l’approvazione.
Gli interventi su immobili che presentano interesse storico artistico sono assoggettati non solo al permesso di costruire, ma anche all'autorizzazione rilasciata dalla competente Soprintendenza.
Fra le due procedure non intercorre un rapporto di collegamento e, quindi, le determinazioni del soprintendente non vincolano i provvedimenti del sindaco.
L'impugnazione dei due atti ha ambiti operativi diversi, essendo diretta a censurare in un caso l'autorizzazione della Soprintendenza per i motivi connessi alla tutela dei beni culturali e, nell'altro, il permesso di costruire per motivi di natura urbanistica.
La giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del cod. beni cult. ha ritenuto ammissibile l'impugnazione del solo provvedimento comunale avendo il ricorrente fatto valere ragioni di natura esclusivamente urbanistica.

In sede di autorizzazione di interventi edilizi su immobili vincolati ai sensi della l. 1.6.1939, n. 1089, il sindaco, a fronte dell'approvazione preventiva rilasciata dalla competente soprintendenza, in base all'art. 18 della l. 1089/1939, ben può effettuare valutazioni di ordine urbanistico-edilizio, pervenendo a determinazioni negative o soprassessorie sull'istanza presentata dall'interessato
(T.A.R. Piemonte, sez. I, 10.10.1990, n. 386, T.A.R., 1990, I, 3847).
La giurisprudenza ha ritenuto che la suddetta autorizzazione riguardi qualsiasi tipo di lavori:

L'art. 18 della l. 1.6.1939, n. 1089 sulla tutela delle cose d'interesse artistico o storico, che richiede la preventiva approvazione dei progetti delle opere che si intendano eseguire sulle cose tutelate dalla legge, non si riferisce alle opere edilizie, ma alle opere di qualunque genere, comprendendo con tale espressione qualsiasi manufatto, anche se di limitata entità volumetrica ed a carattere precario, purché idoneo ad arrecare pregiudizio all'interesse tutelato
(Cass. pen., sez. III, 23.11.1984, CP, 1986, 131).

Il procedimento di rilascio, prima disciplinato dall’art. 24, d.lg. 490/1999 (Mengoli 2003, 518), è ora normato dall’art. 22, d.lg. 22.1.2004, n. 41.
La scansione procedimentale ne impone il rilascio entro 120 giorni dalla ricezione della richiesta da parte della Soprintendenza.
E’ prevista la sospensione del termine per richieste istruttorie.
Decorso il termine il ricorrente può diffidare l’amministrazione a provvedere
E’ previsto il silenzio assenso che si forma solo a seguito di inottemperanza dell’amministrazione a provvedere dopo trenta giorni dal ricevimento della diffida,
La tutela statale attribuisce al soprintendente il potere di sospendere i lavori quando i progetti relativi non siano stati preventivamente autorizzati dalla soprintendenza, ai sensi dell’art. 28, d.lg. 22.1.2004, n. 41, che sost. art. 28, d.lg. 490/1999.
L’art. 160, d.lg. 22.1.2004, n. 41, che sost. l’art. 131, d.lg. 490/1999, disciplina il procedimento sanzionatorio di rimessa in pristino di competenza del Ministero per i beni e le attività culturali.



96. Il vincolo indiretto.

LEGISLAZIONE: cost. 9, 2° co., c.c. 879 - l. 1.6.1939, n. 1089, art. 21 - d.lg. 29.10.1999, n. 490, art. 49 – d.lg. 22.1.2004, n. 41, art. 45.

Gli interventi da effettuare su beni aventi particolare interesse storico od artistico non sono regolati da normative di carattere particolare, che fissano speciali vincoli o distanze da rispettare.
E’ attribuito, in ogni caso, al Ministero per i beni e le attività culturali il potere di stabilire le distanze tese a proteggere l’immobile da interventi ritenuti dannosi, ex art. 45, d.lg. 22.1.2004, n. 41, che sost. art. 49, d.lg. 29.10.1999, n. 490.

1. Il Ministero ha facoltà di prescrivere le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo l'integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro.
(Art. 45, d.lg. 22.1.2004, n. 41).

Il procedimento amministrativo è subordinato dalla giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del cod. beni cult. al preventivo esperimento della procedura di accesso che deve consentire al privato interessato dall'azione amministrativa di portare il suo apporto collaborativo.

È illegittimo il provvedimento con il quale il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, a salvaguardia dell'integrità dell'immobile denominato Chiesetta di S. Sergio e del suo originario rapporto con la campagna circostante, ha prescritto l'inedificabilità delle aree circostanti e il mantenimento della loro destinazione agricola, per violazione dell'art. 7, l. 7.8.1990, n. 241, richiamato, dall'art. 49, d.lg. 29.10.1999, n. 490.
Esso stabilisce in termini generali la necessità che dell'avvio del procedimento sia dato avviso ai soggetti nella cui sfera è destinato ad incidere il provvedimento finale.
Nel caso di specie non trova applicazione l'indirizzo giurisprudenziale per il quale l'obbligo di comunicazione dell'avvio viene meno ove la partecipazione dell'interessato mediante osservazioni ed opposizioni non sia idonea, anche solo in via astratta ed ipotetica, ad essere di una qualche utilità all'azione amministrativa.
Si tratta, infatti, di provvedimento connotato da valutazioni tecnico discrezionali per il quale non è esclusa la possibilità di un apporto partecipativo del privato, finalizzato a dare un diverso contenuto al provvedimento finale
(T.A.R. Marche, 17.3.2003, n. 76).

Il potere ministeriale è, dunque, un potere generale che risponde ai principi delle logicità e della correttezza dell’azione amministrativa.

Il vincolo indiretto previsto dall'art. 21, l. 1.6.1939, n. 1089, sostituito dall'art. 49, d.lg. n. 490/1999, non ha un contenuto prescrittivo tipico, essendo rimesso all'apprezzamento discrezionale dell'amministrazione e potendo variare in funzione della protezione del bene, ed è legittimo anche se comporta l'inedificabilità assoluta dell'area cui si riferisce; infatti, tale articolo prevede che possono essere imposte anche misure non tipizzate dirette ad evitare che sia messa in pericolo l'integrità dei beni tutelati, purché il provvedimento impositivo del vincolo sia congruamente motivato e sorretto da un'adeguata istruttoria.
Nella fattispecie la necessità di tutelare i terreni attorno al bene monumentale sottoposto a vincolo diretto si ricava dalla relazione tecnico scientifica


allegata al provvedimento impugnato, dalla quale, sebbene espressa in forma sintetica, emerge l'importanza del collegamento fra la conservazione della situazione ambientale e la fruizione dell'immobile di interesse storico artistico, tutelato in via diretta
(T.A.R. Toscana, 17.7.2000, n. 1693).

La dottrina rileva la prevalenza degli interessi culturali su quelli urbanistici.

In sede di valutazione comparativa tra interessi urbanistici e interessi connessi alla tutela storico artistica o archeologica il legislatore fin dal 1939 ha costantemente ritenuto di dovere attribuire prevalenza a questi ultimi e ciò in coerenza con la natura di principio fondamentale rivestita dall'art. 9, 2° co., cost., in base al quale la repubblica tutela il paesaggio ed il patrimonio storico artistico della nazione
(Tamiozzo 2000, 78).

La giurisprudenza ha fissato i limiti del potere ministeriale che resta pur sempre soggetto all’impugnazione presso la giustizia amministrativa, qualora sia esercitato in modo non equilibrato e tale da rendere eccessivamente gravosi gli oneri per la proprietà.

L'imposizione del vincolo di inedificabilità previsto dall'art. 21, l. 1089 del 1939, trasfuso nell'art. 49 del testo unico approvato col d.lg. 29.10.1999, n. 490, costituisce espressione della discrezionalità tecnica della amministrazione, di per sé sindacabile innanzi al giudice amministrativo quando la motivazione risulti inadeguata o presenti manifeste incongruenze o illogicità
(Cons. St., sez. VI, 27.3.2001, n. 1767, RGE, 2001, I, 681).

Il potere previsto dall'art. 21, l. 1.6.1939, n. 1089, con il quale il Ministro per i beni culturali ed ambientali può imporre distanze, misure ed ogni altra prescrizione a tutela dell'integrità, della prospettiva e delle condizioni di luce, ambiente e decoro delle cose di interesse storico, artistico ed archeologico contemplate dalla legge medesima, deve essere esercitato, segnatamente nelle ipotesi in cui esso si traduce in prescrizioni particolarmente gravose per i terreni interessati, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità, così da contemperare il sacrificio imposto al privato con il fine di interesse pubblico perseguito
(T.A.R. Lazio, sez. II, 9.11.1996, n. 2021, FA, 1997, 1487).

I provvedimenti tesi a tutelare il bene oggetto di vincolo possono essere presi secondo un apprezzamento discrezionale che non è censurabile dal giudice amministrativo.

La valutazione circa le modalità concrete degli interventi ritenuti necessari o opportuni al fine della tutela dei beni di interesse artistico o storico non può che rientrare nell'ambito delle valutazioni discrezionali dell'amministrazione deputata alla cura dei relativi interessi pubblici, e tali valutazioni sono di norma sottratte al sindacato del giudice amministrativo.
Nella specie, è stata ritenuta la legittimità del decreto impositivo di vincolo di inedificabilità anche temporanea su terreni qualificati come area di rispetto intorno a resti archeologici ed individuata come omogenea in relazione alla distanza dai ruderi
(T.A.R. Sardegna, 9.10.1996, n. 1350, T.A.R., 1996, I, 4755).

Il provvedimento non è subordinato ad alcun tipo di indennizzo da corrispondere preventivamente alla proprietà.

La legittimità del provvedimento di vincolo indiretto di cui all'art. 49, d.lg. 29.10.1999, n. 490, non dipende dalla liquidazione di un'indennità, giacché questa non è prevista dal disposto dell'art. 49 del t.u. sui beni culturali e ambientali, né dall'art. 21, l. n. 1089 del 1939, riprodotto nello stesso art. 49 del t.u. 29.10.1999, n. 490
(Cons. St., sez. II, 30.10.2002, n. 2301, FACDS, 2002, 3273).
Tale funzione è svolta a prescindere delle disposizioni urbanistiche vigenti che hanno il diverso scopo della tutela del territorio.
Non possono comunque essere invocate, come limite all’applicazione del potere ministeriale, le norme sulle distanze previste dal c.c.

L'art. 879 c.c. esclude per gli edifici di interesse storico, archeologico ed artistico l'applicabilità delle norme del codice civile sulla concessione forzosa del muro, ma non anche quelle sulle distanze legali
(Cons. St., sez. V 30.9.1992, n. 889).

Le leggi in materia, cui si riferisce l'art. 879 c.c. per indicare i beni di riconosciuto interesse storico, archeologico e artistico non soggetti alla comunione forzosa, sono solo quelle che realizzano la specifica tutela di questi valori predisponendo un procedimento amministrativo diretto al loro accertamento
(Cass. civ., sez. II, 6.1.1981, n. 60, RGE, 1981, I, 758).



97. I vincoli di destinazione.

LEGISLAZIONE: cost. 9, 42 - l. 1.6.1939, n. 1089, artt. 1, 2 - d.lg. 31.3.1998, n. 114, art. 10 - d.lg. 29.10.1999, n. 490, art. 2, lett. b), 53 - d.lg. 22.1.2004, n. 41, art. 10, 3° co., lett. a), 52.

Il nostro ordinamento conosce anche forme di tutela indiretta dei beni culturali, ex art. 10, 3° co., lett. a), d.lg. 22.1.2004, n. 41, che sost. art. 2, lett. b), d.lg. 29.10.1999, n. 490.
Detta norma tutela beni che, sebbene privi di intrinseco valore artistico, abbiano un collegamento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura e che, in genere, rivestono un interesse particolare.
La genericità del valore del bene è affermata dalla dottrina.

I suddetti beni sono ritenuti di particolare significato per la loro connessione con fatti storici qualificanti, anche se solo genericamente
(Alibrandi e Ferri 1995, 164).

Le norme istitutive del vincolo indiretto, l. 1.6.1939, n. 1089, artt. 1 e 2, sono state oggetto di giudizio di costituzionalità in quanto il giudice remittente riteneva che la costituzione non fornisse la possibilità di introdurre il vincolo indiretto e, quindi, ravvisava un contrasto fra le suddette norme e quelle costituzionali che tutelano i patrimoni storici.
Si trattava di verificare la legittimità costituzionale del d.m. 4.4.1987, col quale il Ministro per i beni culturali e ambientali sottoponeva a vincolo l'Antico Caffè Genovese di Cagliari, dichiarato di interesse particolarmente importante, e del d.m. 12.11.1984, con il quale il Ministero per i beni culturali e ambientali, nel sottoporre a vincolo il Palazzo Fiano, sito in Roma, ha dichiarato d'interesse particolarmente importante la Gioielleria Masenza, ubicata nello stesso palazzo.
La corte costituzionale ha affermato che gli artt. 1 e 2 della l. 1089/1939, prevedono la tutela rispettivamente dei beni mobili o immobili di interesse storico, artistico, archeologico, etnografico e di beni di interesse particolare per il loro riferimento alla storia politica, militare, della letteratura, dell'arte e della cultura in genere.
L'art. 11, l. 1.6.1939, n. 1089, vieta una destinazione ed un uso delle suddette cose non compatibile con il loro carattere e, comunque, tale da pregiudicarne la conservazione e l'integrità.
La tutela dei beni è determinata dal loro valore culturale e dal relativo interesse pubblico, da accertarsi con atto amministrativo discrezionale, soggetto al sindacato del giudice amministrativo.
Il valore culturale dei beni di cui alla l. 1089/1939, è dato dal collegamento del loro uso e della loro utilizzazione precedente con accadimenti della storia, della civiltà o del costume anche locale.
In altri termini, essi possono essere stati o sono luoghi di incontri e di convegni di artisti, letterati, poeti, musicisti ecc.; sedi di dibattiti e discussioni sui più vari temi di cultura, comunque di interesse storico-culturale, rilevante ed importante, da accertarsi dalla pubblica amministrazione competente.
Detta utilizzazione particolare non assume rilievo autonomo, separato e distinto dal bene, ma si compenetra nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale e, quindi, non può essere protetta separatamente dal bene, come si pretenderebbe.
L'esigenza di protezione culturale dei beni, determinata dalla loro utilizzazione e dal loro uso precedente, si estrinseca in un vincolo di destinazione che agisce sulla proprietà del bene e può trovare giustificazione, per i profili costituzionali, nella funzione sociale che la proprietà privata deve svolgere, ex art. 42 cost.
Il vincolo non può assolutamente riguardare l'attività culturale in sé e per sé, considerata separatamente dal bene.
Tale attività, invece, deve essere libera secondo i precetti costituzionali, ex artt. 2, 9 e 33 cost.
La stessa iniziativa economica è libera, salvo il suo indirizzo e coordinamento a fini sociali tramite leggi, ex art. 41 cost.
Vi sono certamente attività culturali che lo Stato tutela con incentivi vari, specie di natura finanziaria, disposti con leggi apposite, distinte da quella in esame.
La Corte, inoltre, ha ritenuto che non risulti affatto violato l'art. 9 cost., che impegna la Repubblica ad assicurare, tra l'altro, la promozione e lo sviluppo della cultura nonché la tutela del patrimonio storico ed artistico della Nazione, quale testimonianza materiale della civiltà e della cultura del Paese.
Per quanto si desume da altri precetti costituzionali, lo Stato deve curare la formazione culturale dei consociati alla quale concorre ogni valore idoneo a sollecitare e ad arricchire la loro sensibilità come persone, nonché il perfezionamento della loro personalità ed il progresso anche spirituale oltre che materiale.
In particolare, lo Stato, nel porsi gli obiettivi della promozione e dello sviluppo della cultura, deve provvedere alla tutela dei beni che ne sono testimonianza materiale ed assumono rilievo strumentale per il raggiungimento dei suddetti obiettivi sia per il loro valore culturale intrinseco sia per il riferimento alla storia della civiltà e del costume anche locale; deve, inoltre, assicurare alla collettività il godimento dei valori culturali che essa esprime.

È infondata, in riferimento all'art. 9 cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2, l. 1.6.1939, n. 1089, nella parte in cui non prevedono la possibilità di tutelare attività culturalmente rilevanti, caratterizzanti una zona del territorio cittadino e, in particolare, i centri storici
(Corte cost., 9.3.1990, n. 118, RGE, 1990, I, 328).

La dottrina rileva come la giurisprudenza successiva alla pronuncia della Corte abbia interpretato la norma fornendo un'interpretazione estensiva.
Essa considera la categoria aperta in modo da comprendere quei beni che hanno avuto un qualche scollegamento con fatti che comportano l’imposizione del vincolo.
Le recenti linee di tendenza degli organi di tutela hanno portato a porre dei vincoli di tutela sia su locali commerciali, in quanto qualificati come punti di incontro e di scambi conviviali tra gente di cultura ovvero quali luoghi di incontro e sollecitazione culturale, ma anche su laboratori e botteghe espressive di determinate attività commerciali o artigianali di tipo tradizionale
(Crosetti 2002, 258).

Alcune sentenze hanno precisato che costituiscono oggetto di tutela storico culturale i beni nei quali siano incorporati valori storico artistici e culturali, e quindi quelli attinenti a speciali discipline, ma non anche le gestioni commerciali e gli esercizi artigianali, nei quali si svolgano attività inerenti ai valori sopra menzionati.

Il vincolo storico artistico, di cui agli artt. 1 e 2, l. n. 1089 del 1939, riguarda le cose materiali incorporanti i valori culturali che sono la ragion d'essere della tutela e non si estende fino a ricomprendere la gestione commerciale o l'esercizio artigianale di determinate attività (svolte in detti locali e/o con detti arredi) con una interpretazione analogica fortemente restrittiva del principio di legalità che caratterizza i poteri ablatori della pubblica amministrazione dell'art. 11 della stessa l. n. 1089 del 1939 che vieta che le cose materiali soggette a detta tutela non possano essere adibite ad usi non compatibili con il loro carattere storico ed artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione o integrità forzando la lettura e la ratio complessiva della legge al punto da trasformare la disposizione permissiva del godimento del proprietario in conformità di limiti di interesse generale, in un precetto impositivo di una servitù pubblica legislativamente innominata, in contrasto con gli artt. 42 e 43 cost.; così che la norma in parola non necessita per la sua osservanza di pervenire all'imposizione di un vincolo di destinazione d'uso che investa i locali in cui siano conservate le cose soggette a vincolo
(Cons. Stato, sez. VI, 16.9.1998, n. 1266, FA, 1998, 2397).

La tutela del vincolo di destinazione trova idoneo sostegno nella normativa che propone una protezione particolare e peculiare per i centri storici.
Il d.lg. 31.3.1998, n. 114, all’art. 10, attribuisce alla legislazione regionale il compito di affidare ai comuni maggiori poteri in materia di localizzazione e apertura di centri di vendita nei centri storici.

Nella regione Umbria, ai sensi dell'art. 39, 3° co., l. r. 3.8.1999, n. 24, le autorizzazioni all'apertura di strutture di tipo M2, diversamente da quelle di tipo M1, soggiacciono alla necessità della previa adozione dello strumento di promozione previsto dal precedente art. 19 nonché dello specifico strumento di intervento per la valorizzazione del centro storico previsto dall'art. 21 della stessa legge, trattandosi di strutture che hanno maggiore rilevanza non solo sotto il profilo commerciale, ma anche per gli impatti urbanistici ed ambientali connessi
(T.A.R. Umbria 24.1.2002, n. 37, FATAR, 2002, 110).

L’esercizio del commercio in aree di valore culturale è stato oggetto di disciplina da parte dell’ art. 52, d.lg. 22.1.2004, n. 41, che sost. art. 53, d.lg. 490/1999.
Tale disposizione ha stabilito che il soprintendente con proprio provvedimento o i regolamenti di polizia urbana devono individuare le aree aventi valore archeologico, storico, artistico e ambientale, in cui l’esercizio del commercio non è consentito o è consentito con particolari limitazioni.
La norma, successivamente, specifica che per le ipotesi in cui l’esercizio del commercio sia consentito entro limiti particolari esso è sempre subordinato al rilascio del nulla osta da parte del sovrintendente e che esso può essere concesso solo per le installazioni mobili, fatta salva l’autonomia legislativa regionale.


98. I vincoli cimiteriali.

LEGISLAZIONE r.d. 27.7.1934, n. 1265, art. 338, 1° e 5° co. - d.p.r. 10.9.1990, n. 285, art. 57.

I vincoli imposti dal r.d. 27.7.1934, n. 1265, per la realizzazione di cimiteri rispondono sicuramente a criteri di ordine storico - artistico oltre che igienico.
Le motivazioni più articolate tese a giustificare questi vincoli, che creano una zona di rispetto per questi luoghi di culto e della memoria, sono da collegarsi ad un più moderno criterio di tutela ambientale.
Gli antichi hanno riservato ai luoghi di sepoltura dei defunti località di interesse paesaggistico; si pensi, ad esempio, alla necropoli etrusca sita sul Golfo di Baratti.
L'art. 338, t.u. 27.7.1934, n. 1265, vieta di realizzare nuove costruzioni su terreni che si trovino a meno di duecento metri dai cimiteri.

I cimiteri debbono essere collocati alla distanza di almeno duecento metri dai centri abitati. é vietato di costruire intorno agli stessi nuovi edifici e ampliare quelli preesistenti entro il raggio di duecento metri.
Il contravventore è punito con l'ammenda fino a lire 1000, (euro 5,16) e deve inoltre, a sue spese, demolire l'edificio o la parte di nuova costruzione, salvi i provvedimenti di ufficio in caso di inadempienza.
Il prefetto, quando abbia accertato che a causa di speciali condizioni locali non è possibile provvedere altrimenti, può permettere la costruzione e l'ampliamento dei cimiteri a distanza minore di duecento metri dai centri abitati.
Il prefetto inoltre, sentito il medico provinciale e il podestà, per gravi e giustificati motivi e quando per le condizioni locali non si oppongano ragioni igieniche, può autorizzare, di volta in volta, l'ampliamento degli edifici preesistenti nella zona di rispetto dei cimiteri.
I provvedimenti del prefetto sono pubblicati nell'albo pretorio per otto giorni consecutivi e possono essere impugnati dagli interessati nel termine di trenta giorni.
Il ministero per l'interno decide sui ricorsi, sentito il consiglio di Stato
(art. 338, t.u. 27.7.1934, n. 1265).

Il divieto, previsto dall'art. 338, t.u. 27.7.1934, n. 1265, di costruire nuovi edifici entro il raggio di duecento metri intorno ai cimiteri è assoluto ed è riferibile ad ogni tipo di fabbricato o di costruzione, anche ad uso di abitazione, rendendo del tutto inedificabile l'area colpita dal divieto medesimo.
Il vincolo cimiteriale è inderogabile e sussiste ope legis e, quindi, indipendentemente dal fatto che sia recepito dallo strumento urbanistico primario o secondario (T.A.R. Umbria, 15.7.2002, n. 534, FATAR, 2002, 2455).
In detta fascia di rispetto cimiteriale è vietato sia costruire nuovi edifici sia intervenire su manufatti preesistenti con opere che comportino un'alterazione dei volumi o delle superfici a prescindere dalla destinazione dell’edificio da realizzare, compresi i manufatti destinati ad attività artigianali, in cui costante è la presenza dell'uomo.

Il divieto di costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici o ampliare quelli preesistenti, entro il raggio di duecento metri, imposto dall'art. 338, r.d. 27 luglio 1934, n. 1265, si applica anche all'ampliamento dei fabbricati esistenti e alle sopraelevazioni
(T.A.R. Abruzzo L'Aquila, 22.3.2002, n. 122, FATAR, 2002, 993. Cass. pen., sez. III, 24.5.1996, n. 8553, CP, 1997, 3163. Cons. St., sez. IV, 29.2.1996, n. 222, FA, 1998, 381).

E’ consentita deroga, che prima era autorizzata dal prefetto; ora tale facoltà è attribuita alla competenza degli stessi comuni, poiché non espressamente delegata alla regione o alla provincia, ex art. 32, d.p.r. 616/1977 (Mengoli 2003, 565).
L’art. 32, d.p.r. 616/1977, trasferisce ai comuni, in materia di igiene, tutte le competenze che non siano espressamente attribuite ad organo dello Stato.
Il regolamento di polizia mortuaria consente gli ampliamenti fino ad una distanza minima di 100 metri dal centro abitativo, lasciando, però, in vigore la norma che prevede la possibilità di ammettere una ulteriore deroga motivata.

1. I cimiteri devono essere isolati dall'abitato mediante la zona di rispetto prevista dall'art. 338 del t. u. delle leggi sanitarie, approvato con r. d. 27.7.1934, n. 1265 e successive modificazioni.
2. Per i cimiteri di guerra valgono le norme stabilite dalla l. 4.12.1956, n. 1428 e successive modifiche.
3. É vietato costruire, entro la fascia di rispetto, nuovi edifici o ampliare quelli preesistenti.
4. Nell'ampliamento dei cimiteri esistenti, l'ampiezza della fascia di rispetto non può essere inferiore a 100 metri dai centri abitati nei comuni con popolazione superiore ai 20.000 abitanti ed a 50 metri per gli altri comuni
(art. 57, d.p.r. 10.9.1990, n. 285).

La ratio della deroga è rivolta, secondo la giurisprudenza, solo a consentire l’ampliamento dei cimiteri preesistenti e non può essere invocata dai privati al fine di giustificare la realizzazione di edifici nella fascia di rispetto.

La deroga al limite minimo della fascia di rispetto cimiteriale ha la funzione non già di consentire la riduzione in via definitiva della distanza all'uopo dettata dall'art. 338, r.d. 27.7.1934, n. 1265, bensì di consentire, per esigenze di carattere strumentale, l'ampliamento di un cimitero con riguardo agli edifici già esistenti del centro abitato
(Cons. Stato, sez. V, 23.8.2000, n. 4574, FA, 2000, 2673).

L'art. 57 D.P.R. 10.9.1990, n. 285 (recante il regolamento di polizia mortuaria), ribadito che "i cimiteri devono essere isolati dall'abitato mediante la zona di rispetto prevista dall'art. 33 del t.u. delle leggi sanitarie...", ha statuito, al comma 3, che "è vietato costruire, entro la fascia di rispetto, nuovi edifici o ampliare quelli preesistenti", consentendo, al comma 4, soltanto una deroga per l'ampliamento dei cimiteri esistenti (e non anche per la loro costruzione) negli stessi limiti già ammessi dall'art. 338 comma 4 t.u. sanitario, senza far cenno alcuno alla possibilità di riduzione della fascia di rispetto e quindi, alla deroga di cui al successivo comma 5 art. 338 t.u. sanitario; di conseguenza deve ritenersi che la disposizione ha regolato in modo novativo le fattispecie già disciplinate dall'art. 338 t.u. sanitario, cit., con implicita abrogazione, per incompatibilità, di quelle parti non riprodotte e, in particolare, della previsione di una deroga alla fascia di rispetto cimiteriale non finalizzata all'ampliamento dei cimiteri esistenti

Il limite delle distanze del cimitero dalle costruzioni confinanti non può essere in ogni caso derogato dal provvedimento amministrativo.

Ai sensi del combinato disposto dell'art. 338, 1° e 5° co., t.u. 27.7.1934, n. 1265, ribadito dall'art. 57, d.p.r. 10.9.1990, n. 285, nei comuni con popolazione inferiore a 20.000 abitanti, il raggio di distanza minimo tra cimitero e centro abitato è di 50 metri, con divieto assoluto, al di sotto di detto limite, di costruire nuovi edifici o di ampliare quelli preesistenti
(T.A.R. Valle d'Aosta, 28.2.1992, n. 19, T.A.R., 1992, 1384).

La realizzazione di una costruzione in contrasto colle norme sulle distanze non consente nessuna legittimazione né per la costruzione che rimane abusiva né per i diritti del confinante che non può esigere il rispetto del principio della prevenzione.

La costruzione in violazione della zona di rispetto cimiteriale, stabilita dall'art. 338, r.d. 27.7.1934, n. 1265, finché non sia abbattuta, non esclude l'operatività del principio della prevenzione, e quindi non legittima il vicino a costruire in violazione delle distanze legali, ex art. 873 c.c.
(Cass. civ., sez. II, 22.8.1998, n. 8337, GCM, 1998, 1748).

Il divieto opera indipendentemente dagli strumenti urbanistici ed eventualmente anche in contrasto con gli stessi.
Le fasce di rispetto cimiteriale costituiscono, infatti,un vincolo urbanistico stabilito con leggi dello Stato, art. 338, r.d. 27.7.1934 n. 1265, e delle regioni; esse, come tali, sono operanti ex se indipendentemente dagli strumenti urbanistici vigenti ed eventualmente anche in contrasto con i medesimi.

In relazione ad un suolo rientrante nella zona di rispetto cimiteriale ed assoggettato al relativo vincolo, ai sensi dell'art. 338 r.d. n. 1265 del 1934, legittimamente il giudice di merito ne esclude l'edificabilità, anche se il piano regolatore generale includa il suolo stesso in zona riservata ad edilizia economica e generale, attesa l'illegittimità di tale eventuale inclusione e la possibilità, in quella zona di rispetto, solo di un ampliamento di edifici preesistenti, previa autorizzazione prefettizia.
Né, a tal riguardo, è consentito far riferimento ad una pretesa edificabilità di fatto divergente da tale vincolo imposto dalla legge, in quanto il comma 3 dell'art. 5 bis, l. 359 del 1992 richiede che l'edificabilità di fatto si armonizzi con quella legale.



99. I vincoli di rispetto per le aree distrutte dall’incendio.

LEGISLAZIONE l. 1.3.1975, n. 47, art. 9, 4° co. - l. 22.11.2000, n. 353, art. 10 - l. 24.12.2003, n. 350, art. 4, 173° co.

Allo scopo di combattere il fenomeno degli incendi dolosi finalizzati a reperire aree all’attività edificatoria a fini speculativi il legislatore ha sancito il divieto di edificazione nei suoli interessati da incendi per almeno dieci anni dal verificarsi del fatto, ex art. 9, l. 1.3.1975, n. 47 (Assini e Mantini 1997, 538).
La normativa è stata abrogata e sostituita dalla legge quadro in materia di incendi boschivi, l. 22.11.2000, n. 353, che, all’art. 10, inasprisce le sanzioni e ribadisce il vincolo di inedificabilità decennale.

1. Le zone boscate ed i pascoli i cui soprassuoli siano stati percorsi dal fuoco non possono avere una destinazione diversa da quella preesistente all'incendio per almeno quindici anni. E’ comunque consentita la costruzione di opere pubbliche necessarie alla salvaguardia della pubblica incolumità e dell'ambiente. In tutti gli atti di compravendita di aree e immobili situati nelle predette zone, stipulati entro quindici anni dagli eventi previsti dal presente comma, deve essere espressamente richiamato il vincolo di cui al primo periodo, pena la nullità dell'atto.
Nei comuni sprovvisti di piano regolatore è vietata per dieci anni ogni edificazione su area boscata percorsa dal fuoco. E’ inlotre vietata per dieci anni, sui predetti soprassuoli, la realizzazione di edifici nonché di strutture e infrastrutture finalizzate ad insediamenti civili ed attività produttive, fatti salvi i casi in cui detta realizzazione sia stata prevista, in data precedente l'incendio dagli strumenti urbanistici vigenti a tale data. Sono vietate per cinque anni, sui predetti soprassuoli, le attività di rimboschimento e di ingegneria ambientale sostenute con risorse finanziarie pubbliche, salvo specifica autorizzazione concessa dal Ministro dell'ambiente, per le aree naturali protette statali, o dalla regione competente, negli altri casi, per documentate situazioni di dissesto idrogeologico e nelle situazioni in cui sia urgente un intervento per la tutela di particolari valori ambientali e paesaggistici. Sono altresì vietati per dieci anni, limitatamente ai soprassuoli delle zone boscate percorsi dal fuoco, il pascolo e la caccia.
3. Nel caso di trasgressioni al divieto di pascolo su soprassuoli delle zone boscate percorsi dal fuoco ai sensi del comma 1 si applica una sanzione amministrativa, per ogni capo, non inferiore a lire 60.000 e non superiore a lire 120.000 e nel caso di trasgressione al divieto di caccia sui medesimi soprassuoli si applica una sanzione amministrativa non inferiore a lire 400.000 e non superiore a lire 800.000.
4. Nel caso di trasgressioni al divieto di realizzazione di edifici nonché di strutture e infrastrutture finalizzate ad insediamenti civili ed attività produttive su soprassuoli percorsi dal fuoco ai sensi del comma 1, si applica l'art. 20, primo comma, lettera c), della legge 28 febbraio 1985, n. 47. Il giudice, nella sentenza di condanna, dispone la demolizione dell'opera e il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile.
5. Nelle aree e nei periodi a rischio di incendio boschivo sono vietate tutte le azioni, individuate ai sensi dell'art. 3, comma 3, lettera f), determinanti anche solo potenzialmente l'innesco di incendio.
6. Per le trasgressioni ai divieti di cui al comma 5 si applica la sanzione amministrativa del pagamento di una somma non inferiore a lire 2.000.000 e non superiore a lire 20.000.000. Tali sanzioni sono raddoppiate nel caso in cui il responsabile appartenga a una delle categorie descritte all'art. 7, commi 3 e 6.
7. In caso di trasgressioni ai divieti di cui al comma 5 da parte di esercenti attività turistiche, oltre alla sanzione di cui al comma 6, è disposta la revoca della licenza, dell'autorizzazione o del provvedimento amministrativo che consente l'esercizio dell'attività.
8. In ogni caso si applicano le disposizioni dell'art. 18 della l. 8 luglio 1986, n. 349, sul diritto al risarcimento del danno ambientale, alla cui determinazione concorrono l'ammontare delle spese sostenute per la lotta attiva e la stima dei danni al soprassuolo e al suolo
(art. 10, l. 22.11.2000, n. 353, mod. art. 4, 173° co., l. 24.12.2003, n. 350).

Per rendere operativa la norma, il legislatore impone ai comuni l’accertamento dei suoli investiti dall’incendio nell’ultimo quinquennio.

2. I comuni provvedono, entro novanta giorni dalla data di approvazione del piano regionale di cui al comma 1 dell'art. 3, a censire, tramite apposito catasto, i soprassuoli già percorsi dal fuoco nell'ultimo quinquennio, avvalendosi anche dei rilievi effettuati dal corpo forestale dello Stato. Il catasto è aggiornato annualmente. L'elenco dei predetti soprassuoli deve essere esposto per trenta giorni all'albo pretorio comunale, per eventuali osservazioni. Decorso tale termine, i comuni valutano le osservazioni presentate ed approvano, entro i successivi sessanta giorni, gli elenchi definitivi e le relative perimetrazioni. E’ ammessa la revisione degli elenchi con la cancellazione delle prescrizioni relative ai divieti di cui al comma 1 solo dopo che siano trascorsi i periodi rispettivamente indicati, per ciascun divieto, dal medesimo comma 1
(art. 10, l. 22.11.2000, n. 353).

La giurisprudenza ha in ogni modo ritenuto che i limiti ed i divieti disposti dalla l. 353/2000 siano applicabili anche qualora le amministrazioni non abbiano ancora ottemperato agli obblighi amministrativi di accertamento.
Non appare conforme allo spirito della norma, ai principi generali dell'ordinamento ed al corretto perseguimento degli interessi pubblici connessi e desumibili altresì dall'art. 1, l. 353/2000, ritenere che l'operatività dei divieti e, più in generale delle prescrizioni fondamentali della norma, oltretutto caratterizzati dalla sanzione penale in caso di violazione, possa essere subordinata all'effettivo adempimento di un'attività amministrativa di mera certificazione ed elencazione, quindi dichiarativa e non costitutiva.
Così ragionando, il perseguimento di principi fondamentali dello Stato sarebbe subordinato, sine die, alla volontà di organi amministrativi locali operanti non nell'ambito delle proprie indefettibili prerogative di perseguimento del pubblico interesse per le rispettive comunità locali ma in sede di mera attività di certificazione delegata da una legge fondamentale dello Stato.

L'operatività dei divieti di costruzione di cui all'art. 10, l. 21.11.2000, n. 353, non può ritenersi subordinata all'effettivo adempimento di un'attività amministrativa di mera certificazione ed elencazione quale il censimento comunale dei soprassuoli già percorsi dal fuoco nell'ultimo quinquennio
(T.A.R. Liguria, sez. I, 21.2.2003, n. 225, FATAR, 2003, 489).

La stessa sentenza ha precisato che dopo il verificarsi dell’incendio pur a fronte della astratta edificabilità nei termini - invero ristretti e rispettosi delle peculiarità ambientali del sito - di cui alla pianificazione preesistente, se all'epoca dell'incendio non era stata rilasciata alcun permesso di costruire né risultava proposto ovvero comunque in itinere un piano attuativo, necessario preliminarmente per la realizzazione di qualsiasi intervento di tale natura in zona, non può essere autorizzato alcun provvedimento che consenta costruzioni.
Il giudice amministrativo ha affermato che il richiamo effettuato dall’art. 10, 4° co., l. 353/2000, all'art. 20, lett c), l. 47/85, non limita l'operatività della norma alle ipotesi dalla stessa indicate, cioè la lottizzazione abusiva e gli interventi edilizi nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico, archeologico, paesistico, ambientale, in variazione essenziale, in totale difformità o in assenza del provvedimento autorizzatorio.
Il rinvio operato dalla norma di cui all’art. 10, 4° co., l. 353 all'art. 20, lett. c), l. 47/1985, è evidentemente quoad poenam, cioè solo al fine di individuare la sanzione da applicare: ciò emerge dal fatto che la norma detta autonomamente ed in termini esaustivi il comportamento oggetto di sanzione, limitandosi a non indicare la pena per la quale appunto richiama altra ipotesi connotata da elementi di analogia sotto il profilo generale degli interessi pubblici ambientali tutelati; inoltre, la natura del rinvio emerge altresì dalla successiva indicazione autonoma delle sanzioni accessorie, non essendo sufficiente il mero richiamo all'art. 20 suddetto in quanto limitato ai limiti edittali di pena (T.A.R. Liguria, sez. I, 21.2.2003, n. 225, FATAR, 2003, 489).

La giurisprudenza ha precisato che la norma non può impedire la realizzazione di opere che fossero autorizzabili in base alla normativa vigente prima della data dell’incendio.

La disposizione, ex art. 9, 4° co., l. 10.3.1975, n. 47, che vieta l'edificazione sui soprassuoli boschivi interessati da incendi ed impedisce destinazioni diverse da quelle in atto prima dell'incendio stesso, mira ad impedire che l'area possa divenire edificabile per il sol fatto dell'evento incendiario, onde va interpretata nel senso che tale divieto non si può estendere agli interventi costruttivi che sarebbero stati consentiti prima di detto evento
(Cons. Stato sez. V, 15.7.1998, n. 1048, RGE, 1998, I, 1390).

La norma ha vigore a prescindere dalla presentazione della richiesta di edificare.
Essa può essere invocata nel caso in cui l’intervento sia consentito dalla normativa di piano precedentemente all’incendio (Caruso 2004, 139).

In considerazione del fine perseguito dall'art. 9, l. 28.2.1985, n. 47, il divieto di edificazione nei soprassuoli interessati da incendi non può essere esteso agli interventi che sarebbero stati consentiti anche in presenza del bosco
(Cons. Stato, sez. V, 25.5.1995, n. 832, GI, 1995, III, 1, 609).

Non acquista alcuna rilevanza l’entità del danno provocato perché il divieto resta in ogni caso in vigore.

Il divieto di costruzione o di diversa destinazione delle zone boschive distrutte o danneggiate dal fuoco, posto dall'art. 9, 4° co., l. 1.3.1975, n. 47, è applicabile anche quanto anteriormente all'insorgenza dell'incendio ed in epoca non sospetta siano in avanzato iter le pratiche per ottenere l'autorizzazione ad edificare o sia addirittura già intervenuta la licenza edilizia, poiché la lettera della norma non consente di attenuare l'incondizionato divieto di costruzione o di diversa destinazione e la sua ratio è quella di impedire l'utilizzazione del suolo resa possibile dall'intervenuto incendio
Il divieto di edificazione nelle zone boschive distrutte o danneggiate dal fuoco, posto dall'art. 9, 4° co., l. 1.3.1975, n. 47, opera anche quando il danno sia limitato e sia possibile la ricostituzione in tempi molto brevi della vegetazione danneggiata o distrutta
(Cons. Stato, sez. II, 12.7.1983, n. 339, CS, 1986, I, 1053).

Il divieto opera a prescindere dalla responsabilità, accertata o meno, del proprietario del fondo colpito dall’incendio.
Non ha acquista alcun rilievo il fatto che incendio sia spontaneo o doloso o che esso sia imputabile a soggetti estranei alla proprietà; il divieto rimane avendo rilevanza solo per il fatto che si è verificato l’evento.

L'art. 9, 4° co., l. 1.3.1975 n. 47 - il quale dispone che nelle zone boschive comprese nei piani per la difesa e conservazione del patrimonio boschivo i cui soprassuoli boschivi siano stati distrutti o danneggiati dal fuoco è vietato l'insediamento di costruzioni di qualsiasi tipo e non è possibile una destinazione diversa da quella in atto prima dell'incendio - tende a tutelare in ogni caso il patrimonio boschivo danneggiato o distrutto dal fuoco, senza distinguere fra le varie cause che abbiano potuto provocare l'incendio.
Il predetto divieto opera anche nel caso in cui sia stata accertata la mancanza di responsabilità del proprietario nella produzione dell'incendio
(Cons. Stato, sez. II, 12 luglio 1983, n. 339, CS, 1986, I, 1053).

La giurisprudenza non ha ritenuto, correttamente, il fatto ipotizzato dall'art. 9, l. 1 marzo 1975, n. 47, soggetto alla depenalizzazione, anche se punito con sola ammenda, in quanto la norma disciplina la materia urbanistica (Pret. Agropoli, 16.1.1988, GM, 1989, 440).





100. I vincoli aeronautici.

LEGISLAZIONE r.d. 30.3.1942, n. 327, artt. 714, 715 - l. 4.2.1963, n. 58, art. 1.

L’art. 714 del c.n., approvato con r.d. 30.3.1942, n. 327, dispone, in vicinanza degli aeroporti statali e di quelli privati aperti al traffico aereo civile, delle limitazioni per le costruzioni, le piantagioni arboree a fusto legnoso, gli impianti di linee elettriche, telegrafiche e telefoniche, le filovie, funivie e teleferiche, le antenne radio, gli impianti di elevazione, e in genere per qualsiasi opera che possa ugualmente costituire ostacolo alla navigazione aerea, sia nelle direzioni di atterraggio che nelle altre direzioni.
I limiti sono fissati con decreti del Ministero della difesa o dei trasporti per particolari tipi di aeroporti, attraverso un procedimento che si articola in due fasi: nella preventiva approvazione delle direzioni di atterraggio e in un successivo provvedimento di approvazione di mappe contenenti le zone sottoposte a vincolo.

L'art. 714 bis comma ultimo c. n. - il quale prescrive che le direzioni di atterraggio negli aeroporti sono determinate in base al sistema orografico e al regime dei venti nella zona - indica con precisione gli unici elementi che l'Amministrazione deve acquisire per pervenire ad una determinazione univoca, che deve essere quella derivante dai dati obiettivi previamente rilevati, sicché il provvedimento dell'Amministrazione col quale è determinata la direzione e la lunghezza delle piste ha carattere obbligatorio e non discrezionale
(T.A.R. Sicilia, sez. I, Palermo, 15.5.1998, n. 995, T.A.R., 1998, I, 2847).

L'art. 714 bis comma ultimo c. n. prescrive che le direzioni di atterraggio sono determinate in base al sistema orografico e al regime dei venti nella zona in cui l'aeroporto è localizzato, indicando, quindi, con precisione gli unici elementi che l'amministrazione deve acquisire.
Il provvedimento col quale è determinata la direzione e la lunghezza delle piste ha carattere obbligatorio e non discrezionale
(Cons. Stato, sez. IV, 23.1.1986, n. 42, RGA, 1986, 606).

L’art. 715, r.d. 30.3.1942, n. 327, mod. art. 1, l. 4.2.1963, n. 58, afferma il divieto di realizzare nuove costruzioni su terreni che si trovino a meno di trecento metri da impianti aeronautici.
Nelle direzioni di atterraggio degli aeroporti non possono sorgere manufatti che ostacolino le manovre di avvicinamento e il successivo atterraggio (Assini e Mantini 1997, 535).
Il sistema dei divieti è articolato a seconda delle dimensioni dell’aeroporto.

Salve le diverse limitazioni stabilite per gli aeroporti aperti al traffico strumentale e notturno, nelle direzioni di atterraggio non possono essere costituiti ostacoli a distanza inferiore ai trecento metri dal perimetro dell'aeroporto.
Nelle stesse direzioni, alla distanza di trecento metri dal perimetro dell'aeroporto non possono essere costituiti ostacoli che, rispetto al livello medio dei tratti di perimetro corrispondenti alle direzioni di atterraggio, superino l'altezza di:
1) metri dodici, se l'aeroporto ha lunghezza di atterraggio inferiore a metri milleottanta;
2) metri dieci, se l'aeroporto ha lunghezza di atterraggio pari o superiore ai metri milleottanta, ma inferiore a millecinquecento;
3) metri sette e cinquanta, se l'aeroporto ha lunghezza di atterraggio pari o superiore ai metri millecinquecento.
Più oltre, fino a tre chilometri dal perimetro dell'aeroporto, l'altezza indicata nel numero 1) del precedente comma può essere superata di un metro per ogni venticinque metri di distanza, e le altezze indicate nei numeri 2) e 3) possono essere superate, rispettivamente, di un metro per ogni trenta, o per ogni quaranta metri di distanza. Tali altezze non possono oltrepassare, in ogni caso, i quarantacinque metri sul livello medio dell'aeroporto.
Nelle altre direzioni e fino ai trecento metri dal perimetro dell'aeroporto non possono essere costituiti ostacoli che, rispetto al livello del corrispondente tratto del perimetro dell'aeroporto, superino l'altezza di un metro per ogni sette metri di distanza dal perimetro stesso.
Dopo il terzo chilometro, in tutte le direzioni, cessa ogni limitazione, per gli aeroporti indicati nel n. 1) del secondo comma; per gli altri, il limite di altezza di quarantacinque metri sul livello dell'aeroporto può essere superato di un metro per ogni venti metri di distanza, e cessa ogni limitazione dopo il quarto chilometro per gli aeroporti indicati nel n. 2) e dopo il quinto per quelli indicati nel n. 3)
(art. 715, r.d. 30.3.1942, n. 327, mod. art. 1, l. 4.2.1963, n. 58).

La giurisprudenza ha stabilito la legittimità del livello medio stabilito con d.m.

A norma dell'art. 715 c. n., nella fascia da 300 metri a tre chilometri dal perimetro di un aeroporto non possono essere costruiti, nelle direzioni di atterraggio, ostacoli di altezza superiore a 45 m. sul livello medio dell'aeroporto stesso, stabilito con d.m., ai sensi del precedente art. 714 bis.
Nella specie, per quanto concerne l'aeroporto di Bologna, il d.m. 11.8.1977 ha fissato il livello medio in metri 36, 2 s.l.m.
(T.A.R. Emilia Romagna Bologna, sez. I, 11.12.2002, n. 2026).

L’area soggetta a limitazioni deve essere, quindi, indicata in una mappa che delimita le zone colpite dai divieti, redatta da parte del Ministero della Difesa.
I due atti esplicano effetti diversi: l’indicazione delle direzioni di atterraggio è sostanzialmente ricognitivo di una zona.
Essa è soggetta ad una disciplina che ha le caratteristiche della generalità, pertanto, non imponendo alcun vincolo, non è soggetto ad impugnazione.

I decreti ministeriali che, ai sensi dell'art. 714 bis c. nav., determinano per ciascun aeroporto o campo di fortuna la direzione e la lunghezza delle piste di atterraggio, nonché il livello medio sia dell'aeroporto che dei tratti di perimetro corrispondenti alle direzioni di atterraggio, non costituiscono provvedimenti immediatamente e autonomamente impugnabili, in ragione del loro carattere prodromico rispetto ai successivi atti della procedura, cui spetta fissare in concreto i vincoli, le limitazioni e i divieti ai quali le zone che circondano gli aeroporti devono essere sottoposte ai fini della sicurezza del traffico aereo
(T.A.R. Sicilia, sez. I, Palermo, 15.5.1998, n. 995, T.A.R., 1998, I, 2847).

L’indicazione della zona soggetta a limitazioni è l’atto impositivo del vincolo; la mappa precisa più specificatamente i confini delle zone soggette a limitazioni (Fiale 1997, 277).

I vincoli alla proprietà privata, previsti dagli art. 715 e 715 bis c. nav., hanno, quale unico presupposto di operatività, l'operatività e l'esistenza di un aeroporto, per cui la compilazione dell'apposita mappa delle zone soggette a limitazioni da parte del Ministero della difesa presenta un valore meramente ricognitivo, essendo prevista per ragioni essenzialmente pratiche, giacché i detti vincoli derivano direttamente dalla legge
(T.A.R. Calabria, sez. Reggio Calabria, 14.11.1998, n. 1480, T.A.R., 1999, I, 355).

Tale localizzazione può essere soggetta ad opposizione da parte degli interessati.
Il Ministero della difesa decide sulle opposizioni con provvedimento motivato e dichiara successivamente esecutiva le mappa con le eventuali modificazioni portate a seguito dei rilievi presentati.
A tal punto la mappa può dirsi esecutiva, ex art. 715 quater, r.d. 30.3. 1942, n. 327.

I vincoli alla proprietà privata previsti dagli artt. 715 e 715 bis c. n. hanno quale unico presupposto di operatività l'esistenza di un aeroporto, per cui la compilazione dell'apposita mappa delle zone soggette a limitazioni da parte del Ministero della difesa di cui agli art. 715 ter e quater presenta un valore meramente ricognitivo, essendo stata prevista per ragioni essenzialmente pratiche, vale a dire per evitare che, soprattutto nelle zone di confine fra le varie fasce in cui si articola la zona di rispetto aeroportuale, si renda di volta in volta necessario eseguire accertamenti tecnici per stabilire la sussistenza e la misura del vincolo
(T.A.R. Sicilia, sez. I, Palermo, 15.5.1998, n. 995, T.A.R. 1998, I, 2847).


101. Il rilascio del permesso di costruire.

LEGISLAZIONE r.d. 30.3.1942, n. 327, artt. 715, 715 bis, 715, quinquies.

L'edificabilità delle aree in prossimità del perimetro degli aeroporti va rapportata alla diversa disciplina, dettata negli art. 715 e 715 bis del c.n., a seconda che i medesimi siano aperti - o meno - al traffico strumentale e notturno, o abbiano carattere militare.
Solo per la tipologia, cui è potenzialmente connessa una maggiore difficoltà operativa, l'art. 715 bis impone l'assenza di ostacoli "di qualunque altezza" nei primi trecento metri dal perimetro dell'aeroporto; per gli aeroporti - come quello di cui si discute - non a carattere militare e non aperti al traffico strumentale e notturno, l'art. 715 impone soltanto - nella medesima fascia - l'assenza di "ostacoli", senza alcun preciso riferimento a limiti di altezza.
La differenza terminologica - non certo casuale - non può che essere interpretata come imposizione di totale assenza di costruzioni o elementi strutturali di qualsiasi natura per gli aeroporti, di cui al citato art. 715 bis, mentre per gli altri - destinati ad operare prevalentemente in condizioni di "volo a vista" - sembra logico ritenere che gli "ostacoli", la cui presenza è vietata dall'art. 715, 1° co., siano costituiti da manufatti non omogenei rispetto al contesto territoriale - tenuto conto della linea altimetrica, determinata anche dall'edificazione già assentita - e quindi di intralcio per la navigazione aerea.

Per gli aeroporti - come nel caso di specie - non a carattere militare e non aperti al traffico strumentale e notturno, l'art. 715, c.n., impone soltanto, nella fascia nei primi trecento metri dal perimetro dell'aeroporto, l'assenza di "ostacoli" senza alcun preciso riferimento a limiti di altezza, con la conseguenza che risulta vietata solo la presenza di manufatti non omogenei rispetto al contesto territoriale, tenuto conto della linea altimetrica, determinata anche dall'edificazione già assentita.
Fattispecie relativa all’aeroporto di Rieti il cui p.r.g. non detta preclusioni assolute, in relazione alla fascia compresa nei trecento metri dal perimetro dell'aeroporto stesso
(T.A.R. Lazio, sez. II, 20.2.2002, n. 1226, FATAR, 2002, 546).

Il rilascio del permesso di costruire costituisce attività vincolata al rispetto della disciplina urbanistica, ma detta disciplina non può a sua volta prescindere da concrete verifiche, in ordine al reale stato dei luoghi ed alle possibili linee di sviluppo del territorio.
In nessun caso, pertanto, sarebbe giustificabile un diniego del tutto inidoneo a soddisfare la ratio delle norme, dettate a tutela della sicurezza dei voli (da confermarsi nella relazione degli esperti dell'ENAC e dell'ENAV), contrastante con la disciplina urbanistica della zona, dettata a livello di p.r.g. e totalmente incompatibile con la già avvenuta, irreversibile trasformazione del territorio, secondo linee di sviluppo pianificate dalla stessa Amministrazione Comunale.
Proprio in sede di pianificazione, d'altra parte, debbono essere definite modalità edificatorie compatibili con l'interesse primario per la sicurezza del volo, secondo la ratio applicativa del più volte citato art. 715 c. n.
Ove in sede di pianificazione il predetto interesse non sia stato in concreto garantito e la trasformazione dei luoghi risulti già in atto, appare evidente l'irragionevolezza - rispetto ai fini perseguiti - del sacrificio dello ius aedificandi di un singolo privato cittadino.
Il contrasto fra le disposizioni a garanzia della sicurezza dal volo non può essere legittimato dal rilascio di un permesso di costruire, che deve ritenersi illegittimo; esso può essere annullato in via di autotutela o su richiesta di chi ne abbia interesse dall’amministrazione comunale, salvi i ricorsi giurisdizionale.

E' illegittima una licenza edilizia che contrasti con le disposizioni a garanzia della sicurezza dal volo negli aeroporti dettate dall'art. 715-bis c. n., modificato dalla l. 4 febbraio 1963 n. 58.
L'interesse pubblico all'annullamento di una licenza edilizia che contrasti con le disposizioni di cui all'art. 715 c. nav., posta a garanzia della sicurezza del volo negli aeroporti è in re ipsa, nell'esigenza di tutelare tale sicurezza mediante l'eliminazione degli ostacoli che possano rendere pericolose le operazioni di atterraggio
(T.A.R. Lazio sez. II, 19.11.1980 n. 983, FA, 1091, I, 109).

Il potere ministeriale di abbattimento dei manufatti che possano costituire ostacolo al volo non è sindacabile nel merito.

Il fatto che gli edifici costruiti intorno al lotto del soggetto richiedente la concessione edilizia relativa ad un intervento di nuova costruzione di un fabbricato residenziale in zona limitrofa all'aeroporto militare, ivi compresi quelli più prossimi al cono di volo, non siano stati demoliti ai sensi dell'art. 715, quinquies c. n., non implica che tali costruzioni siano ritenute prive di pericolo per la navigazione, posto che è la legge che opera direttamente la presunzione di pericolosità e che non sussiste alcuna discrezionalità in ordine all'apprezzamento di tale elemento
(T.A.R. Veneto, sez. II, 27.7.2000, n. 1400, DT, 2001, 889).

Il permesso di costruire è soggetto al parere del competente ufficio del ministero dei trasporti.

L'operatività della concessione di costruzione rilasciata per l'edificazione in zona di rispetto aeroportuale è condizionata alla preventiva acquisizione del parere del competente ufficio del ministero dei trasporti, ai sensi degli art. 714 e ss. c. n.
(T.A.R. Lombardia, sez. Brescia, 16.7.1982 n. 219, T.A.R., 1982, I, 2813).



102. I vincoli stradali. La definizione del centro abitato.

LEGISLAZIONE: d.lg. 30.4.1992, n. 285, art. 2.

L’art. 2, d.lg. 30.4.1992, n. 285, che istituisce il nuovo codice della strada, definisce strade le aree ad uso pubblico destinate alla circolazione dei pedoni, dei veicoli e degli animali e le classifica, con riguardo alle loro caratteristiche costruttive, tecniche e funzionali, nei seguenti tipi:
A - Autostrade;
B - Strade extraurbane principali;
C - Strade extraurbane secondarie;
D - Strade urbane di scorrimento;
E - Strade urbane di quartiere;
F - Strade locali.
Il successivo regolamento fissa le fasce di rispetto da tenere facendo riferimento alle classificazioni delle strade sopra indicate.
Esso integra le disposizioni in tema di distanze stradali contenute dal d.m. 1.4.1968.
La dottrina considera questo secondo provvedimento legislativo come completamento e ulteriore specificazione del primo.
Le nuove prescrizioni portate dal codice della strada vanno riferite alla diversa funzione di questo secondo provvedimento.
Il regolamento ha il fine di rapportare la disciplina della distanza minima a protezione del nastro stradale con la programmazione urbanistica.
Il codice della strada ha, invece, la finalità più ampia di perseguire lo scopo della migliore circolazione dei pedoni, dei veicoli e degli animali sulle strade, perciò le distanze di rispetto stradale prescritte per le costruzioni devono essere viste sotto l’aspetto della più sicura fruizione delle strade (Assini e Mantini 1997, 525).
La dottrina rileva come i limiti e le prescrizioni imposte ai proprietari confinanti siano posti a tutela dell’integrità del bene strada e della sicurezza della circolazione (Ragazzino 1993, 8. Narducci 2004, 2954).
La determinazione dei vincoli stradali dipende dal fatto che le vie di comunicazione siano collocate dentro o fuori del, centro abitato.
Secondo l’interpretazione giurisprudenziale prevalente la perimetrazione del centro edificato, disposta ai sensi dell'art. 16, l. n. 865 del 1971, è vincolante anche per le distanze minime delle costruzioni a protezione del nastro stradale, come stabilito dall'art. 1 del regolamento ministeriale del 1.4.1968, emanato ai sensi dell'art. 19, l. 6.8.1967, n. 765.
La giurisprudenza amministrativa ha precisato che la possibilità di far riferimento alla nozione di centro abitato di fatto, al fine di escludere l'operatività del divieto di costruzione lungo le strade, è subordinata al fatto che l'insediamento urbano preso in considerazione sia privo di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione.

La possibilità di far riferimento alla nozione di centro abitato di fatto, al fine di escludere l'operatività del divieto di costruzione lungo le strade, di cui all'art. 26 del regolamento di esecuzione del codice della strada di cui al d.p.r. 16.12.1992, n. 495, è subordinata al fatto che l'insediamento urbano preso in considerazione sia privo di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione
(T.A.R. Abruzzo Pescara, 23.1.2003, n. 192, FATAR, 2003, 210. Cons. giust. amm. Reg. Sic., 30.3.1995, n. 109).

Essa ha, inoltre, precisato che la deliberazione di perimetrazione del centro abitato ha natura e portata di strumento urbanistico, con forza normativa secondaria e rilevanza esterna, e non può, pertanto, essere desunta da una mera situazione di fatto (Cons. St., IV, 7.3.1997, n. 211).
E’ stato anche chiarito che è irrilevante lo spostamento dei cartelli segnaletici di delimitazione di un centro abitato, che sia stato effettuato di fatto, oppure in seguito a meri verbali di organi del comune, e non in base a formali delibere degli organi competenti, giacché la determinazione dei confini di un centro abitato può avvenire solo seguendo il prescritto procedimento amministrativo (T.A.R. Emilia Romagna, 23.1.1986, n. 16).
La giurisprudenza ha precisato che la distanza minima, da calcolare sulla base della definizione del ciglio della strada, ai sensi dell'art. 2 del regolamento d.m. 1.4.1968, ora sost. col d.p.r. 16.12.1992, n. 495, va integrata con una distanza variabile e da accertare mi concreto, intercorrente tra il ciglio della strada e la larghezza della protezione di eventuali scarpate o fossi.
La sua ratio, oltre quella di consentire l'eventuale ampliamento, è quella di tenere in considerazione il particolare stato dei luoghi e la concreta pericolosità della strada statale (Cons. St., sez. V, 7.6.1999, n. 596, CI, 2000, 110).


103. Le distanze dalle strade.

LEGISLAZIONE: d.p.r. 16.12.1992, n. 495, artt. 26, 28 - d.p.r. 26.4.1993, n. 147, art. 1, lett. c) - d.p.r. 16.9.1996, n. 610, art. 24.

Il regolamento di attuazione, approvato con d.p.r. 16.12.1992, n. 495, all’art. 26, determina le fasce di rispetto da tenere fuori dai centri abitati (Tamborrino e Cialdini 1994, 310).

1. La distanza dal confine stradale, fuori dai centri abitati, da rispettare nell'aprire canali, fossi o nell'eseguire qualsiasi escavazione lateralmente alle strade, non può essere inferiore alla profondità dei canali, fossi od escavazioni, ed in ogni caso non può essere inferiore a 3 m.
2. Fuori dai centri abitati, come delimitati ai sensi dell'art. 4 del codice, le distanze dal confine stradale, da rispettare nelle nuove costruzioni, nelle ricostruzioni conseguenti a demolizioni integrali o negli ampliamenti fronteggianti le strade, non possono essere inferiori a:
a) 60 m per le strade di tipo A;
b) 40 m per le strade di tipo B;
c) 30 m per le strade di tipo C;
d) 20 m per le strade di tipo F, ad eccezione delle "strade vicinali" come definite dall'art. 3, comma 1, n. 52 del codice;
e) 10 m per le "strade vicinali" di tipo F.
3. Fuori dai centri abitati, come delimitati ai sensi dell'art. 4 del codice, ma all'interno delle zone previste come edificabili o trasformabili dallo strumento urbanistico generale, nel caso che detto strumento sia suscettibile di attuazione diretta, ovvero se per tali zone siano già esecutivi gli strumenti urbanistici attuativi, le distanze dal confine stradale, da rispettare nelle nuove costruzioni, nelle ricostruzioni conseguenti a demolizioni integrali o negli ampliamenti fronteggianti le strade, non possono essere inferiori a:
a) 30 m per le strade di tipo A;
b) 20 m per le strade di tipo B;
c) 10 m per le strade di tipo C.
4. Le distanze dal confine stradale, fuori dai centri abitati, da rispettare nella costruzione o ricostruzione di muri di cinta, di qualsiasi natura e consistenza, lateralmente alle strade, non possono essere inferiori a:
a) 5 m per le strade di tipo A, B;
b) 3 m per le strade di tipo C, F.
5. Per le strade di tipo F, nel caso di cui al comma 3, non sono stabilite distanze minime dal confine stradale, ai fini della sicurezza della circolazione, sia per le nuove costruzioni, le ricostruzioni conseguenti a demolizioni integrali e gli ampliamenti fronteggianti le case, che per la costruzione o ricostruzione di muri di cinta di qualsiasi materia e consistenza. Non sono parimenti stabilite distanze minime dalle strade di quartiere dei nuovi insediamenti edilizi previsti o in corso di realizzazione.
6. La distanza dal confine stradale, fuori dai centri abitati, da rispettare per impiantare alberi lateralmente alla strada, non può essere inferiore alla massima altezza raggiungibile per ciascun tipo di essenza a completamento del ciclo vegetativo e comunque non inferiore a 6 m.
7. La distanza dal confine stradale, fuori dai centri abitati, da rispettare per impiantare lateralmente alle strade siepi vive, anche a carattere stagionale, tenute ad altezza non superiore ad 1 m sul terreno non può essere inferiore a 1 m. Tale distanza si applica anche per le recinzioni non superiori ad 1 m costituite da siepi morte in legno, reti metalliche, fili spinati e materiali similari, sostenute da paletti infissi direttamente nel terreno o in cordoli emergenti non oltre 30 cm dal suolo.
8. La distanza dal confine stradale, fuori dai centri abitati, da rispettare per impiantare lateralmente alle strade, siepi vive o piantagioni di altezza superiore ad 1 m sul terreno, non può essere inferiore a 3 m. Tale distanza si applica anche per le recinzioni di altezza superiore ad 1 m sul terreno costituite come previsto al comma 7, e per quelle di altezza inferiore ad 1 m sul terreno se impiantate su cordoli emergenti oltre 30 cm dal suolo.
9. Le prescrizioni contenute nei commi 1 ed 8 non si applicano alle opere e colture preesistenti
(art. 26, d.p.r. 16.12.1992, n. 495, mod. art. 24, d.p.r. 16.9.1996, n. 610).

Limiti meno restrittivi sono imposti per le aree situate fuori dai centri abitati, ma all’interno delle aree che il piano urbanistico definisce come edificabili dall’art. 28, d.p.r. 16.12.1992, n. 495, rispetto a quelli fissati in carenza di piani urbanistici (Tamborrino e Cialdini 1994, 314).
Per le strade locali e per quelle vicinali, infatti, non sono stabilite distanze minime dal confine stradale che sono determinate dalle stesso strumento urbanistico (Fiale 1997, 280).

1. Le distanze dal confine stradale all'interno dei centri abitati, da rispettare nelle nuove costruzioni, nelle demolizioni integrali e conseguenti ricostruzioni o negli ampliamenti fronteggianti le strade, non possono essere inferiori a:
a) 30 m per le strade di tipo A;
b) 20 m per le strade di tipo D.
2. Per le strade di tipo E ed F, nei casi di cui al comma 1, non sono stabilite distanze minime dal confine stradale ai fini della sicurezza della circolazione.
3. In assenza di strumento urbanistico vigente, le distanze dal confine stradale da rispettare nei centri abitati non possono essere inferiori a:
a) 30 m per le strade di tipo A;
b) 20 m per le strade di tipo D ed E;
c) 10 m per le strade di tipo F.
4. Le distanze dal confine stradale, all'interno dei centri abitati, da rispettare nella costruzione o ricostruzione dei muri di cinta, di qualsiasi natura o consistenza, lateralmente alle strade, non possono essere inferiori a:
a) m 3 per le strade di tipo A;
b) m 2 per le strade di tipo D.
5. Per le altre strade, nei casi di cui al comma 4, non sono stabilite, distanze minime dal confine stradale ai fini della sicurezza della circolazione.”
(art. 28, d.p.r. 16.12.1992, n. 495, mod. art. 1, lett. c), d.p.r. 26.4.1993, n. 147).

L’ente gestore può acquisire bonariamente o con procedura espropriativa gli immobili siti nelle aree di rispetto.
La giurisprudenza ha stabilito che il potere regolamentare spetta allo Stato e non può essere demandato ai comuni.

La disciplina regolamentare della circolazione stradale, ai fini della snellezza della sicurezza e del traffico spetta allo Stato; pertanto, il regolamento di attuazione degli art. 26 e 29 del codice della strada approvato con d.lg. 30.4.1992, n. 285, relativo alla disciplina della fasce di rispetto fuori e dentro l'abitato, non può trasferire, sia pure in parte, la potestà normativa in materia, ai comuni in sede di regolamentazione urbanistica.
Il codice della strada prevede distanze di rispetto fuori e dentro il centro abitato e non consente quindi, al regolamento di attuazione di introdurre la categoria delle strade fuori del centro abitato, che si trovino in zone previste come edificabili o trasformabili dallo strumento urbanistico; pertanto, il regolamento, con interpretazione estensiva della legge, può solo prevedere, l'applicazione delle norme sui centri abitati alle zone di espansione previste da strumenti urbanistici attuativi, già approvati ed esecutivi, che ragionevolmente possono essere considerati centri abitati "in fieri" salva la deroga, per quel che attiene alle norme sulla velocità di circolazione, che andranno estese alle dette zone, quando saranno in esse realizzate le costruzioni
(Cons. St., A. G., 15.4.1993, n. 35, CS, 1993, I, 1541).

Le norme hanno valore di norme quadro: esse non possono essere derogate dalla legislazione regionale né tanto meno possono costituire oggetto di concessione in deroga, ora permesso di costruire.
E' illegittima la deliberazione con la quale la giunta concede il nulla - osta per il rilascio, da parte del comune di Isernia, di una concessione edilizia in deroga, per la costruzione in zona agricola di un edificio da adibire a rimessa di autobus, stante il parere negativo della USL e il mancato rispetto della distanza minima di metri 30, fuori da centri abitati, prevista dal regolamento del nuovo codice della strada
(Corte Conti, Molise, sez. contr., 12.5.1995, n. 152, RCC, 1995, 104).

La giurisprudenza riconosce un interesse al procedimento di demolizione anche all’ANAS che ha tipo per partecipare ad adiuvandum nel procedimento medesimo.
Sotto il profilo processuale detto dente è considerato controinteressato.

L'azienda nazionale autonoma della strada (A.N.A.S.), pur non avendo personalità giuridica, ha una propria autonomia funzionale e finanziaria nell'ambito dell'amministrazione dei lavori pubblici, sicché nel caso in cui essa si presenti come controinteressata rispetto ad un ricorso giurisdizionale il ricorso stesso deve esserle ritualmente notificato.
Nella specie si tratta di ricorso contro provvedimento prefettizio che ordina la demolizione di opera edilizia a distanza irregolare dal tracciato di una strada statale
(Cons. giust. amm. Sicilia, 12.8.1985, n. 112, CS, 1985, I, 1002).




104. Le distanze per gli edifici preesistenti.

LEGISLAZIONE: l. 6.8.1967, n. 765, art. 19.

Il rispetto della nuova disciplina delle distanze è imposto oltre che per i nuovi edifici per le ricostruzioni a seguito di demolizioni.
Nel caso di demolizione totale si deve, quindi, rispettare la nuova disciplina delle distanze anche se essa ha ad oggetto la successiva ricostruzione dell’immobile nelle precedenti volumetrie (Mengoli 2003, 548).
La dottrina rileva come la norma abbia valore urbanistico e non possa essere derogata dalla normativa di piano o dal rilascio del permesso di costruzione in deroga.

E' illegittima la deliberazione con la quale la giunta concede il nulla - osta per il rilascio, da parte di un comune (nella specie, Isernia), di una concessione edilizia in deroga, per la costruzione in zona agricola di un edificio da adibire a rimessa di autobus, stante il parere negativo della Usl e il mancato rispetto della distanza minima di metri 30, fuori da centri abitati, prevista dal regolamento del nuovo codice della strada
(Corte Conti reg. Molise, sez. contr., 12.5.1995, n. 152, RCC, 1995, fasc. 6, 104).

Le disposizioni in materia di distanze non hanno valore retroattivo per cui esse non possono avere alcun effetto per gi edifici preesistenti.
Le opere qualificabili come opere di manutenzione straordinaria non sono soggette alla disciplina delle distanze minime a protezione del manto stradale (Fiale 1997).

Le disposizioni in tema di distanze legali delle costruzioni dal ciglio stradale di cui all'art. 19, l. 6.8.1967, n. 765, sono riferite alle sole opere dirette a realizzare una unità immobiliare in tutto o in parte nuova, o comunque, diversa dalla precedente e non già agli interventi di rifacimento, volti a conservare all'organismo edilizio gli elementi tipologici formali e strutturali
(Cons. St., sez. IV, 23.12.2002, n. 7275, FACDS, 2002, 3148).



105. I vincoli autostradali.

LEGISLAZIONE l. urb., art. 41 septies - l. 24.7.1961, n. 729, art. 9 - d.m. 1.4.1968 - l. 6.8.1967, n. 765, art. 19.

Il vincolo di inedificabilità imposto dall'art. 9, l. 24.7.1961, n. 729, lungo la fascia di rispetto autostradale, è rivolto a impedire che la presenza di costruzioni in tale fascia costituisca un pericolo per la sicurezza del traffico veicolare e l'incolumità delle persone, ed è inoltre diretto a garantire la disponibilità di un'area utilizzabile, all'occorrenza, dal concessionario autostradale, per l'esecuzione di lavori, per l'impianto di cantieri, per il deposito di materiali e la realizzazione di opere accessorie (T.A.R. Veneto, sez. II, 24.12.2002, n. 6733).
I limiti di edificabilità nella costruzione di autostrade, secondo la interpretazione giurisprudenziale prevalente, devono essere rispettati sia all’interno sia all’esterno dei centri abitati (Narducci 2004, 2955).

La norma contenuta nell'art. 9, l. 24.7.1961, n. 729, che ha introdotto il divieto di edificazione lungo i tracciati delle autostrade, non prevede alcuna distinzione tra costruzioni nell'ambito dei centri abitati ovvero all'esterno dei medesimi, per questo si deve concludere che le distanze minime previste dall'art. 9 cit., sono inderogabili anche rispetto alle autostrade correnti entro i perimetri urbani, a prescindere dalle mere prescrizioni restrittive previste dall'art. 19, l. 6.8.1967 n. 765, operanti al di fuori del centro abitato
(T.A.R. Abruzzo, sez. L'Aquila, 10.5.1996, n. 128, FA, 1996, 3453).

In tema di distacchi delle costruzioni dalle opere autostradali, l'art. 9 della l. 24.7.1961, n. 729, il quale fissa la distanza minima di venticinque metri, senza alcuna distinzione fra costruzioni nell'ambito dei centri abitati ovvero all'esterno dei medesimi, resta applicabile alle autostrade all'interno dei perimetri urbani anche dopo l'entrata in vigore dell'art. 19, l. 6.8.1969, n. 765, che, nel demandare la regolamentazione di tali distanze al ministro per i lavori pubblici, fa esclusivo riferimento alle costruzioni fuori dei centri abitati
(Cass. civ., sez. II, 1.6.1995, n. 6118, GC, 1995, I, 2682).

Le opere realizzate all'interno della fascia di rispetto autostradale prevista al di fuori del perimetro del centro abitato - fascia di sessanta metri - sono ubicate in aree assolutamente inedificabili e, pertanto, se costruite dopo l'imposizione del vincolo, rientrano nella previsione di cui all'art. 33, 1° co., lett. d) della l. 28.2.1985, n. 47 e non sono suscettibili di sanatoria.
Tale vincolo di inedificabilità è configurato come assoluto nel caso di autostrade per le aree situate al di fuori del centro abitato, perché - ai sensi del d.m. 1.4.1968 - è esclusa ogni possibilità di deroga alla distanza minima, fissata in sessanta metri.
La fascia di rispetto è, invece, ridotta a venticinque metri all'interno del perimetro del centro abitato ed è derogabile a mente dell'articolo 9, 1° co., l. 24.7.1961, n. 729

Il divieto di costruire ad una certa distanza dalla sede autostradale, posto dall'art. 9, l. 24 .7.1961, n. 729, e dal successivo d.m. 1.4.1968, non deve essere inteso restrittivamente e cioè come previsto al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli materiali emergenti dal suolo e suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico ed alla sua incolumità delle persone, ma è connesso alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all'occorrenza, dal concessionario, per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza vincoli limitativi connessi con la presenza di costruzioni.
Pertanto le distanze previste dalla norma suddetta vanno rispettate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni, o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti
(Cons. St., sez. IV, 18.10.2002, n. 5716, FACDS, 2002, 2368).

In tal senso si è espressa la giurisprudenza della Corte di cassazione per cui non è suscettibile di sanatoria, ai sensi della citata legge n. 47 del 1985, la sopraelevazione di edificio che disti dal ciglio dell'autostrada, all'esterno dei centri abitati, meno di quanto previsto dal d. m. 1.4. 1968, se la sopraelevazione è stata realizzata dopo l'imposizione del vincolo autostradale; essa esclude la natura edificatoria del terreno rientrante nella fascia di rispetto (Cass. civ., 26.1.2000, n. 841).
Anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato qualifica come inedificabile l'area compresa nella predetta fascia di rispetto (Cons. St., sez. V, 8.9.1994, n. 968).
Le distanze previste dalla norma suddetta vanno rispettate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti (Cass. civ., sez. II, 1.6.1995, n. 6118. Cass. civ., sez. II, 14.1.1987, n. 193).
La giurisprudenza sottolinea che i vincoli imposti dalla realizzazione di autostrade, come tutti i vincoli di rispetto stradale non sono dovuti indennizzi essendo norme generali di conformazione della proprietà privata.

In tema di espropriazione, l'inedificabilità dei terreni prospicienti i tracciati autostradali non è legittimamente indennizzabile tutte le volte in cui il relativo vincolo risulti conseguenza della collocazione dei terreni stessi nell'ambito della distanza dal ciglio autostradale previsto dalle disposizioni di legge di cui agli art. 41 della legge urbanistica del 1942 - come modificato dall'art. 19 della l. 765 del 1967, dal d.m. 1.4.1968, nonché dall'art. 9 della l. 729 del 1961 - che fissano fasce di inedificabilità senza indennizzo di varia misura dalle strade ed autostrade), e dal conseguente vincolo assoluto imposto da detta normativa, e non già dalle previsioni dei PRG in vigore nella zona, ovvero delle relative e successive varianti
(Cass. civ., sez. I, 17.1.2001, n. 556, UA, 2001, 404).

Poiché il sistema indennitario creato dall'art. 5 bis l. 8.8.1992, n. 359, distingue rigorosamente aree edificabili ed aree agricole, alle quali sono rispettivamente applicabili i criteri di cui al comma 1 della stessa disposizione, e al titolo II della l. 865 del 1971, l'eventuale (limitata) edificabilità dei suoli agricoli è del tutto irrilevante ai fini indennitari, posto che i criteri di liquidazione sono impostati esclusivamente sul parametro del valore agricolo in rapporto alle colture praticate.
Tale principio, cui va riconosciuto carattere generale, è applicabile in qualsiasi ambito indennitario connesso all'espropriazione, anche agli effetti dell'art. 46, l. n. 2359 del 1865, ove si lamenti il deprezzamento di fondi agricoli a causa della realizzazione di un'autostrada, in quanto la fascia di rispetto non preclude la coltivazione del suolo interessato, e quindi l'utilizzazione conforme alla sua natura
(Cass. civ., sez. I, 14.5.1998, n. 4848, GCM, 1998, 1027).

Le norme in materia di distanze dalle autostrade non possono essere derogate dalle normative urbanistiche regionali e nemmeno dalle norme di attuazione dei piani regolatori comunali (Fiale 1997, 280).

Le distanze delle costruzioni dalle strade ed autostrade, prescritte dall'art. 41 septer, l. 17.8.1942, n. 1150, e dal d.m. 1.4.1968, n. 1404, a tutela della sicurezza della circolazione e delle future esigenze di modifica ed ampliamento della rete stradale, non possono essere derogate dalla legislazione regionale, sia per il diverso grado gerarchico di tale fonte, sia per la diversità degli interessi pubblici perseguiti, che, nel caso della regione, è l'interesse all'ordinato assetto urbanistico del territorio; pertanto, laddove norme di legge regionali consentono costruzioni o ampliamenti di costruzione in zone sottoposte a vincolo stradale, esse possono trovare concreta attuazione solo laddove le norme statali o singoli provvedimenti della competente amministrazione statale, consentano deroghe ai limiti di distanze vigenti.
Le eventuali norme di piano regolatore che disciplinano le edificazioni in tali fasce vanno intese non come una inammissibile deroga alla normativa statuale, ma come una previsione a rilevanza meramente urbanistica, che può trovare concreta attuazione solo laddove le norme statali o singoli provvedimenti della competente amministrazione statale consentano deroghe ai limiti di distanza vigenti
(Cons. Stato, sez. IV, 2.11.1993, n. 958, RAm, 1994, 156).

La giurisprudenza ritiene che la normativa regionale operi su di un piano parallelo e che, pertanto, essa coesiste con la normativa statale per cui l’operatore deve rispettare entrambe le normative per non incorrere nel diniego di permesso di costruire o per non vedersi annullato il provvedimento già rilasciato.

I limiti di distanza delle costruzioni dalle strade, imposte da leggi statali speciali di tutela della rete stradale demaniale, non hanno nulla a che vedere con la competenza primaria ed esclusiva in materia urbanistica della Provincia Autonoma di Bolzano.
Le norme urbanistiche possono prevedere pur esse distanze minime delle costruzioni dalle strade per finalità di tutela dell'abitato e degli abitanti dai pericoli derivanti dalla circolazione dei veicoli; la normativa speciale statale, invece, attiene alla tutela sia dell'interesse alla sicurezza della circolazione stradale e all'incolumità delle persone, sia all'interesse a disporre di riserva di spazio utilizzabile, all'occorrenza, per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito dei materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza vincoli limitativi connessi con la presenza di costruzioni.
Le due normative operano, quindi, entrambe in modo concorrente, senza alcun criterio di prevalenza o di priorità di competenza legislativa, perché poste ciascuna nel proprio ambito con scopi diversi.
Nella fattispecie, è applicabile l'art. 9, 1° co., della l. 24.7.1961, n. 729, risultando, così, illegittimi sia la concessione edilizia relativa ad impianti pubblici, a distanza inferiore dal nastro stradale da quella fissata dalla legge, da adibire a campo sosta nomadi, sia gli atti facenti parte della procedura di espropriazione finalizzati all'acquisizione dell'area occorrente per la realizzazione dell'intervento edilizio illegittimo
(T.A.R. Trentino Alto Adige Bolzano, 28.3.2003, n. 107).



106. I vincoli ferroviari.

LEGISLAZIONE: l. 20.3.1865, n. 2248, all. f), art. 233 – d.p.r. 11.7.1980, n. 753, artt. 49, 50, 52, 60, 63, 2° co. - d.p.r. 24.7.1977, n. 616, art. 81.

I vincoli da rispettare lungo le linee ferroviarie, introdotti dall'art. 233, l. 20.3.1865, n. 2248, all. f), successivamente modificati con l'art. 49, d.p.r. 11.7.1980, n. 753, impongono per ragioni di sicurezza di tenere una certa distanza nell’eseguire delle costruzioni, qualora le stesse confinino con le linee ferroviarie (Assini e Mantini 1997, 533).

Lungo i tracciati delle linee ferroviarie è vietato costruire, ricostruire o ampliare edifici o manufatti di qualsiasi specie ad una distanza, da misurarsi in proiezione orizzontale, minore di metri trenta dal limite della zona di occupazione della più vicina rotaia.
La norma di cui al comma precedente si applica solo alle ferrovie con esclusione degli altri servizi di pubblico trasporto assimilabili ai sensi del terzo comma dell'art. 1
(art. 49, d.p.r. 11.7.1980, n. 753).

Lungo i tracciati delle ferrovie è vietato, dall'art. 52, d.p.r. 11 luglio 1980, n. 753, far crescere piante o siepi ed erigere muriccioli di cinta, steccati o recinzioni in genere ad una distanza inferiore a metri sei dalla più vicina rotaia.

Determinano l'applicazione della sanzione comminata dall’art. 63, 2° co., d.p.r. 11.7.1980, n. 753 non solo l'erezione di un manufatto del tutto nuovo, ma anche la sostituzione di un manufatto esistente con altro avente caratteristiche costruttive tali da rientrare in una diversa categoria tra quelle indicate nell'esemplificativa elencazione della citata norma precettiva o da aggravare, comunque, la limitazione di visuale.
Nella specie, una recinzione, costituita da muratura e ringhiera, era stata impiantata sul posto occupato da una vecchia rete
(Cass. civ., sez. I, 25.9.1996, n. 8452, GBLG, 1997, 4070).

Il divieto decorre dal momento della comunicazione del progetto di massima ai comuni competenti, ex art. 50, d.p.r. 11.7.1980, n. 753.

Il divieto di cui al precedente art. 49 decorre dall'entrata in vigore delle presenti norme, per le linee ferroviarie esistenti e per quelle il cui progetto sia stato già approvato, e dalla data di pubblicazione sul Foglio degli annunzi legali delle singole prefetture competenti per territorio dell'avviso dell'avvenuta approvazione, per le ferrovie il cui progetto sia approvato successivamente all'entrata in vigore delle norme stesse, e si applica a tutti gli edifici e manufatti i cui progetti non siano stati approvati in via definitiva dai competenti organi alle date suddette.
I comuni non possono comunque rilasciare concessioni di costruzione entro la fascia di rispetto di cui al precedente art. 49 dal momento della comunicazione agli stessi dei progetti di massima relativi alla costruzione di nuove linee ferroviarie, quando detti progetti, a norma dell'art. 81 del d.p.r. 24 luglio 1977, n. 616, non siano difformi dalle prescrizioni e dai vincoli delle norme o dei piani urbanistici ed edilizi
(art. 50, d.p.r. 11.7.1980, n. 753).

Una interpretazione riduttiva è fornita dalla giurisprudenza nel caso in cui i manufatti da realizzare confinanti con le opere ferroviarie abbiano carattere pubblico, poiché in tal caso è compito degli enti interessati trovare soluzioni che, in relazione alla utilità delle opere, sappiano conciliarle con le esigenze della sicurezza.

La distanza minima di 30 metri che deve intercorrere fra le costruzioni e le linee ferroviarie non riguarda le opere pubbliche, come risulta dal precedente art. 36, ma soltanto le costruzioni private, dovendosi ritenere che, in caso di accostamento o sovrappasso fra strade pubbliche e ferrovie, la verifica di reciproca compatibilità sia rimessa all'accordo fra le autorità competenti
(T.A.R. Lazio, sez. I, 29.10.1984, n. 977, T.A.R., 1984, 3279).

Con l'art. 49, d.p.r. 11.7.1980, n. 753 il legislatore ha perseguito il fine di ampliare adeguatamente le cosiddette fasce di rispetto laterali lungo i tracciati delle linee ferroviarie, già previste dall'art. 233, l. 20.4.1865, n. 2248, all. f), senza peraltro comprendere nella nuova prescrizione normativa le distanze verticali relative ai piani di appoggio delle costruzioni insistenti sulle aree poste al di sopra delle strade ferrate e, quindi, sulle gallerie sottostanti i beni immobili appartenenti a terzi.
Si deve, tuttora, per quanto riguarda tali costruzioni, avere riguardo alle condizioni stabilite nel provvedimento prefettizio di asservimento del sottosuolo (T.A.R. Sicilia, sez. Catania, 30.9.1985, n. 1158, T.A.R., 1985, 3917).
Spetta allo Stato stabilire la disciplina delle distanze da osservare nelle costruzioni lungo le linee ferroviarie.
La materia della sicurezza ferroviaria, regolata in modo esclusivo dal d.p.r. n. 753 del 1980, non può considerarsi di competenza della regione, ma rientra, invece, fra le attribuzioni statali, trattandosi di materia relativa alla polizia amministrativa, alla sicurezza ed alla regolarità dell'esercizio ferroviario.

Va, conseguentemente, respinto il ricorso per conflitto di attribuzione sorto fra l'azienda autonoma delle ferrovie dello Stato e la provincia di Bolzano.
La provincia di Bolzano rivendica la propria competenza a stabilire tali distanze. La determinazione delle distanze minime che devono intercorrere fra gli impianti ferroviari e le costruzioni, civili o pubbliche, laterali alla sede ferroviaria, non può rientrare nella materia urbanistica e piani regolatori, che gli artt. 8 n. 5 e 16 st. T.A.A. attribuiscono alla competenza legislativa esclusiva e alla funzione amministrativa della provincia di Bolzano, rientrando nella materia della polizia amministrativa relativa alla sicurezza ed alla regolarità dell'esercizio ferroviario e non all'urbanistica, con cui peraltro inevitabilmente interferisce, e come tale spettando allo Stato quale submateria che accede alle materie cui si riferisce l'attività di prevenzione o di repressione da essa comportata
(Corte cost., 27.10.1988, n. 999, RGE, 1989, 17).



107. I limiti nell’applicazione del vincolo.

LEGISLAZIONE: d.p.r. 11.7.1980, n. 753, artt. 49, 60.

La giurisprudenza ha precisato i limiti di applicabilità delle norme confermando che esse non sono applicabili ai tratti in cui la linea ferroviaria non corre all’aperto (Assini e Mantini 1997, 534).
In tal caso le norme non trovano applicazione in quanto la linea ferroviaria, per il tratto in questione, non può considerarsi confinante con le proprietà laterali.

Le disposizioni in materia di distanze legali dalla sede ferroviaria dettate dalla l. 12.11.1968, n. 1202, che ha modificato l'art. 235, l. 20.3.1865 n. 2248, all. F e l'art. 12, t.u. approvato con r.d. 9.5.1912, n. 1447, concernono esclusivamente le proprietà laterali alle strade ferrate, allo scopo di rendere libera la visuale per la sicurezza della circolazione ferroviaria. Nel caso in cui la strada ferrata corra in galleria, non è ipotizzabile l'operatività della normativa giacché i fondi sovrastanti al manufatto ferroviario non possono essere considerati laterali e non sussiste l'esigenza di assicurare un'ampia visuale, la quale è preclusa in radice della stessa struttura della galleria
(Cass. civ., sez. II, 28.8.1993, n. 9135, RGE, 1995, I, 158).

L’art. 60, d.p.r. 11.7.1980, n. 753, consente una riduzione del limite delle distanze previa autorizzazione.
Il provvedimento di autorizzazione è totalmente discrezionale, salvo la facoltà per l’autorità concedente di specificare i motivi che hanno portato a concedere o negare l’autorizzazione.

Quando la sicurezza pubblica, la conservazione delle ferrovie, la natura dei terreni e le particolari circostanze locali lo consentano, possono essere autorizzate dagli uffici lavori compartimentali delle F.S., per le ferrovie dello Stato, e dai competenti uffici della M.-.T.-., per le ferrovie in concessione, riduzioni alle distanze prescritte dagli articoli dal 49 al 56.
I competenti uffici della M.-.T.-., prima di autorizzare le richieste riduzioni delle distanze legali prescritte, danno, mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento, comunicazione alle aziende interessate delle richieste pervenute, assegnando loro un termine perentorio di giorni trenta per la presentazione di eventuali osservazioni.
Trascorso tale termine, i predetti uffici possono autorizzare le riduzioni richieste
(art. 60, d.p.r. 11.7.1980, n. 753).

La giurisprudenza ha ravvisato i tali vincoli di inedificabilità sono da considerarsi di carattere generale; essi concretano un modo d'essere della proprietà immobiliare e, in quanto investono una pluralità indifferenziata di proprietà - in funzione delle caratteristiche del bene o del rapporto, di norma spaziale, con un'opera o un bene pubblico.
Essi sono considerati conformativi e non suscettibili d'indennizzo.
La giurisprudenza ha affermato che il vincolo di rispetto ferroviario in quanto derogabile ma non derogato, esclude la possibilità legale di edificazione.
Solo se la deroga è stata ritualmente approvata vi è la possibilità di esigere un indennizzo rapportato al valore venale del bene.
Il valore, in tal caso, è pari a quello riconosciuto dalla possibilità di costruire dichiarata dal provvedimento amministrativo di deroga.

I vincoli di inedificabilità generali concretano un modo d'essere della proprietà immobiliare e, in quanto investono una pluralità indifferenziata di proprietà (in funzione delle caratteristiche del bene o del rapporto, di norma spaziale, con un'opera o un bene pubblico) sono considerati conformativi e non suscettibili d'indennizzo.
Ne deriva che tali vincoli, se sono inderogabili, incidono sulla qualificazione del bene; se, invece, sono derogabili (relativi), una volta approvata la deroga essi incidono sulla valutazione del bene stesso.
La S.C. ha così cassato la sentenza che aveva qualificato come edificabile un suolo ricadente in zona classificata come B/2 e ricadente nella fascia ferroviaria di rispetto di cui all'art. 49 del d.p.r. n. 753 del 1980.
La riduzione della distanza di rispetto non era stata autorizzata ai sensi dell'art. 60 dello stesso d.p.r. n. 753 del 1980
(Cass. civ., sez. I, 4.2.2000, n. 1220).

108. I vincoli di rispetto delle acque pubbliche.

LEGISLAZIONE: cost. artt. 3 e 24 - c.c. art. 822 - t.u. 25.7.1904, n. 523, art. 96, lett. f) - r.d. 1775/1933, art. 1.
La tutela del demanio idrico si traduce in un regime di vincoli che è rappresentato da una normativa che precisa le distanze da osservarsi a rispetto del demanio idrico (Assini e Mantini 1997, 537).
L’art. 822 c.c. definisce acque pubbliche i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque dichiarate pubbliche dalle leggi in materia.
L’art. 1, del r.d. 1775/1933, precisa che sono pubbliche tutte le acque sorgenti, fluenti e lacuali, anche se artificialmente estratte dal sottosuolo, le quali siano destinate ad usi di pubblico e generale interesse (Torregrossa 1990, 1).
La dichiarazione di pubblicità di tutte le acque prevista dall'art. 1 l. 5.1.1994, n. 36, ha avuto la funzione di spostare il baricentro del sistema delle acque pubbliche verso il regime di utilizzazione, piuttosto che sul regime di proprietà, e, di conseguenza, non può essere ad essa correlato un generalizzato assoggettamento al regime pubblicistico demaniale di ogni superficie su cui cadano e defluiscano acque meteoriche.
Ai sensi dell'art. 1, r.d. 11.12.1933, n. 1775, recante approvazione del t.u. di leggi sulle acque e sugli impianti elettrici, possono essere considerati demaniali soltanto i suoli interessati dalla presenza di acque che abbiano, o siano suscettibili di acquistare, attitudine ad usi di pubblico generale interesse
(Cass. civ., Sez. U., 27.7.1999, n. 507, DGA, 2000, 394 nota Bruno).

L’art. 96, del r.d. 25.7.1904, n. 523, prevede il divieto di realizzare ogni opera che possa limitare il libero deflusso delle acque, come, ad esempio, piantare alberi o intraprendere qualsiasi movimento del terreno ad una distanza inferiore a 4 metri o costruire ad una distanza dagli argini minore di 10 metri.

Sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i seguenti:
f) le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi;
g) qualunque opera o fatto che possa alterare lo stato, la forma, le dimensioni, la resistenza e la convenienza all'uso, a cui sono destinati gli argini e loro accessori come sopra, e manufatti attinenti
(art. 96, r.d. 25.7.1904, n. 523).

La norma ha lo scopo di prescrivere una fascia lungo i medesimi canali di bonifica per consentire le normali opere di ripulitura e manutenzione.

Il divieto di cui all'art. 96, lett. f), r.d. 25.7.1904, n. 523, è posto per garantire la tutela degli interessi pubblici indissolubilmente connessi al libero deflusso delle acque ed all'agevole svolgimento dei lavori di manutenzione di volta in volta necessari a tale scopo
(Trib. sup. acque, 29.4.2002, n. 58, FACDS, 2002, 1065).

Essa, pertanto, si applica anche per gli argini di natura artificiale poiché assume rilevanza la funzione oggettiva dell’opera.

Il testo unico sulle opere idrauliche 25.7.1904, n. 523, non fa alcuna distinzione tra argini naturali ed artificiali.
La suprema Corte ha altresì osservato: "il fatto poi che vi siano state autorizzazioni comunali per opere di bonifica agraria, non esonera il ricorrente dall'osservanza di norme penali aventi peraltro finalità diversa da quella urbanistica".
Nella specie, relativa a rigetto di ricorso avverso sentenza di condanna per il reato di cui all'art. 96, lett. f), citato t.u., per avere l'imputato eseguito scavi a distanza inferiore a dieci metri dal piede dell'argine di un torrente, era stata dedotta l'inapplicabilità del divieto di opere nel caso di argine artificiale
(Cass. pen., sez. III, 5.2.1996, n. 2412, CP, 1997, 1852).

La norma ha retto alle censure di legittimità costituzionale in quanto la distanza minima di quattro metri, in carenza di normativa di piano è stata ritenuta congrua anche quando non sia dimostrata caso per caso la effettiva pericolosità.

E' manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 24 cost., la questione di legittimità costituzionale, esaminata per la prima volta, dell'art. 96, lett. f), r.d. 25.7.1904, n. 523.
La norma è denunciata in quanto istituirebbe irragionevolmente una presunzione assoluta di pericolosità, non tenendo conto che, in taluni casi questa non sussiste, così impedendo anche la difesa attraverso tale dimostrazione
(Corte cost., 3.12.1987, n. 471, GC, 1987).

La giurisprudenza ha ritenuto che la disposizione sia inderogabile.

L'art. 96, lett. f), r.d. 25.7.1904, n. 523, che fa divieto di erigere e mantenere qualsiasi costruzione a determinate distanze dal piede degli argini o dalle sponde dei corsi d'acqua, si riferisce alla costruzione di nuovi fabbricati i quali, se realizzati abusivamente, non possono essere mantenuti e vanno quindi demoliti, atteso che il divieto ha carattere inderogabile
(T.A.R. Toscana, sez. III, 12.2.2003, n. 277, FATAR, 2003, 554).

In caso di esproprio del terrreno soggetto al vincolo la giurisprudenza ritiene che debba correspondersi l’indennizzo nella misura relativa ai terreni agricoli.
La sola esistenza di un fabbricato non afferma la natura edificatoria del terreno sottoposto al vincolo di inedificabilità previsto dall'art. 96 lett. f, r.d. 523/1904 per i terreni limitrofi a corsi d'acqua demaniale
L'eventuale e limitata edificabilità di suoli agricoli non rileva a fini indennitari e non trasforma in edificabile un terreno che tale non è o non può essere considerato.

Il vincolo di inedificabilità previsto dall'art. 96, lett. f), r.d. n. 523 del 1904, per i terreni limitrofi a corsi d'acqua demaniale rende non utilizzabile il criterio indennitario che l'art. 5, l. 359 del 1992, stabilisce per le aree edificabili, e comporta l'applicazione, ai fini del calcolo della predetta indennità, della l. 865 del 1971, richiamata dallo stesso art. 5 bis per le aree non classificabili come edificabili, essendo esclusa la configurabilità di un tertium genus tra aree edificabili e aree agricole, senza che l'eventuale asservimento del terreno ad altro immobile ne determini automaticamente la qualifica come edificabile
(Cass. civ., sez. I, 14.11.2001, n. 14148, GCM, 2001, 1921. Cass. civ., sez. I, 14.5.1998, n. 4848, GCM, 1998, 1027).


109. I limiti all’applicazione della normativa.

LEGISLAZIONE: t.u. 25.7.1904, n. 523, art. 96, lett. f).

Il rigore dei principi fissati dal t.u. 25.7.1904, n. 523, è stato, comunque, temperato dall’interpretazione che la ritiene applicabile solo per i lavori relativi ad opere eseguite dopo l’entrata in vigore della norma.

Il divieto di costruzione di manufatti a una certa distanza dagli argini dei corsi d'acqua, contenuto nell'art. 96, lett. f), t.u. 25.7.1904, n. 523, ha carattere inderogabile.
Il divieto di costruzione di manufatti ad una certa distanza dagli argini dei corsi d'acqua, contenuto nell'art. 96, lett. f), t.u. 25.7.1904, n. 523, riguarda, con riferimento agli interventi di consolidamento e di ristrutturazione, solo i manufatti costruiti dopo l'entrata in vigore del citato t.u., ed anche quelli costruiti prima se gli interventi comportino aumento della volumetria o della sagoma di ingombro
(Trib. sup. acque, 10.2.1999, n. 31, CS, 1999, II, 255).

Il vincolo alla proprietà privata non può però spingersi a comprimere diritti acquisiti in relazione a fabbricati precedentemente realizzati per i quali deve essere consentita la normale gestione con i relativi interventi manutentori.

L'art. 96, lett. f), t.u. 25.7.1904, n. 523, che fa divieto di erigere e mantenere qualsiasi costruzione a determinate distanze dal piede degli argini o dalle sponde dei corsi d'acqua si riferisce alla costruzione di nuovi fabbricati i quali, se realizzati abusivamente, non possono essere mantenuti e vanno quindi demoliti.
Illegittimamente, pertanto, è negato, in base al citato articolo, il nulla osta al consolidamento ed alla ristrutturazione di fabbricati già esistenti alla data di entrata in vigore del t.u. n. 523/1904 e che non comportino aggravamento della situazione esistente, non modificando né il volume né la superficie occupata dai fabbricati stessi
(Trib. sup. acque, 20.10.1988, n. 66, CS, 1988, 1915).

Il discrimen è dato dalla differenza fra la ristrutturazione e la nuova costruzione.
Mentre l’intervento conservativo deve essere consentito, anche a distanza inferiore di quella attualmente consentita, la nuova costruzione deve rispettare le distanze minime previste.

E' illegittimo il provvedimento di revoca del nulla-osta all'esecuzione di opere su una fabbrica esistente a distanza minore di 10 metri dal piede dell'argine di un corso d'acqua pubblico, ai sensi dell'art. 96, lett. f), t.u. 25.7.1904, n. 523, adottato nel presupposto che il rinnovo di elementi costitutivi dell'edificio, senza mutamento della cubatura, della superficie e della sagoma dell'edificio stesso debba essere considerata nuova costruzione e non già ristrutturazione di un fabbricato esistente
(Trib. sup. acque, 6.3.1989 n. 24, CS, 1989, II, 482).


110. I vincoli di rispetto delle acque per consumo umano.

LEGISLAZIONE d.p.r. 24.5.1988, n. 236, artt. 4, 6 - d.lg. 18.8.2000, n. 258, artt. 5, 25, 4°, 5° co.

Il legislatore ha fissano delle limitazioni al diritto del proprietario del fondo nel quale sono localizzate le aree prospicienti alle zone di captazione di acque per il consumo umano.
Per assicurare, mantenere e migliorare le caratteristiche qualitative delle acque da destinare al consumo umano, sono, infatti, state definite delle aree di salvaguardia suddistinte in zone di tutela assoluta, zone di rispetto e zone di protezione.
I provvedimenti possono essere adottati solo nel caso di acque destinate al consumo ungano.

Le acque non fornite attualmente al consumo umano, ma provviste del solo carattere di potenziale utilizzabilità per scopi potabili, non sono assistite dalla tutela ex art. 6 d.p.r. 24.5.1988 n. 236 - che, per l'appunto, concerne le acque già fornite al pubblico, come ben può evincersi dalla formulazione della norma -, per cui non si può configurare una corrispondente zona di rispetto nel caso di una mera attività di ricerca di falde acquifere da parte di un comune
(Cons. St., sez. V, 2.4.1996, n. 377, FA, 1996, 1207).

Le zone di tutela assoluta e le zone di rispetto si riferiscono alle sorgenti, ai pozzi ed ai punti di presa; le zone di protezione si riferiscono ai bacini imbriferi ed alle aree di ricarica delle falde, ex art. 5, d.lg. 18.8.2000, n. 258, che sost. art. 4 d.p.r. 24.5.1988, n. 236.
La zona di tutela assoluta è costituita dall'area immediatamente circostante le captazioni o derivazioni: essa deve avere una estensione in caso di acque sotterranee e, ove possibile per le acque superficiali, di almeno dieci metri di raggio dal punto di captazione, deve essere adeguatamente protetta e adibita esclusivamente ad opere di captazione o presa e ad infrastrutture di servizio, ex art. 25, 4° co., d.lg. 18.8.2000, n. 258.
La zona di rispetto è costituita dalla porzione di territorio circostante la zona di tutela assoluta da sottoporre a vincoli e destinazioni d'uso tali da tutelare qualitativamente e quantitativamente la risorsa idrica captata e può essere suddivisa in zona di rispetto ristretta e zona di rispetto allargata in relazione alla tipologia dell'opera di presa o captazione e alla situazione locale di vulnerabilità e rischio della risorsa. In particolare nella zona di rispetto sono vietati l'insediamento dei seguenti centri di pericolo e lo svolgimento delle seguenti attività:
a) dispersione di fanghi ed acque reflue, anche se depurati;
b) accumulo di concimi chimici, fertilizzanti o pesticidi;
c) spandimento di concimi chimici, fertilizzanti o pesticidi, salvo che l'impiego di tali sostanze sia effettuato sulla base delle indicazioni di uno specifico piano di utilizzazione che tenga conto della natura dei suoli, delle colture compatibili, delle tecniche agronomiche impiegate e della vulnerabilità delle risorse idriche;
d) dispersione nel sottosuolo di acque meteoriche proveniente da piazzali e strade;
e) aree cimiteriali;
f) apertura di cave che possono essere in connessione con la falda;
g) apertura di pozzi ad eccezione di quelli che estraggono acque destinate al consumo umano e di quelli finalizzati alla variazione della estrazione ed alla protezione delle caratteristiche quali-quantitative della risorsa idrica;
h) gestione di rifiuti;
i) stoccaggio di prodotti ovvero sostanze chimiche pericolose e sostanze radioattive;
l) centri di raccolta, demolizione e rottamazione di autoveicoli;
m) pozzi perdenti;
n) pascolo e stabulazione di bestiame che ecceda i 170 chilogrammi per ettaro di azoto presente negli effluenti, al netto delle perdite di stoccaggio e distribuzione. é comunque vietata la stabulazione di bestiame nella zona di rispetto ristretta, ex art. 25, 5° co., d.lg. 18.8.2000, n. 258.
Per gli insediamenti o le attività preesistenti, ove possibile e comunque ad eccezione delle aree cimiteriali, sono adottate le misure per il loro allontanamento: in ogni caso deve essere garantita la loro messa in sicurezza.

L'art. 6, d.p.r. 24.5.1988, n. 236 il quale stabilisce che, nella zona di rispetto di pozzi di acque destinate al consumo umano, non possano essere esercitate attività estrattive, non preclude alla p.a. di aprire nuovi pozzi destinati a tale consumo nell'area in cui già si trovino cave estrattive, dovendo il pubblico interesse alla destinazione di risorse idriche al consumo umano prevalere su quello privato allo sfruttamento delle cave
(Trib. sup. acque, 17.10.1992, n. 77, CS, 1992, II, 1543).

Le regioni e le provincie autonome disciplinano, all'interno delle zone di rispetto, le seguenti strutture od attività:
a) fognature;
b) edilizia residenziale e relative opere di urbanizzazione;
c) opere viarie, ferroviarie ed in genere infrastrutture di servizio;
d) le pratiche agronomiche e i contenuti dei piani di utilizzazione di cui alla lettera c ) del comma 5.
7. In assenza dell'individuazione da parte della regione della zona di rispetto ai sensi del comma 1, la medesima ha un'estensione di 200 metri di raggio rispetto al punto di captazione o di derivazione.
Le zone di protezione devono essere delimitate secondo le indicazioni delle regioni per assicurare la protezione del patrimonio idrico. In esse si possono adottare misure relative alla destinazione del territorio interessato, limitazioni e prescrizioni per gli insediamenti civili, produttivi, turistici, agroforestali e zootecnici da inserirsi negli strumenti urbanistici comunali, provinciali, regionali, sia generali sia di settore.
La giurisprudenza ha definito illegittime la determinazione delle zone di rispetto senza l’osservanza delle procedure stabilite dalla normativa.

Gli artt. 4 e 6 d.p.r. 24.5.1988, n. 236, stabiliscono un particolare procedimento al fine dell'individuazione delle aree di salvaguardia, a tutela della salute e dell'ambiente, e per la determinazione dell'estensione delle zone di rispetto; pertanto è illegittima la deliberazione regionale che determini, senza motivazione, l'estensione delle zone di rispetto, senza valutazione della situazione locale di vulnerabilità e rischio delle risorse
(Trib. sup.re acque, 27.1.1993, n. 10, CS, 1993, II, 121).

Per la giurisprudenza prevalente la competenza ad esigere il rispetto della norma è del sindaco.

Ai sensi dell'art. 6, d.p.r. 24.5.1988, n. 236, il sindaco è competente ad imporre il divieto di apertura ed esercizio di cave miniere, ai soggetti titolari dei mappali compresi nel raggio di duecento metri rispetto al punto di captazione di acque destinate al consumo umano, trattandosi di un atto meramente ricognitivo della situazione di fatto, determinata dalla norma statale, e non di delimitare una zona di raggio superiore o inferiore ai duecento metri
(T.A.R. Veneto, sez. II, 5.101996, n. 1612, FA, 1997, 1164).

La giurisprudenza ha respinto le censure di illegittimità costituzionale, ritenendo che i beni per la loro naturale destinazione che comprime le facoltà del proprietario non siano soggetti ad indennizzo.

È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 6 d.p.r. 24.5.1988, n. 236 - che dettano prescrizioni dettagliate per la salvaguardia delle risorse idriche stabilendo l'estensione di zone di tutela assoluta - sollevata con riferimento agli art. 3, 42, 43 e 44 cost., in quanto la disciplina ivi prevista non configura un'ipotesi di espropriazione, sia per la natura dei limiti imposti che non privano necessariamente di contenuti economici il diritto alla proprietà, sia per il collegamento del regime di tutela a caratteristiche intrinseche dei terreni (presenza di risorse idriche) che li rendono per loro natura suscettibili di essere utilizzati per superiori finalità di interesse pubblico
(Trib. sup.re acque, 14.12.1994, n. 69, CS, 1994, II, 1958).



111. I vincoli di rispetto delle distanze dalle farmacie.

LEGISLAZIONE l. 2.4.1968 n. 475, art. 1, 4° co. - l. 8.11.1991, n. 362, art. 1.

Altri vincoli sono disposti per garantire l’esercizio di attività economiche che possono essere compromesse dal sovraffollamento delle stesse ove esse sono già presenti.
Le norme impediscono in tal modo il proliferare di alcune attività, anche se tale criterio non appare in sintonia col principio di libera concorrenza che ispira l'esercizio dei commerci nella Comunità Europea.
Per razionalizzare il servizio farmaceutico, che la dottrina definisce come servizio privato sotto la direzione pubblica, sono stati individuati due criteri uno relativo alla popolazione l’altro relativo alla distanza fra le sedi delle farmacie (Landi 1967, 848).
Il numero delle autorizzazioni è ora stabilito in modo che vi sia una farmacia ogni 5.000 abitanti nei comuni con popolazione fino a 12.500 abitanti e una farmacia ogni 4.000 abitanti negli altri comuni, ex art. 1, l. n. 475 del 1968.

Ai sensi dell'art. 1, 2° co., l. 362 del 1991, l'istituzione di una nuova sede farmaceutica si giustifica esclusivamente in base al rapporto tra numero di farmacie e popolazione, senza necessità di tenere conto della particolare distribuzione della popolazione sul territorio, poiché quest'ultima valutazione attiene alla delimitazione degli ambiti territoriali di pertinenza.
Non è necessario prendere in considerazione la prevedibilità di nuovi insediamenti o spostamenti di popolazione poiché a tali evenienze sopperisce la specifica revisione della pianta organica
(T.A.R. Marche, 12.3.2001, n. 293, RDF, 2001, 1000).

In caso di trasferimento, il nuovo locale, indicato nell'ambito della stessa sede compresa nel territorio comunale, deve essere situato ad una distanza dagli altri esercizi non inferiore a 200 metri.

L'obbligo di rispettare la distanza minima di 200 metri nella ubicazione delle farmacie, previsto dall'art. 1, 4° co., l. 475/1968, come sostituito dall'art. 1, l. n. 362/1991, può essere derogato unicamente per comprovati motivi di forza maggiore.
In tal caso l'amministrazione che autorizza il trasferimento della farmacia a una distanza inferiore a quella prevista dalla legge deve verificare in maniera rigorosa e restrittiva la causa di forza maggiore che giustifica la deroga della distanza legale minima e, così, sia la necessità assoluta e oggettiva del rilascio dei locali in cui è ubicata la farmacia, sia la impossibilità oggettiva e assoluta di trovare nuovi locali ubicati nel rispetto della distanza legale minima: la mancanza anche di uno solo di questi presupposti rende illegittimo il provvedimento autorizzatorio
(Cons. Stato, sez. IV, 12.12.1997, n. 1414, RGFfarm 1999, f. 49, 51).

L’utilizzo dei resti che siano pari almeno al 50% dei parametri è affidato alla discrezionalità della amministrazione competente.

L'art. 1 l. 475 del 1968, mod. art. 1, l. 362 del 1991, dopo aver indicato il criterio demografico che autorizza l'apertura di una farmacia (una ogni 5.000 o 4.000 abitanti, in relazione ai vari comuni la cui consistenza della popolazione sia inferiore o superiore 12.500 abitanti), dispone al comma 3 che la popolazione eccedente rispetto agli indicati parametri è computata, ai fini dell'apertura di una farmacia, qualora sia pari ad almeno il 50% dei parametri stessi.
In conformità a tale disposizione, l'utilizzabilità dei cosiddetti resti per l'istituzione di una nuova sede farmaceutica nel territorio comunale sulla base di una scelta discrezionale della p.a. insindacabile dal giudice se non per evidenti vizi logici e irrazionalità
(T.A.R. Toscana, sez. I, 18.12.2002, n. 3380).

La distanza è misurata per la via pedonale più breve tra soglia e soglia delle farmacie, ex art. 1, 4° co., l. n. 475/1968, sost. ex art. 1, l. n. 362/1991.
Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, quando particolari esigenze dell'assistenza farmaceutica in rapporto alle condizioni topografiche e di viabilità lo richiedono, possono stabilire, in deroga al criterio sopra esaminato, un limite di distanza per il quale la farmacia di nuova istituzione disti almeno 3.000 metri dalle farmacie esistenti anche se ubicate in comuni diversi.
Tale disposizione si applica ai comuni con popolazione fino a 12.500 abitanti e con il limite di una farmacia per comune.
Con tale disposizione il legislatore ha voluto aggiungere al parametro del dato numerico della popolazione - quale criterio per la determinazione del numero delle farmacie per ciascun Comune - anche la considerazione delle condizioni topografiche e di viabilità consentendo l'istituzione di un'altra farmacia, distante almeno 3000 metri da quelle esistenti, in funzione del soddisfacimento di particolari esigenze dell'assistenza farmaceutica locale.
La ratio sottesa a tale norma è la stessa posta alla base della programmazione e della revisione delle piante organiche delle sedi farmaceutiche, da individuare più che nella esigenza di evitare la proliferazione delle sedi farmaceutiche, a salvaguardia delle condizioni economiche dell'esercizio commerciale, nella diversa esigenza di assicurare la più ampia e razionale copertura di tutto il territorio nazionale nell'interesse della salute dei cittadini.
La giurisprudenza ritiene necessario e sufficiente che ricorrano quattro condizioni perché si possa legittimamente derogare al criterio principale, che è, appunto, quello correlato alla consistenza della popolazione locale, per la revisione delle piante organiche farmaceutiche.

Ai sensi dell'art. 104, del r.d. 27.7.1934, n. 1265, perché si possa legittimamente derogare al criterio principale per la revisione delle piante organiche farmaceutiche, che è quello correlato alla consistenza della popolazione locale (stabilito dall'art. 1, l. n. 475 del 1968, come sostituito dall'art. 1, l. 362 del 1991), è necessario e sufficiente che ricorrano quattro condizioni: che si tratti di un comune con popolazione fino a 12.500 abitanti; che sussistano particolari esigenze dell'assistenza farmaceutica locale in rapporto alle condizioni topografiche di viabilità; che la farmacia di nuova istituzione disti almeno 3000 metri dalle farmacie esistenti, anche se ubicate in comuni diversi; che il criterio della distanza non sia stato già utilizzato per istituire altre sedi farmaceutiche nel medesimo comune
(T.A.R. Lombardia Milano, sez. I, 23.11.2000, n. 6580, FA, 2001, 926. Corte. Cost., 9.1.1996 n. 4).

La deroga è soggetta all’esame del giudice amministrativo sotto il profilo della ragionevolezza, ma non del merito.

In presenza di tutti i presupposti vincolanti per l'istituzione di una farmacia aggiuntiva secondo il criterio topografico, ex art. 104 t.u.l.s. – quali la popolazione non superiore a 12.500 abitanti e la distanza superiore a 3000 metri - in deroga agli ordinari parametri demografici, la valutazione relativa alle "particolari esigenze dell'assistenza farmaceutica, in rapporto alle condizioni topografiche e di viabilità" appartiene alla sfera della più ampia discrezionalità amministrativa, che il Giudice amministrativo può censurare (con maggiore o minor rigore a seconda del numero complessivo di abitanti del Comune e della rilevanza della deroga attuata) sotto l'esclusivo profilo della manifesta irragionevolezza ed incongruità
(T.A.R. Umbria, 24.3.2000, n. 281, RDFa, 2000, 571).

Spesso la deroga è utilizzata per motivi contingenti, relativi anche alla stessa disponibilità di sedi idonee.

Costituisce ipotesi di forza maggiore legittimante la deroga della distanza minima tra esercizi farmaceutici l'obbligo del farmacista di rilasciare, per finita locazione e non per morosità, i locali precedentemente occupati e l'obiettiva impossibilità di reperire altri locali idonei entro la distanza legale minima
(T.A.R. Liguria, sez. II, 3.9.1998, n. 674, RDFa, 1999, 54).

La giurisprudenza ammette il ricorso avverso il provvedimento di deroga alla giustizia amministrativa al fine di valutare la possibilità di richiedere la rimessa in pristino solo dopo che si pervenga all’annullamento dell’atto amministrativo.
In tal caso al giudice ordinario è preclusa l’azione relativa al rispetto delle distanze essendo riconnessa alla valutazione nel merito del provvedimento amministrativo.
E' ammissibile il ricorso del titolare della farmacia limitrofa avverso il provvedimento di autorizzazione al trasferimento dei locali della farmacia confinante in deroga al limite di distanza di cui all'art. 1 l. n. 475 del 1968, atteso che dalla rimozione di tale provvedimento potrebbe derivare il ripristino della distanza legale.
(Cons. Stato, sez. IV, 24.10.1997, n. 1234, RDFarm, 1998, 267).



112. I vincoli di rispetto degli elettrodotti.

LEGISLAZIONE d.p.c.m. 23.4.1992, artt. 4, 5, 7 - l. 21.2.2001, n. 36, artt. 4, 2° co., 8, 9 - d.p.c.m 8.7.2002, GU, 29.8.2003 n. 199, art. 5 - d.p.c.m 8.7.2002, GU, 29.8.2003 n. 200, artt. 3 e 4.

Il d.p.c.m. 23.4.1992 fissa le distanze di rispetto dagli elettrodotti dagli ambienti destinati all’abitazione e alle attività industriali o commerciali a tutela della salute, ponendo un limite alla concessione dell’autorizzazione.
Il d.p.c.m. 23.4.1992 stabilisce le distanze da tenere in rapporto alla potenza delle linee.

Con riferimento alle linee elettriche aeree esterne a 132 kV, 220 kV e 380 kV, si adottano, rispetto ai fabbricati adibiti ad abitazione o ad altra attività che comporta tempi di permanenza prolungati, le seguenti distanze da qualunque conduttore della linea:
linee a 132 kV >= 10 m
linee a 220 kV >= 18 m
linee a 380 kV >= 28 m
Per linee a tensione nominale diversa, superiore a 132 kV e inferiore a 380 kV, la distanza di rispetto viene calcolata mediante proporzione diretta da quelle sopra indicate.
Per linee a tensione inferiore a 132 kV restano ferme le distanze previste dal decreto interministeriale 16 gennaio 1991.
Per eventuali linee a tensione superiore a 380 kV le distanze di rispetto saranno stabilite dalla commissione di cui al successivo art. 8.
La distanza di rispetto dalle parti in tensione di una cabina o da una sottostazione elettrica deve essere uguale a quella prevista, mediante i criteri sopra esposti, per la più alta tra le tensioni presenti nella cabina o sottostazione stessa
(art. 5, d.p.c.m. 23.4.1992).

L’imposizione del rispetto dei limiti massimi di esposizione da tenere nei confronti dei campi elettrici fissati dal d.p.c.m. 23.4.1992 è sufficiente ai fini della legittimità dell'atto autorizzativo che approva il tracciato dell'elettrodotto, e non giustifica il ricorso a provvedimenti cautelari.

In presenza del rispetto del d.p.c.m. 23.4.1992 - che prevede i limiti di esposizione ai campi elettromagnetici degli elettrodotti ad alta tensione, recependo - al pari del d.p.r. 27.4.1992 concernente la Via - quelli indicati in via prudenziale, dalle più autorevoli organizzazioni scientifiche internazionali e nazionali - va respinto il ricorso volto alla sospensione della realizzazione di una linea in base a presunti pericoli per la salute umana
(T.A.R. Lombardia sez. II, Milano, 3.11.1994, n. 618, RGEnel, 1995, 954).

Il provvedimento ha cercato di porre fine alla disputa sulla tutela del diritto alla salute per effetto dell’esposizione a campi elettrici magnetici ed elettromagnetici che, peraltro, la giurisprudenza ha riconosciuto, in via inibitoria, al fine di interrompere la realizzazione di nuovi impianti qualora sia dimostrata la loro pericolosità.

La tutela giudiziaria del diritto alla salute in confronto della p.a. può essere preventiva e dare luogo a pronunce inibitorie se, prima ancora che l'opera pubblica sia messa in esercizio nei modi previsti, sia possibile accertare, considerando la situazione che si avrà una volta iniziato l'esercizio, che nella medesima situazione è insito un pericolo di compromissione per la salute di chi agisce in giudizio.
Nella specie, l'Enel era stato autorizzato a costruire un elettrodotto a distanza di circa 30 metri da un'abitazione, il cui proprietario chiese che fosse accertata la pericolosità dell'opera ed il danno derivante alla salute per l'esposizione ai campi elettromagnetici, con conseguente risarcimento del danno costituito dalla diminuita abitabilità dell'immobile.
La Suprema Corte, sulla base dell'enunciato principio di diritto, ha cassato la sentenza del merito, che aveva respinto la domanda sul presupposto che l'elettrodotto era stato costruito sulla base di provvedimenti legittimi e non impugnati e che, peraltro, esso non era ancora entrato in funzione, sicché era impossibile accertare la situazione di pericolo che si sarebbe generata una volta intervenuta la messa in esercizio
(Cass. civ., sez. III, 27.7.2000, n. 9893, D&G, 2000, f. 37, 48, nota Rossetti).

L’attività cautelare è limitata anche dai procedimenti di risanamento, che sono dilazionati nel tempo fino al 2004, e che impediscono di fatto la possibilità di tutela.

Nei tratti di linee elettriche esistenti dove non risultano rispettati i limiti di cui all'art. 4 e le condizioni di cui all'art. 5 dovranno essere individuate azioni di risanamento. Entro diciotto mesi dall'entrata in vigore del presente decreto, gli esercenti degli elettrodotti dovranno presentare al Ministero dell'ambiente una relazione contenente i criteri generali di intervento e i criteri di priorità scelti, basati anche su parametri oggettivizzabili quali individui esposti per km, valori di dosi cumulative e simili.
Nei successivi dodici mesi gli esercenti dovranno presentare i progetti delle tratte di elettrodotti interessate al risanamento. Entro sessanta giorni dalla pubblicazione del presente decreto, i Ministeri dell'ambiente, della sanità, dell'industria, del commercio e dell'artigianato e dei lavori pubblici dovranno definire un accordo procedimentale per la valutazione dei suddetti progetti di risanamento ai fini del rilascio delle autorizzazioni alla costruzione così come disciplinate dal testo unico 11 dicembre 1933, n. 1175.
Nel progetto di risanamento oltre agli interventi necessari va indicato il programma cronologico.
I programmi di risanamento debbono essere completati entro il 31.12.2004
(art. 7, d.p.c.m. 23.4.1992).

La norma non ha risposto in termini qualitativi alle attese e con la l. 21.2.2001, n. 36, si è, pertanto, cercato di rispondere all’esigenza di fornire un’adeguata regolamentazione della materia.
La dottrina precisa, peraltro, che l’efficacia della normativa è condizionata in modo rilevante dal contenuto dei decreti di attuazione e dai controlli che saranno effettuati (Ramacci 2001, 26).
Successivamente sono stati emanati in data 8.7.2002 i dd.pp.cc.mm. di attuazione che abrogano i precedenti decreti (Ramacci 2003, 27).
Il d.p.c.m 8.7.2002, GU, 29.8.2003 n. 199, ha riferimento alle frequenze comprese fra i 100 khz e i 300 ghz, il d.p.c.m 8.7.2002, GU, 29.8.2003 n. 200, fa riferimento alle frequenze di rete di 50 hz.
Entrambi i decreti definiscono i limiti di esposizione, i valori di attenzione, gli obiettivi di qualità e i parametri per la previsione di fasce di rispetto per gi elettrodotti, ex art. 4, 2° co., l. 21.2.2001, n. 36.
Il d.p.c.m 8.7.2002, GU, 29.8.2003 n. 199, dopo avere fissato nell’allegato b) i valori di attenzione e gli obiettivi di qualità nel caso di esposizione ad impianti che generano frequenze comprese fra i 100 khz e i 300 ghz, impone all’art. 5 la riduzione a conformità nel caso di superamento di valori indicati.
La norma è però in bianco in quanto non fissa né termini né sanzioni.
Parimenti il d.p.c.m 8.7.2002, GU, 29.8.2003 n. 200, dopo avere fissato agli artt. 3 e 4 i valori di attenzione e gli obiettivi di qualità nel caso di esposizione ad impianti che generano frequenze di rete di 50 hz.
Anche in tal caso la norma è in bianco in quanto non fissa né la riduzione in conformità né le relative sanzioni, limitandosi a fissare, all’art. 6, i parametri per la determinazione delle fasce di rispetto
La norma è però in bianco in quanto non fissa né termini né sanzioni.
Le regioni devono definire le modalità per il rilascio delle autorizzazioni alla installazione degli impianti, ex art. 8, l. 21.2.2001, n. 36, e, soprattutto, definire i piani di risanamento che devono contenere il programma cronologico di attuazione in cui devono essere indicati gli interventi prioritari sulle situazioni esposte a più elevati livelli di inquinamento elettromagnetico, ex art. 9, l. 21.2.2001, n. 36.


113. La disciplina regionale integrativa alla luce delle decisioni della Corte costituzionale.

LEGISLAZIONE: cost. art. 117, 3° co. - l. cost. 18.10.2001 n. 3, art. 3.

La giurisprudenza costituzionale si è posta il problema della legittimità della legislazione regionale che innovi in materia di distanze fra edifici e le linee elettriche.
In un primo tempo la Corte ha sostenuto la legittimità della legislazione regionale che fissi standard più rigidi di quelli imposti dal legislatore nazionale

L'art. 1 l. reg. Veneto riapprovata il 29.7.1997, che impone all'ente elettrico nazionale valori di campo magnetico estremamente più rigidi di quelli prescritti dal d.p.c.m. 23.4.1992 per gli elettrodotti a linea aerea, con tensione da 132 Kw in su, quando sorvolino aree destinate agli strumenti urbanistici a nuove costruzioni residenziali, scolastiche e sanitarie, si mantiene all'interno della potestà legislativa regionale in materia di sanità e urbanistica (quest'ultima intesa in termini di governo del territorio e di protezione dell'ambiente secondo la definizione dell'art. 80 d.p.r. 24.7.1977, n. 616).
Essa non lede competenze legislative statali, anche perché non tende a vanificare, ma semmai ad accrescere, gli obiettivi di tutela della salute perseguiti a livello nazionale
(Corte cost. 30.9.1999, n. 382, RGE, 1999, 1184).

Successivamente il contrasto fra la normativa regionale e le norme dettate dalla legge quadro 36/2001 è stato analizzato alla luce dei principi fissati dalla l. cost. 18.10.2001 n. 3, art. 3.
Le materie che rientrano nella tutela della salute, nell’ordinamento della comunicazione nella produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia e nel governo del territorio rientrano nella sfera della potestà legislativa concorrente delle regioni a statuto ordinario, ex art. 117, 3° co. cost.; esse, pertanto, sono caratterizzate dai soli principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato.
Con riferimento agli standard di protezione dall’inquinamento elettromagnetico, l’art. 3, l. 36/2001, distingue i limiti di esposizione da quelli di attenzione e gli obiettivi di qualità.
I limiti di esposizione non devono essere superati in alcuna condizione di contatto con la popolazione.
I valori di attenzione non devono essere superati a titolo di cautela nelle case e nelle scuole o nei luoghi adibiti a permanenze prolungate.
Gli obiettivi di qualità riguardano i valori di campo che sono affidati allo Stato e i criteri localizzativi che sono attribuiti alla competenza regionale.
Mentre lo Stato ha la competenza di fissare le soglie di esposizione, la Regione può disciplinare autonomamente l’uso del territorio in funzione della localizzazione degli impianti, stabilendo le ulteriori misure e prescrizioni dirette a ridurre il più possibile l’impatto negativo degli impianti sul territorio (Busia 2003, 87).
La determinazione dei valori soglia oltre a proteggere la salute dei cittadini mira a consentire la realizzazione degli impianti e delle reti rispondenti a rilevanti interessi nazionali, come quelli che fanno riferimento alla distribuzione dell’energia elettrica e allo sviluppo dei sistemi di telecomunicazione.
Proprio per proteggere tali interessi la legge quadro ha fissato di attribuire allo Stato la fissazione dei limiti di esposizione.
Per questo la determinazione dei valori soglia a livello nazionale non è derogabile dalle regioni nemmeno in senso più restrittivo.
Essa deve essere considerata come il punto di equilibrio fra le esigenze contrapposte di evitare al massimo l’impatto delle emissioni elettromagnetiche e di realizzare impianti necessari al paese.
La competenza delle Regioni, essendo concorrente, è vincolata ai principi generali fissati dallo Stato.
Diverso è il problema su chi debba decidere sulle procedure di localizzazione.
In detta materia le capacità delle regioni e degli enti locali di regolare autonomamente l’uso del territorio si riespande, con l’unico limite del rispetto delle esigenze della pianificazione nazionale e degli impianti e con il vincolo di non impedire od ostacolare ingiustificatamente l’insediamento degli stessi.
La competenza regionale riconosciuta dalla legge quadro 36/2001 per la individuazione dei siti di trasmissione degli impianti per la telefonia mobile, degli impianti radioelettrici e degli impianti per la radiodiffusione attiene solo alla indicazione di obiettivi di qualità non consistenti in valori di campo, ma in criteri di localizzazione, standard urbanistici, prescrizioni ed incentivazioni all’uso della migliore tecnologia disponibile, o alla cura dell’interesse regionale e locale dell’uso del territorio, sia pure nel quadro di vincoli che derivano dalla pianificazione nazionale delle reti e dei relativi parametri tecnici, nonché dai valori soglia stabiliti dallo Stato
(Corte cost. 1.10.2003, n. 307, GD, 2003, n. 42,, 81).



114. La differenza fra i vincoli imposti ex lege ed i vincoli di piano. La mancanza dell’indennizzabilità.

LEGISLAZIONE l. urb., art. 40 - l. 19.11.1968, n. 1187, art. 5.

La normativa speciale in materia di vincoli comprende le norme che regolano la sicurezza nella circolazione sia essa aerea, stradale o ferroviaria; le disposizioni dettate per disciplinare la costruzione di impianti destinati alla realizzazione di particolari beni di consumo come, ad esempio, la captazione di acque; le norme che tutelano i beni di interesse naturistico e il patrimonio artistico; le disposizioni sugli impianti pericolosi per la salute dei cittadini; le norme, infine, destinate a tutelare la diffusione di certi beni o servizi.
I vincoli imposti per legge Hanno la funzione di acclarare la natura particolare del bene o di conformarla regolando le possibili forme di intervento disciplinando l’esercizio del diritto del proprietario al fine di salvaguardare le esigenze pubbliche.
Essi devono disporre, pertanto, una disciplina omogenea per le varie tipologie di beni.
La giurisprudenza ritiene, pertanto, che essi non siano indennizzabili non avendo natura ablatoria a differenza dei vincoli di piano.
In tema di imposizione di vincoli urbanistici, il legislatore non è tenuto a disporre indennizzi quando i modi di godimento e i limiti imposti direttamente dalla legge ovvero mediante il completamento di un particolare procedimento amministrativo riguardino intere categorie di beni secondo caratteristiche loro intrinseche, con carattere di generalità ed in modo obiettivo.

I limiti non ablatori normalmente posti nei regolamenti urbanistici o nella pianificazione urbanistica e relative norme tecniche, riguardanti altezza, cubatura, superficie coperta, distanze, zone di rispetto, indici di fabbricabilità, limiti e rapporti per zone territoriali omogenee e simili, sono connaturali alla proprietà
(Corte cost., 20.5.1999, n. 179, AUE, 1999, 395, nota Gisondi).

I vincoli di piano hanno l’effetto di togliere alla proprietà la possibilità di esercitare lo ius aedificandi e pongono la proprietà nella situazione di compressione in rapporto ad un provvedimento amministrativo che oggettivamente affievolisce le facoltà del proprietario. Essi devono essere congruamente motivati in relazione al sacrificio imposto alla proprietà.

E' illegittima la revisione del piano regolatore generale che pone un vincolo preordinato all'espropriazione privo di sufficiente specificazione in ordine al servizio localizzabile nell'area interessata
(T.A.R. Piemonte, sez. I, 25.2.1998, n. 62, RGE, 1998, 449).

L’art. 40 della l. urb. ha posto il principio della non indennizzabilità dei vincoli di piano per non negare in radice il potere conformativo della proprietà (Centofanti 2003 (3), 78).
Il problema, infatti, non consiste nel potere di vincolare le aree a determinate destinazioni, ma nel perequare la differenza di valore che si determina per effetto delle norme di piano sugli immobili, in relazione alle loro differenti possibilità di intervento edilizio.

Nessun indennizzo è dovuto per le limitazioni ed i vincoli previsti dal piano regolatore generale nonché per le limitazioni e per gli oneri relativi all'allineamento edilizio delle nuove costruzioni.
Non è dovuta indennità neppure per la servitù di pubblico passaggio che il Comune creda di imporre sulle aree di portici delle nuove costruzioni e di quelle esistenti.
Rimangono a carico del Comune la costruzione e manutenzione del pavimento e la illuminazione dei portici soggetti alla predetta servitù
(art. 40, l. urb., mod. art. 5, l. 19.11.1968, n. 1187).

La proprietà non subisce, peraltro, delle menomazioni funzionali circa l’esercizio del diritto.
Non vi è alcuna compressione fino all’espletamento della procedura ablatoria.
Il proprietario utilizza il bene e si assume ogni responsabilità riguardo la sua gestione.

L'assoggettamento di un bene ad un vincolo preordinato all'espropriazione non implica alcun immediato spossessamento, né tampoco la cessazione di tutte le facoltà e le responsabilità ad esso connesse - vicende, queste, che si potranno verificare solo se e in quanto si verificherà l'ipotizzata ablazione - per cui il proprietario è tenuto ad adempiere agli oneri che la pubblica amministrazione impone sul bene stesso, prima o indipendentemente dalla procedura espropriativa.
Nella specie, è legittimo l'ordine di un comune al proprietario affinché questi provveda all'ordinaria manutenzione di una strada privata, a nulla rilevando che la nuova destinazione urbanistica di zona stabilisca la futura espropriazione della strada per la costruzione di opere di viabilità pubblica
(Cons. St., sez. V, 27.2.1998, n. 199, FA, 1998, 440).

Il vincolo è soggetto a risarcimento solo qualora sia posto a tempo indeterminato o venga reiterato, vedi Cap. IV, n. 50.



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