giovedì 4 ottobre 2012

Tutela Ambiente. 4 PROGRAMMAZIONE URBANISTICA


CAPITOLO IV
LA PROGRAMMAZIONE URBANISTICA A TUTELA DELL’AMBIENTE.

SOMMARIO: 1. Il piano territoriale paesaggistico.
2. Il contenuto.
2.1. pianificazione paesistica e sviluppo sostenibile.
3. La ripartizione delle competenze regionali e statali nella procedura di approvazione.
3.1. La costituzionalità del procedimento in rapporto alla partecipazione degli enti locali.
4. Gli effetti dell’approvazione sulla pianificazione comunale.
4.1. La costituzionalità dei limiti all’autonomia pianificatoria del comune.
4.2. La non indennizzabilità delle disposizioni di vincolo di piano.
5. L'applicazione delle misure di salvaguardia.
6. Le disposizioni regionali. I problemi di costituzionalità.
7. Il piano di bacino.
8. Le misure di salvaguardia.
9. La tutela giurisdizionale.

1. Il piano territoriale paesaggistico.

Legislazione l. 1497/1939, art. 5 - d.lg. 22.1.2004, n. 41, artt. 143, 145.
Bibliografia Crosetti 1997 - Assini 2000 - Tamiozzo 2005.

L’azione pubblica sul territorio a tutela dell’ambiente ha privilegiato l’intervento vincolistico per zone e fasce di rispetto senza preoccuparsi di redigere gli strumenti di programmazione dell’intero territorio nel quale i beni sono inseriti.
Spetta allo Stato definire le linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale con riferimento ai valori naturali ed ambientali, secondo i criteri sanciti dall’art. 52, d.lg. 112/1998, mentre alle regioni spetta la funzione legislativa in materia di pianificazione territoriale, ex art. 57, d.lg. 112/1998.
L’art. 143, d.lg. 22.1.2004, n. 41, attribuisce la pianificazione paesistica alla competenza delle regioni e riafferma la finalità dinamica del piano che non ha più il solo scopo di mera conservazione che caratterizzava la precedente normativa (Assini 2000, 48).
L’art. 145, 10° co., d.lg. 22.1.2004, n. 41, nel riconfermare detti principi introduce la possibilità di una collaborazione fra regioni e soprintendenze per la formazione dei piani.
La tutela dei beni aventi rilevanza paesistica si è sviluppata prima attraverso un meccanismo di vincolo per mezzo di notifica d’interesse pubblico nei confronti delle bellezze naturali e panoramiche successivamente attraverso un provvedimento pianificatorio più esteso.
La giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del cod. beni cult. ha evidenziato che il procedimento di pianificazione deve necessariamente riguardare beni già soggetti a vincolo.

Il piano paesistico territoriale, già previsto dall'art. 5, l. 29.6.1939, n. 1497, e adesso espressamente richiamato dall'art. 1 bis, l. 8.8.1985, n. 431, e dall'art. 149, d.lg. 29.10.1999 n. 490, attiene ad una fase successiva rispetto a quella dell'imposizione del vincolo paesaggistico, e più precisamente alla fase della pianificazione della tutela delle zone dichiarate di particolare interesse sotto il profilo paesaggistico, al fine di programmare la salvaguardia dei valori paesistico - ambientali di tali zone con strumenti idonei ad assicurare il superamento dell'episodicità, inevitabilmente connessa a semplici interventi autorizzatori
(T.A.R. Sicilia Catania, sez. I, 15.7.2003, n. 1135).

La giurisprudenza ha risolto il rapporto esistente fra vincolo paesaggistico preesistente e piano paesistico sostenendo la supremazia del vincolo rispetto al piano.
E’ il piano che deve rispettare il vincolo preesistente senza possibilità di derogarlo o modificarlo.

Il piano territoriale paesaggistico costituisce espressione dell'autoregolamentazione preventiva di alcuni aspetti della discrezionalità tecnica ed orienta, essenzialmente in negativo, il giudizio che presiede all'autorizzazione ex art. 7, l. 29.6.1939, n. 1497; essendo in posizione inferiore, esso ha nel vincolo il suo titolo ed il suo limite e non può modificarlo o derogare ad esso, ma può (anzi, ex art. 1 bis, l. 8.8.1985, n. 431, deve, per ciò che attiene alla normativa d'uso e di valorizzazione ambientale del territorio) solo specificare i contenuti precettivi, ed il contrasto fra i due va risolto in favore del vincolo.
(T.A.R. Sardegna, 6.10.2003, n. 1203).

Il piano paesistico suppone l'esistenza e la permanenza del vincolo paesaggistico come pure di altri eventuali vincoli, di finalità concorrente - quale quello di carattere archeologico di cui alla l. n. 1089 del 1939 - insistenti sulle medesime zone, sicché la relativa adozione non può, in ogni caso, comportare il venir meno degli altri vincoli (Cons. St., sez. IV, 29.7.2003, n. 4351).




2. Il contenuto.

Legislazione: d.lg. 22.1.2004, n. 41, art. 143, 3° co.

Bibliografia: Mengoli 2003 – D’Angelo 2004.

La dottrina nota che la maggior parte del territorio nazionale è soggetta al vincolo paesaggistico con la conseguenza che la maggior parte delle modifiche al regime del territorio è soggetta ad un complesso procedimento di controllo che comprende l’autorizzazione della regione o dell’ente di controllo con possibilità di conflittualità fra i vari piani.

Vasti territori soggetti a vincolo sono compresi in piani paesistici, che normalmente risultano incompatibili con molti altri strumenti di disciplina degli interventi sul territorio (i vari piani urbanistici, i piani di bacino per la difesa del suolo, i piani di sviluppo industriale, i piani dei parchi naturali, ecc.).
(D’Angelo 2004, 151).

Il nuovo codice beni cult. non semplifica questo groviglio normativo, ma fa sorgere ulteriori problemi interpretativi fra piani paesaggistici e piani urbanistico territoriali.
Il fatto che la normativa si faccia sempre più dettagliata nel determinare il contenuto del piano paesaggistico non basta a definire le problematiche di fondo relative alla coesistenza di questi strumenti urbanistici.

3. Il piano paesaggistico ha contenuto descrittivo, prescrittivo e impositivo. La sua elaborazione si articola nelle seguenti fasi:
a) ricognizione dell'intero territorio, attraverso l'analisi delle caratteristiche storiche, naturali, estetiche e delle loro interrelazioni e la conseguente definizione dei valori paesaggistici da tutelare, recuperare, riqualificare e valorizzare;
b) analisi delle dinamiche di trasformazione del territorio attraverso l'individuazione dei fattori di rischio e degli elementi di vulnerabilità del paesaggio, la comparazione con gli altri atti di programmazione, di pianificazione e di difesa del suolo;
c) individuazione degli ambiti paesaggistici e dei relativi obiettivi di qualità paesaggistica;
d) definizione di prescrizioni generali ed operative per la tutela e l'uso del territorio compreso negli ambiti individuati;
e) determinazione di misure per la conservazione dei caratteri connotativi delle aree tutelate per legge e, ove necessario, dei criteri di gestione e degli interventi di valorizzazione paesaggistica degli immobili e delle aree dichiarati di notevole interesse pubblico;
f) individuazione degli interventi di recupero e riqualificazione delle aree significativamente compromesse o degradate;
g) individuazione delle misure necessarie al corretto inserimento degli interventi di trasformazione del territorio nel contesto paesaggistico, alle quali debbono riferirsi le azioni e gli investimenti finalizzati allo sviluppo sostenibile delle aree interessate;
h) individuazione, ai sensi dell'articolo 134, lettera c), di eventuali categorie di immobili o di aree, diverse da quelle indicate agli articoli 136 e 142, da sottoporre a specifiche misure di salvaguardia e di utilizzazione.
(art. 143, d.lg. 22.1.2004, n. 41).

La giurisprudenza, prima dell’entrata in vigore del cod. beni cult., ha affermato che il piano urbanistico territoriale, pur destinato alla tutela ambientale, può essere esteso a tutto il territorio ossia anche alle zone non soggette a tutela paesistica.

Il piano territoriale di coordinamento paesistico coniuga da una parte le funzioni di disciplina urbanistica assegnate dall'art. 5, l. 1150 del 1942, al piano territoriale di coordinamento e dall'altra quelle di tutela dei valori paesistici ed ambientali rimesse al piano territoriale paesistico dall'art. 1, l. 431 del 1985 - poi art. 149, d.lg. n. 490 del 1999: quindi tale piano appartiene a quella categoria di piani chiamati da un lato a comporre unitariamente lo sviluppo urbanistico del territorio con l'armonizzazione delle indicazioni dei vari piani comunali e dall'altro ad imporre una specifica tutela dei valori ambientali anche mediante la puntuale indicazione di vincoli e prescrizioni.

Il piano paesistico era, invece, uno strumento di attuazione e specificazione del contenuto precettivo del vincolo paesaggistico mediante l’individuazione dei vincoli.
La giurisprudenza ha sancito che il piano paesaggistico deve essere predisposto comprendendo tutte le zone meritevoli della tutela anche se alcune presentano solo indirettamente un interesse storico artistico.

Il vincolo paesaggistico di cui all'art. 1, lett. m), l. 8.8.1985, n. 431, pur presentando una spiccata significazione storica, in cui il profilo estetico si congiunge a quello culturale, resta una tutela distinta da quella di cui alla l. 1.6.1939, n. 1089, avendo ad oggetto non già direttamente i beni riconosciuti di interesse archeologico, ma piuttosto il loro territorio: è pertanto legittima l'apposizione del vincolo alle aree adiacenti a quelle in cui sono specificamente ubicati i reperti archeologici, dovendosi preservare il complessivo habitat territoriale.
(T.A.R. Lazio, sez. II, 26.5.2003, n. 4722, FATAR, 2003, 1661).

Il piano può avere una limitata estensione comprendendo solo i siti che hanno un interesse paesistico più evidente.
Esso, però, non comporta l’abrogazione di vincoli di protezione paesistica imposti in precedenza.

Il piano territoriale di coordinamento paesistico non ha la funzione di dettare compiutamente il regime urbanistico dell'intero territorio regionale, ma solo quella d'identificare e delimitare le zone giudicate meritevoli di una delle varie forme di speciale tutela meglio descritte nella parte normativa del piano stesso: tutto il resto del territorio, intuitivamente la maggior parte, rimane assoggettato alla ordinaria disciplina urbanistica nonché, dandosene il caso, ai vincoli derivanti da altra fonte, compresi, ad esempio, quelli di cui la legislazione statale sulla protezione delle bellezze naturali.
(Cons. St., sez. IV, 24.1.1995, n. 24, RGE, 1995, I, 408).

La dimensione della programmazione paesistica è, in ogni caso, lasciata alla discrezionalità dell’ente addetto alla redazione del piano.
Il dimensionamento del piano non è, infatti, censurabile nel merito, ma esso è impugnabile solo se la scelta delle aree ivi comprese è censurabile per motivi di legittimità.

E’ invece consentita, in sede di pianificazione urbanistica, l'estensione dell'efficacia del piano nell'esigenza di far salva una visione organica dell'intero territorio regionale, e di provvedere alla tutela dei valori paesistici nel quadro di una valutazione complessiva dei valori coinvolti nell'assetto urbanistico.
Si tratta di strumento urbanistico, ancorché prevalentemente orientato verso la protezione di valori paesistici ed ambientali, nonostante l'ambiguità della terminologia usata che potrebbe addirittura portare ad ipotizzare un atto di natura mista, destinato a combinare le caratteristiche di ambedue i piani. Trattandosi di piano territoriale di stralcio cade anche il secondo ordine di censure formulato dall'organo di controllo, essendo consentito con piani siffatti imporre prescrizioni immediatamente vincolanti per i soggetti privati.
(Corte cost., 13.7.1990, n. 327, FI, 1991, I, 2010).

L’inserimento di aree da tutelare non può essere limitato da precedenti destinazioni, soprattutto se queste contrastano con la vocazione originaria delle aree che ora si intende tutelare.

La circostanza che la zona sottoposta a vincolo paesistico fosse già caratterizzata dalla presenza di insediamenti industriali non preclude l'apposizione del vincolo stesso, anzi tale situazione maggiormente richiede che si eviti che nuove costruzioni deturpino ulteriormente l'ambiente protetto.
(T.A.R. Lazio, sez. II, 26.5.2003, n. 4722, FATAR, 2003, 1661).

Il contenuto del piano è stato inteso in maniera estensiva così da ampliare l’efficacia di una tutela più diffusa degli aspetti paesistico-ambientali

L'efficacia degli strumenti di pianificazione urbanistica è normalmente orientata verso l'assetto dell'intero territorio di spettanza dell'ente investito del potere di pianificazione.
Pur se l'art. 1 bis, l. 8.8.1985, n. 431, riferisce il piano paesistico ai beni ed alle aree sottoposte a vincolo paesaggistico, legittimamente la regione Campania ne ha ampliato l'efficacia nell'esercizio delle sue competenze urbanistiche, a tutela dei valori paesistico-ambientali del territorio.
Né l'inderogabilità del vincolo così disposto può dirsi in contrasto con i principi affermati dall'art. 7, l. 1497 del 1939, sulla protezione delle bellezze naturali e dall'art. 82, 9° co. del d.p.r. 616/1977, che consentono la deroga del vincolo paesaggistico in forza di apposita autorizzazione.
Si tratta di una misura di salvaguardia, non assoluta né temporalmente illimitata, prodromica all'approvazione dei piani regolatori generali adeguati al piano urbanistico-territoriale.
(Corte cost., 7.11.1994, n. 379, RGE, 1995, I, 79).

I piani paesistici non fanno venire meno, ma anzi presuppongono l'esistenza del vincolo paesaggistico, sia che lo stesso sia stato imposto dalla regione nell'esercizio delle funzioni delegate sia che esso sia stato imposto dall'amministrazione statale. L’imposizione del vincolo comporta l’obbligo di munirsi del preventivo nulla osta, ora di competenza della regione, con possibilità di delega agli enti locali per l’esecuzione di lavori sui beni vincolati (Mengoli 2003, 83).



2.1. La pianificazione paesistica e sviluppo sostenibile.

Legislazione d.lg. 22.1.2004, n. 41, art. 132.

1.      Bibliografia .


La disciplina ha cominciato a prendere corpo in virtù dell'introduzione, con i trattati di Maastricht e di Amsterdam, dello «sviluppo sostenibile», del principio di integrazione dell'interesse ambientale nelle politiche comunitarie, nonché dell'elevato livello di tutela e di precauzione. Ulteriori innovazioni sono state apportate, oltre che dalla Carta di Nizza, dalla Carta dei diritti dell'Unione europea che ha in particolare introdotto il principio di solidarietà.
La tutela dell'ambiente trova le basi nel diritto comunitario
(8) per ciò che riguarda la maggior parte degli aspetti quali l'inquinamento (9), i rifiuti, la gestione del territorio e del patrimonio faunistico e paesaggistico, l'informazione ambientale (10).
Il principio dello sviluppo sostenibile costituisce uno dei più importanti obbiettivi da raggiungere in materia di tutela ambientale ed è possibile individuarlo, oltre che nella disciplina comunitaria, anche in quella nazionale
(11).
Il d.lg. n. 42 del 2004 all'art. 132 fa ampio riferimento al predetto principio prevedendo che gli indirizzi e i criteri individuati dalle amministrazioni pubbliche sono tesi al perseguimento degli obiettivi della salvaguardia del paesaggio anche nella prospettiva dello sviluppo sostenibile.
Il perseguimento del predetto scopo ad opera di più ordinamenti rende difficile l'individuazione di un concetto unitario di sviluppo sostenibile, stante l'acceso dibattito fra coloro i quali, incentrando l'attenzione sulla difesa delle risorse naturali dalle possibili minacce derivanti dallo sviluppo, ritengono che la protezione dell'ambiente sia il sostrato indispensabile allo sviluppo economico e coloro che, ponendo attenzione al valore intrinseco delle aree naturali, affermano che lo sviluppo sia direttamente proporzionale al miglioramento progressivo della qualità della vita
(12).
La tutela dell'ambiente sembra divisa, pertanto, fra la preservazione delle aree naturali e i benefici economici che dall'uso di esse può derivare
(13). Individuare un punto di equilibrio tra i predetti interessi risulta indispensabile allo sviluppo che può essere realizzato a seguito di un'attenta ponderazione e della scelta, fra le possibili opzioni, di quella tecnicamente più valida ed opportuna.
La soluzione può consistere nel perseguimento sia della preservazione del bene che dell'utilizzo dello stesso, al fine di ottenerne vantaggi economici attraverso la c.d. ottimizzazione statica
(14) per l'economia della collettività che si realizza nei casi in cui il sacrificio del bene trovi adeguato ristoro nel vantaggio economico da esso derivante.
Altra teoria riguarda la c.d. ottimizzazione dinamica che privilegia la valorizzazione del progresso tecnologico, diretto a consentire che i beni ambientali, anche se sfruttati, vengano, comunque, preservati da ogni eventuale deterioramento connesso all'uso.
La tutela costituzionalmente garantita
(15) presenta gli aspetti sia della globalità che dell'integrità poiché le risorse naturali necessitano di protezione complessiva non limitata a specifici ed individuati elementi, ma riguardante le bellezze naturali in toto, nel rispetto delle loro peculiarità intrinseche, a prescindere dall'intervento della mano dell'uomo.
Il progresso e le innovazioni tecnico-scientifiche, tese sempre più all'acquisizione di utili derivanti dallo sfruttamento dei beni naturali, si pongono spesso in conflitto con le problematiche legate alla salvaguardia del bene protetto, tanto da rendere necessario l'utilizzo di un sistema che, pur consentendo lo sviluppo dell'area, ne garantisca la protezione.
Da qui l'introduzione e valorizzazione del concetto di «protezione sostenibile», stante il prevalere dell'interesse alla tutela ambientale sullo sviluppo, che può essere perseguito nei limiti in cui non determini l'alterazione delle aree protette.
Il tradizionale concetto di sviluppo sostenibile pone l'attenzione sull'esigenza di trarre dei benefici economici, derivanti dallo sfruttamento del bene ambientale, purché da ciò non derivi un danneggiamento permanente del bene stesso. In alcuni casi, al fine di privilegiare l'interesse allo sviluppo, si permette che il bene venga aggredito, purché possa rigenerarsi nel rispetto dei cicli riproduttivi della natura.
Al contrario la «protezione sostenibile» si traduce nella conservazione delle risorse naturali allo scopo di ottenere dei vantaggi economici, in quanto essi sono assicurati proprio dall'assenza di contaminazione delle bellezze della natura il cui apporto economico non è dato dal relativo sfruttamento, ma dalla protezione dello stato in cui si trovano. La protezione delle aree deve pertanto essere completa ed imprescindibile a meno che non sia possibile perseguire interessi diversi, senza che i beni ambientali subiscano alcuna significativa alterazione.
3. L'istituzione dei parchi naturali e il principio di leale collaborazione fra Stato, regioni ed enti locali.
Altro aspetto su cui il Collegio si è soffermato riguarda l'interpretazione delle norme relative alla competenza ad istituire parchi nazionali, con particolare riguardo al riparto di competenza fra Stato e regioni previsto dal nuovo titolo V della Costituzione nella materia in oggetto, tenendo presenti i singoli momenti in cui la procedura si svolge ed i relativi effetti sullo Stato o sulle regioni.
I parchi naturali sono caratterizzati dalla combinazione dell'elemento territoriale e di quello istituzionale.
La ponderazione degli interessi va pertanto compiuta non solo a livello politico con valutazioni di carattere generale, ma anche da organi o enti che realmente si occupino di tutti gli interessi pubblici coinvolti.
Ne deriva che la predetta funzione non può essere svolta in via esclusiva dal Ministero dell'ambiente, cui spetta, a norma dell'art. 117, cost., così come modificato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, la competenza in materia legislativa, mentre per ciò che riguarda le attività amministrative, il Ministero è dotato soltanto di poteri di coordinamento e di indirizzo
(16).
La problematica relativa ai rapporti fra Stato e regioni, in merito all'istituzione dei parchi, è da tempo oggetto di studio. Uno degli aspetti principali riguarda la necessità di ottenere l'assenso o l'intesa della regione o degli enti locali all'istituzione dei parchi nazionali da parte dello Stato, competente ad assolvere tale ruolo ex art. 9 della Costituzione, considerato che l'interesse alla tutela dell'ambiente non attiene alle singole regioni ma riguarda l'intero territorio nazionale.
La predetta norma è stata più volte sottoposta all'esame della Corte costituzionale che, con numerose decisioni, ha sottolineato la stretta correlazione esistente tra l'art.9 e l'art. 5 della Costituzione che riconosce, fra gli obbiettivi perserguibili dallo Stato, quello della promozione delle autonomie locali attuato in virtù del decentramento realizzato con la l. cost. n. 3 del 2001.
L'art. 9, cost., se da una parte si riferisce ad interessi di valore primario non suscettibili di subordinazione
(17), quali la tutela paesaggistica ed ambientale, dall'altra, nel perseguire tali interessi, non può prescindere dalla cooperazione degli enti periferici, in modo tale che la sinergia delle amministrazioni centrali e di quelle territoriali determini il pieno raggiungimento degli obbiettivi prefissati.
Le pronunce della Corte costituzionale sin dagli anni '80 avevano introdotto il principio della leale cooperazione reciproca fra lo Stato e le regioni, interpretando in tal senso il d.P.R. 3 dicembre 1975 n. 805 e il principio della legittimità della pretesa dello Stato di ottenere dalle regioni informazioni utili alla protezione del paesaggio
(18).
Appare chiaro che le regioni svolgono una funzione di collaborazione e di supporto ad attività la cui competenza spetta allo Stato.
Il codice dei beni culturali all'art. 132 comma 4 attribuisce al ministero e alle regioni la competenza a definire le politiche di tutela e valorizzazione del paesaggio tenendo conto delle osservazioni e proposte formulate dall'Osservatorio nazionale per la qualità del paesaggio e dagli Osservatori regionali, ma resta in capo al Ministero dell'ambiente la competenza all'approvazione dei progetti di bonifica, del ripristino ambientale
(19), dell'individuazione delle aree naturali e dell'istituzione di un parco nazionale.



3. La ripartizione delle competenze regionali e statali nella procedura di approvazione.

Legislazione l. 1497/1939, art. 5 - d. lg. 29.10.1999, n. 490, art. 149 - d.lg. 22.1.2004, n. 41, artt. 139, 140, 143, 10°, 12° co.

2.      Bibliografia Mengoli 2003 – D’Angelo 2004 - Centofanti 2005.


L’art. 143, d.lg. 22.1.2004, n. 41, ha innovato il procedimento di approvazione prima disciplinato dall’art. 5, l. 1497/1939.
Nelle norme che disciplinano il procedimento di approvazione si nota l’incertezza nel definire il confine fra le competenze statali e regionali in materia paesaggistica.
Dopo avere affermato la competenza regionale l’art. 143, 10° co., d.lg. 22.1.2004, n. 41, prevede la stipula di accordi tra le regioni ed il Ministero per i beni e le attività culturali per l’elaborazione di intesa dei piani.
Detto accordo deve fissare il termine per l’approvazione del piano, una volta scaduto il quale scatta il potere sostitutivo statale.

10. Le regioni, il Ministero e il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio possono stipulare accordi per l'elaborazione d'intesa dei piani paesaggistici. Nell'accordo è stabilito il termine entro il quale è completata l'elaborazione d'intesa, nonché il termine entro il quale la regione approva il piano. Qualora all'elaborazione d'intesa del piano non consegua il provvedimento regionale, il piano è approvato in via sostitutiva con decreto del Ministro, sentito il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio.
11. L'accordo di cui al comma 10 stabilisce altresì presupposti, modalità e tempi per la revisione periodica del piano, con particolare riferimento alla eventuale sopravvenienza di provvedimenti emanati ai sensi degli
artt. 140 e 141.
(art. 143, d.lg. 22.1.2004, n. 41).
Tale procedura concordata fra lo Stato e le Regioni modifica il precedente esercizio del potere sostitutivo nell’approvazione dei piani già previsto dall'art. 4 del d.p.r. 616/1977 nei casi di persistente inattività degli organi regionali (Centofanti N. 2005, 203).
Detti atti sostitutivi sono esercitati dal Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro competente, ai sensi dell’art. 2, l. 382/1975.

Spetta allo Stato disporre, mediante il decreto del presidente della repubblica del 15 giugno 1994, la sostituzione dell'amministrazione regionale della Campania con il ministero per i beni culturali ed ambientali ai fini del compimento degli atti necessari per la redazione e l'approvazione del piano territoriale paesistico della regione Campania.
E’ inammissibile il conflitto di attribuzione sollevato dalla regione Campania avverso l'esercizio del potere sostitutivo statale, giacché, secondo la norma di cui all'art. 1 bis, l. 431/1985 detto potere è legittimamente esperito allorché alla scadenza del termine del 31.12.1986 la regione non ha approvato un piano territoriale paesistico o un piano urbanistico-territoriale riferito alle aree su cui insiste il vincolo paesaggistico
(Corte cost., 13.2.1995, n. 36, FI, 1995, I, 746).

Il termine è stato considerato come ordinatorio, nel senso che la regione non perde il potere pianificatorio, ma il Ministero dei beni culturali ed ambientali può dare inizio all'esercizio dei poteri sostitutivi

Il termine previsto per l'approvazione dei piani paesistici da parte delle regioni, dall'art. 1 bis della l. 431/1985, non ha natura perentoria e il suo decorso non comporta l'estinzione del potere demandato alle regioni, avendo la sola funzione di stabilire il momento dal quale diviene legittimo il ricorso a misure sostitutive
(Cons. St., sez. VI, 30.9.1997, n. 1411, FA, 1997, 2355).

La dottrina precisa che l'esercizio dei poteri sostitutivi statali non determina l'esaurimento di quelli regionali, il cui esplicarsi costituisce in effetti un modulo fisiologico. Da tale circostanza deriva che la relativa inerzia rappresenta un presupposto indefettibile per l'eventuale intervento suppletivo (D'Angelosante M. 2003, 571).
Solo la stipula dell’accordo statale consente l’esclusione dall’autorizzazione paesaggistica nelle sudddette zone vincolate sia per legge sia mediante provvedimento amministrativo.

12. Qualora l'accordo di cui al comma 10 non venga stipulato, ovvero ad esso non segua l'elaborazione congiunta del piano, non trova applicazione quanto previsto dai commi 5, 6, 7 e 8.
(art. 143, d.lg. 22.1.2004, n. 41).

La normativa regionale deve, pertanto, ridisegnare il precedente procedimento di approvazione (Mengoli 2003, 89).
La giurisprudenza precedente ha sempre valutato in modo rigoroso l’apporto dei privati in sede di opposizione alle disposizioni del piano. Essa ha sancito che il provvedimento di approvazione del piano paesistico deve contenere cenni, per quanto sintetici, sul contenuto delle opposizioni avanzate dai proprietari interessati, in modo che risulti dall'atto che il loro apporto collaborativo è stato disatteso per ragionevoli motivi (Cons. St., sez. II, 17.5.1978, n. 925, RGE, 1981, I, 146).
L'opposizione dei proprietari interessati al piano territoriale paesistico deve ritenersi un'opposizione in itinere, cioè proposta durante il procedimento di formazione dell'atto amministrativo.

E’ sufficiente tenerne conto nell'adottando provvedimento, indicandone anche per implicito le ragioni dell'accoglimento o della reiezione, senza che sia necessaria una configurazione analitica dei singoli motivi dedotti con l'opposizione stessa ed essendo sufficiente che tale opposizione sia stata esaminata e ritenuta in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano.
(Cons. St., sez. IV, 15.7.1992, n. 682, RGE, 1993, I, 112).



3.1. La costituzionalità del procedimento in rapporto alla partecipazione degli enti locali.

Legislazione d.lg. 22.1.2004, n. 41, art. 149.

La giurisprudenza ha ritenuto che il procedimento di pianificazione non contempli la partecipazione degli enti locali.
Essa ha rilevato una lesione del potere di pianificazione territoriale attribuito agli enti locali rimettendo gli atti alla Corte costituzionale.

E' incongrua e non effettiva la partecipazione di comuni interessati, nel sistema d’approvazione dei p.t.p.r. disciplinata dalla normativa statale (operante nella Regione siciliana per il mancato esercizio della potestà legislativa esclusiva), tenuto anche conto della natura e finalità delle prescrizioni per una tutela ambientale e culturale; pertanto, ai sensi dell'art. 23, l. 11.3.1953, n. 87, è rilevante e non manifestamente infondata, la questione di costituzionalità relativa all'art. 149, d. lg. 29.10.1999, n. 490, nella parte in cui non disciplina la partecipazione degli enti locali e all'art. 14, l. r. Sicilia 30.4.1991, n. 10, nella parte in cui dispone che le disposizioni in tema di partecipazione degli enti locali ai procedimenti non si applicano nei confronti dell'attività della p.a. diretta all'emanazione di atti normativi, di atti amministrativi generali, di atti di pianificazione, per violazione degli artt. 5 e 128, cost., e cioè per lesione dell'autonomia riservata ai comuni in materia di pianificazione urbanistica.
(T.A.R. Sicilia, sez. I, Catania, 24.1.2002, ord. n. 41, FATAR, 2002, 273).

La Corte costituzionale ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale relative all'art. 149, d.lg. 29.10.1999, n. 490, mod. art. 143, d.lg. 22.1.2004, n. 41, e all'art. 14, l. r. Sicilia 30.4.1991, n. 10, sollevate con riferimento agli artt. 5 e 128 cost., rilevando che le disposizioni in oggetto non prevederebbero adeguate forme di partecipazione degli enti locali interessati alle procedure di pianificazione ambientale (Corte cost., 26.11.2002, n. 478, DFor, 2003, 63).
La Corte ha verificato la legittimità del procedimento fissato dagli artt. 4 e 5 della l. 1497 del 1939, e dagli artt. 23, 2° co., e 24, 2° co., del relativo regolamento di esecuzione, disciplinanti l'iter di approvazione del piano. Le norme sono state in parte trasfuse negli artt. 139 e 140 d.lg. 22.1.2004, n. 41.
Le disposizioni censurate prevedevano, in primo luogo, la pubblicazione del piano mediante affissione per un periodo di tre mesi nell'albo dei Comuni interessati ed il deposito di una copia di esso nella segreteria dei Comuni stessi affinché chiunque ne potesse prendere visione, stabilendo, altresì, che nei tre mesi successivi i soggetti interessati potessero far pervenire le proprie osservazioni, esaminate le quali, ed all'esito delle eventuali modifiche apportate, il piano veniva definitivamente approvato.
Alle forme partecipative previste dalla normazione statale si sono aggiunte ulteriori forme collaborative in sede tecnica fra gli enti locali e gli organi regionali preposti alla elaborazione del piano, delle quali è data notizia in premessa al decreto assessorile.
La Corte ha valutato che queste forme di coinvolgimento degli enti locali interessati escludono il contrasto con i principi contenuti nello statuto della Regione Siciliana e nella Costituzione.
La Corte ha chiarito che la legge nazionale, regionale o delle Province autonome può modificare le caratteristiche o l'estensione del piano paesistico, ovvero subordinarlo a preminenti interessi pubblici, alla condizione di non annullarli o comprimerli radicalmente, garantendo adeguate forme di partecipazione dei Comuni interessati ai procedimenti che ne condizionino l'autonomia.

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 5, 6, 55 l. n. 47 del 1978 della Regione Emilia Romagna, e dell'art. 15 della l. n. 36 del 1988 della Regione Emilia Romagna, ove non prevedono forme di partecipazione necessaria dei comuni interessati al procedimento di approvazione del piano territoriale paesistico, per violazione dell'art. 128 cost.
Il diritto del comune di partecipare in modo effettivo e congruo al procedimento di approvazione degli strumenti urbanistici regionali che abbiano effetti sull'assetto del proprio territorio deve ritenersi sufficientemente garantito dagli artt. 4 e 5 della l. 47 del 1978 della Regione Emilia - Romagna, ove prevedono che i comuni siano sentiti sul piano "per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali e ambientali", e che sullo stesso essi "dovranno formulare pareri e proposte entro novanta giorni dalla richiesta della Regione.
(Corte cost., 27.7.2000, n. 378, UA, 2000, 1183, nota Manfredi).

Rispetto alla tutela del paesaggio e dell'ambiente non può configurarsi né un assorbimento dei compiti di autogestione del territorio, come espressione dell'autonomia comunale, né tanto meno una esclusività delle funzioni comunali in forza della stessa autonomia in campo urbanistico.
Attraverso i piani urbanistici il Comune può, nella sua autonomia, in relazione ad esigenze particolari e locali, imporre limiti e vincoli più rigorosi o aggiuntivi anche con riguardo a beni vincolati a tutela di interessi culturali ed ambientali.
Il Comune ha diritto di partecipare, in modo effettivo e congruo, nel procedimento di approvazione degli strumenti urbanistici regionali che abbiano effetti sull'assetto del proprio territorio; esso deve tuttavia evitare che questa partecipazione possa creare situazioni di stallo decisionale che esporrebbero a gravi rischi un interesse generale tanto rilevante come la tutela ambientale e culturale.
Spetta alla discrezionalità del legislatore statale, regionale o provinciale, a seconda delle diverse normative costituzionali o statutarie, graduare le forme di partecipazione dei Comuni al procedimento di elaborazione dei piani paesistici regionali; la concreta disciplina legislativa non potrà mai del tutto escludere o sostanzialmente estromettere tali Enti dalle decisioni riguardanti il proprio territorio.
I Comuni, infatti, hanno modo di partecipare sia alla fase tecnica di redazione del piano sia all'iter procedimentale di approvazione dello stesso, presentando osservazioni.




4. Gli effetti dell’approvazione sulla pianificazione comunale.

Legislazione d. lg. 29.10.1999, n. 490, art. 150 - d.lg. 22.1.2004, n. 41, art. 145.

3.      Bibliografia D’Alessio 2004.


Nelle normativa precedente le norme contenute nel piano territoriale paesistico, dirette alla tutela delle bellezze naturali e del paesaggio, erano distinte dalle norme urbanistiche.
Tali norme non incidevano sul potere dell'autorità comunale di provvedere - attraverso il piano regolatore generale - sia alla divisione in zone del territorio comunale sia alla imposizione di vincoli e di caratteri da osservare in ciascuna zona.
La pianificazione paesistica è stata successivamente posta al centro della tutela paesaggistica.
Il nuovo cod. beni cut. attribuisce a detti piani paesistici un ruolo preminente rispetto agli altri strumenti di pianificazione territoriale.

Il codice dei beni culturali ha non solo previsto che la pianificazione paesistica è obbligatoria e si deve estendere all’intero territorio della regione, ma anche ha affermato che le previsioni in esse contenute sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni eventualmente difformi contenute negli strumenti urbanistici.

4.      (D’Alessio 2004, 131).


La preminenza dell'interesse alla tutela del paesaggio consente alla pianificazione paesaggistica ambientale di dettare norme minime inderogabili rispetto alle quali la pianificazione urbanistica di piano deve successivamente adeguarsi, obbligando i comuni a conformarsi secondo le direttive regionali, art. 145, d.lg. 22.1.2004, n. 41.

1. Il Ministero individua ai sensi dell'articolo 52 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 le linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione.
2. I piani paesaggistici prevedono misure di coordinamento con gli strumenti di pianificazione territoriale e di settore, nonché con gli strumenti nazionali e regionali di sviluppo economico.
3. Le previsioni dei piani paesaggistici di cui agli
articoli 143 e 156 sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in attesa dell'adeguamento degli strumenti urbanistici e sono altresì vincolanti per gli interventi settoriali. Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione.
4. Entro il temine stabilito nel piano paesaggistico e comunque non oltre due anni dalla sua approvazione, i comuni, le città metropolitane. le province e gli enti gestori delle aree naturali protette conformano e adeguano gli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica alle previsioni dei piani paesaggistici, introducendo, ove necessario, le ulteriori previsioni conformative che, alla luce delle caratteristiche specifiche del territorio, risultino utili ad assicurare l'ottimale salvaguardia dei valori paesaggistici individuati dai piani. I limiti alla proprietà derivanti da tali previsioni non sono oggetto di indennizzo.
5. La regione disciplina il procedimento di conformazione ed adeguamento degli strumenti urbanistici alle previsioni della pianificazione paesaggistica, assicurando la partecipazione degli organi ministeriali al procedimento medesimo.
(art. 145, d.lg. 22.1.2004, n. 41).

La giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del cod. beni cult. ha, peraltro, ritenuto legittime le indicazioni di adeguamento più restrittive rispetto a quelle contenute nei piani regolatori previgenti.
Il Piano paesistico ambientale regionale può dettare indirizzi ai comuni per la redazione degli strumenti urbanistici in adeguamento, attribuendo al p.r.g. il compito di valutare la capacità del territorio di sostenere le trasformazioni, fino a far divenire la salvaguardia delle risorse paesistico-ambientali parte integrante di detto strumento urbanistico.

Attraverso analisi specifiche propedeutiche al p.r.g. devono essere approfondite e dettagliate le conoscenze sulle risorse paesaggistiche ed ambientali presenti nel territorio comunale che, evidentemente, non possono essere contenute in un piano a scala regionale; i comuni hanno quindi facoltà di inserire nuovi ambiti di tutela sulla scorta delle analisi preliminari svolte o di restringere le tutele previste dal p.r.g., fino alla totale eliminazione dei relativi ambiti.
(T.A.R. Marche, 27.9.2004, n. 1505, FATAR, 2004, 2522).

La giurisprudenza afferma che il piano regolatore può, inoltre, introdurre delle disposizioni più rigorose rispetto a quelle contenute nel piano paesistico.

La genericità delle previsioni contenute in un piano territoriale di coordinamento paesistico regionale legittima l'introduzione nel piano regolatore generale, attraverso modifiche d'ufficio ai sensi del comma 2, art. 10, l. 17.8.1942, n. 1150, di regole specifiche più rigorose rispetto a quelle contenute nel piano regionale al fine di rendere il piano comunale maggiormente rispettoso dei valori paesistico – ambientali.
(Cons. St., sez. IV, 26.9.2001, n. 5038, RGA, 2002, 533, nota Difino).

Il piano territoriale di coordinamento paesistico comporta l'obbligo generalizzato ai comuni, che sono i soggetti cui compete l’accertamento della conformità ai piani vigenti per gli interventi sul territorio, di astenersi da comportamenti che siano in grado di pregiudicare le previsioni del piano medesimo.

Il piano paesistico non ha una mera funzione programmatoria, ma è immediatamente imperativo e vincolante nei confronti dei privati, e, in forza dell'art. 23, r.d. 3.6.1940, n. 1357, può prevedere, per le diverse zone del territorio, una serie distinta di divieti, limitazioni e prescrizioni in relazione agli usi suscettibili di arrecare pregiudizio agli interessi paesistico - ambientali, tra cui limiti rigorosi ad un'ulteriore edificazione.
(T.A.R. Campania, sez. I, Napoli, 10.9.1998, n. 2853, RGA, 1999, 684 nota Ceruti).

La supremazia assicurata dall'ordinamento al valore ambientale, fa sì che le previsioni di tutela del paesaggio prevalgano su ogni altra disciplina concernente l'assetto del territorio.
I piani regolatori debbono conformarsi alle indicazioni dei piani paesistici dalla data di approvazione del piano.

Ove si accedesse alla tesi di raccordare l'efficacia prescrittivi del piano territoriale paesistico solo a partire non dalla data di pubblicazione, ma da quella di approvazione, del piano territoriale paesistico, il più organico regime di tutela delle zone vincolate verrebbe a essere vanificato se, nelle more del perfezionamento dell'iter procedimentale, venissero consentite, in contrasto con il contenuto del piano, iniziative di modifica del territorio che, per di più, potrebbero ricevere maggiore impulso nell'imminenza di una regolamentazione di dettaglio più restrittiva.
(T.A.R. Lazio, sez. II, 2.2.2005, n. 1427, FATAR, 2005, f. 2, 425).




4.1. La costituzionalità dei limiti all’autonomia pianificatoria del comune.

Legislazione cost., artt. 42, 117, 128 - l. 17.8.1942, n. 1150, artt. 4, 5 e 6.
Bibliografia Cozzuto Quadri 1995 - Mengoli 2003.

Pur se l’art. 6, l. 17.8.1942, n. 1150 stabilisce che le disposizioni del piano territoriale di coordinamento incidono solo sul potere pianificatorio comunale, obbligandolo ad uniformare le sue norme (Mengoli G. C. 2003, 94), di fatto detti piani hanno inciso direttamente sulla possibilità di edificare pur alla presenza di una diversa pianificazione territoriale comunale.
Al comune spetta precisare definitivamente ove si possa edificare, rispettando comunque le linee di assetto generale del territorio regionale dettate finora dal P.T.C.P. e per il futuro dal piano territoriale regionale e dal piano territoriale di coordinamento provinciale.
La giurisprudenza costituzionale ha ritenuto possibile la diretta incidenza dei vincoli del piano territoriale fino alla modifica del piano regolatore, di fatto modificando direttamente le sue disposizioni senza attendere l’intervento uniformatore dell’ente locale (Cozzuto Quadri M.R. 1995, 279).
La questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, l. reg. Campania 27.6.1987, n. 35, di approvazione del piano urbanistico territoriale dell'area sorrentino-amalfitana - proposta, in riferimento agli artt. 117 e 42, cost., per la parte in cui la norma vieta il rilascio di concessioni edilizie per tutti i comuni dell'area interessata fino all'approvazione dei piani regolatori generali comunali adeguati al citato piano regolatore - non è fondata.
L'obbligo della temporaneità dei vincoli urbanistici è da considerare assolto quando la legge stabilisca misure di salvaguardia, in attesa dell'emanazione di piani regolatori comunali, prevedendo misure sostitutive nei confronti di enti inadempienti.
E' infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, l. reg. Campania 27.6.1987, n. 35 il quale stabilisce che, dopo l'entrata in vigore del piano urbanistico-territoriale regionale e fino all'emanazione dei piani regolatori generali comunali, non possono essere rilasciate concessioni edilizie, sollevata con riferimento all'art. 42, 3° co., cost., poiché la natura temporanea di tale misura di salvaguardia è assicurata dal fatto che, in caso di inadempienza dei comuni, entro un ragionevole limite temporale, è previsto il potere sostitutivo delle comunità montane e delle province, salvo l'ulteriore potere sostitutivo del prefetto competente, mediante la nomina di un commissario.
(Corte cost., 7.11.1994, n. 379, RGE, 1995, I, 279).

La questione di costituzionalità è stata riproposta poiché il giudice che l’ha sollevata ha affermato che il piano territoriale di coordinamento è un piano di direttive, vale a dire uno strumento di indirizzo e controllo con effetti nei confronti dei comuni interessati, che sono tenuti ad uniformare ad esso i rispettivi piani regolatori generali.
Essi, quindi, devono, mediante questo strumento, tradurre criteri di mero indirizzo ed orientamento generale in prescrizioni direttamente incidenti sulle situazioni giuridiche facenti capo agli amministratori.
Secondo tale indirizzo giurisprudenziale sembra, pertanto, da escludere - proprio perché in contrasto con i principi direttivi della legge urbanistica - l’effetto operativo e normativo diretto dei detti piani regolatori territoriali nei confronti dei privati e delle loro proprietà essendo preventivamente necessaria l’intermediazione dei piani regolatori generali.

Non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 5, 3° co., e 6, 2° co., l. reg. Emilia Romagna 7.12.1978, n. 47, con modificazione dagli artt. 2 e 3, l. reg. 29.3.1980 n. 23, nonché degli artt. 15, l. reg. 5.9.1988, n. 36 e 55, l. reg. 7.12.1978, n. 47, per violazione dell'art. 117 cost. - in quanto, prevedendo la diretta operatività nei confronti dei privati del piano territoriale paesaggistico regionale che si inquadra nella categoria dei piani territoriali di coordinamento, contrastano con i principi fondamentali stabiliti dagli artt. 4, 5 e 6, l. 17.8.1942, n. 1150 - e dell'art. 128 cost. - in quanto sottraggono ai Comuni la posizione di centralità in sede di pianificazione territoriale attribuita dalle leggi statali.
(T.A.R. Emilia Romagna, sez. I, Bologna, 4.7.1996, RGE, 1999, I, 21).

Il potere dei Comuni di autodeterminarsi in ordine all'assetto e alla utilizzazione del proprio territorio non costituisce elargizione che le Regioni, che hanno la competenza in materia urbanistica, siano libere di compiere, in quanto l'art. 128 garantisce con previsione di principio l'autonomia degli enti infra regionali non solo nei confronti dello Stato, ma anche nei rapporti con le stesse Regioni (Corte Cost. n. 378/00, n. 286/97, n. 83/97).
Le leggi regionali non possono mai comprimere la posizione di autonomia del comuni fino a negarla, ma l'autonomia comunale non implica una riserva intangibile di funzioni e non esclude che il legislatore regionale possa, nell'esercizio della sua competenza, individuare le dimensioni della stessa autonomia, valutando la maggiore efficienza della gestione a livello sovracomunale degli interessi coinvolti.

Sono infondate le questioni di legittimità costituzionale - sollevate in riferimento agli art. 117 (in relazione agli art. 5 e 6 l. n. 1150 del 1942) e 128 cost. - del combinato disposto degli art. 5 comma 3 e 6 comma 2 l. reg. Emilia Romagna 7 dicembre 1978 n. 47 (Tutela ed uso del territorio) - nel testo introdotto dagli art. 2 e 3 l. reg. 29 marzo 1980 n. 23 (Norme per l'acceleramento delle procedure relative agli strumenti urbanistici, nonché norme modificative ed integrative delle l. reg. 31 gennaio 1975 n. 12, 24 marzo 1975 n. 18, 12 gennaio 1978 n. 2, 2 maggio 1978 n. 13, 1 agosto 1978 n. 26, 7 dicembre 1978 n. 47 e 13 marzo 1979 n. 7) - nonché degli art. 15 l. reg. 5 settembre 1988 n. 36 (Disposizioni in materia di programmazione e pianificazione territoriale) e 55 della predetta l. reg. n. 47 del 1978, nella parte in cui prevedono, da un lato, che le prescrizioni contenute nei piani territoriali stralcio (ed in particolare nel piano territoriale paesistico regionale), che comportino vincoli di carattere generale o particolare, sono immediatamente precettive nei confronti di chiunque e prevalgono sulle diverse destinazioni d'uso contenute negli strumenti urbanistici vigenti o adottati, dall'altro, che si applicano le misure di salvaguardia sulla domanda di rilascio di concessione edilizia quale conseguenza dell'adozione dei predetti piani e che si protraggono in regime transitorio i predetti effetti. Il piano territoriale paesistico regionale, infatti, deve avere gli effetti tipici che la legislazione regionale prevede per questo tipo di piani. Essi possono quindi essere configurati non solo per produrre gli effetti propri di un piano territoriale di coordinamento urbanistico, destinato ad orientare e condizionare (con direttive) l'azione dei soggetti pubblici investiti di competenze di pianificazione urbanistica, ma anche per avere, relativamente alla parte contenente previsioni e prescrizioni comportanti vincoli di carattere generale o particolare, efficacia impeditiva e paralizzante di qualsiasi intervento edificatorio difforme.
(Corte cost., 27.7.2000, n. 378, Regioni 2001, 106 nota (BIN; GROPPI)

Tale quadro appare ora ulteriormente rafforzato con la revisione del titolo V della Costituzione: infatti l'art. 118 stabilisce, com'è noto, l'attribuzione naturale di tutte le funzioni amministrative ai Comuni con la sola deroga delle esigenze dell'esercizio unitario di queste.



4.2. La non indennizzabilità delle disposizioni di vincolo di piano.

Legislazione cost., art. 97.

5.      Bibliografia: D’Angelo 2004 – Tuccillo 2004.


I beni immobili privati qualificati come bellezza naturale costituiscono, fin dall'origine, una categoria di interesse pubblico in virtù delle particolari qualità, previste dalla legge, che essi posteggino.
Quando l'amministrazione impone vincoli paesaggistici a tali beni, non ne modifica la qualità, né determina alcuna compressione del diritto su di loro, essendo connaturato a tali beni il limite che il vincolo imposto si è limitato ad evidenziare, con la conseguenza che la suddetta imposizione di vincoli da parte dell'amministrazione non determina l'insorgere di un diritto costituzionalmente garantito all'indennizzo.
Non si può, però, escludere la legittimità di specifiche disposizioni prevedenti, caso per caso, l'adozione di misure intese a ristorare il pregiudizio patito dai titolari di diritti sui beni oggetto del vincolo (Cass. civ., 19.11.1998, n. 11713).
La dottrina si pone il problema se i vincoli imposti dal piano paesaggistico devono considerarsi connaturati alle caratteristiche dell’area vincolata e quindi destinati a rimanere a tempo indeterminato senza indennizzo ovvero se devono essere indennizzati poiché non soggetti ad autorizzazione paesaggistica.

Il piano paesaggistico potrebbe anche dettare direttive di natura urbanistico edilizia; esso non sarebbe, pertanto, conforme ai principi costituzionali che siffatti vincoli di inedificabilità assoluta non assoggetta ai limiti delle norme del t.u. sugli espropri.
(D’Angelo 2004, 154).

Le norme sono state considerate conformi ai dettati costituzionali.
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, l. 1497 del 1939, dell’art. 23, r.d. 1357 del 1940 e dell’art. 1 bis, l. 431 del 1985, per contrasto con gli art. 97 e 128 cost., atteso che ben può il piano paesistico territoriale - nell'individuare i beni che siano ritenuti meritevoli di tutela - dettare prescrizioni in contrasto con il piano regolatore generale.
(Cons. St., sez. IV, 29.7.2003, n. 4351, FACDS, 2003, 2204).
La normativa ha posto i piani territoriali paesistici su un piano di assoluta equivalenza con i piani territoriali urbanistici, sicché tale riconosciuta reciproca integrazione di strumenti pianificatori può dar luogo, in determinate situazioni, ad imposizioni di condizionamenti alla sottostante programmazione urbanistica, in grado di risolversi, per il loro contenuto totalmente vincolante, in veri e propri vincoli di inedificabilità, con effetti giuridici indirettamente proiettati sulle posizioni dei privati.
I piani paesistici, secondo tale indirizzo, si muovono su di un livello sovraordinato alla programmazione urbanistica comunale e possono non tenere conto di quanto previsto dalla normativa comunale di piano al fine di assicurare la migliore tutela al paesaggio.
La dottrina critica tale impostazione giurisprudenziale poca garantista per il privato.
Essa pertanto afferma l’obbligatorietà della comunicazione di avvio del procedimento anche relativamente alla imposizione di vincoli paesistici (Tuccillo 2004, 617).


5. L'applicazione delle misure di salvaguardia.

Legislazione l. 431/1985, art. 1 ter.

In base all’art. 1 ter della l. 8.8.1985, n. 431, le regioni possono identificare, nell'ambito delle zone sottoposte a vincolo paesaggistico, quelle in cui trovano applicazione le misure di salvaguardia.

E' escluso il contrasto della norma predetta con l'art. 42 della costituzione che assoggetta l'approvazione del piano paesistico, dal quale discende il vincolo, essendo questo soggetto al controllo giurisdizionale di legittimità secondo i principi generali dell'ordinamento.
(Cons. St., sez. VI, 13.10.1993, n. 713, FA, 1993, 2117).

L'applicazione delle misure di salvaguardia è prevista fino all’approvazione dei piani paesistici per zone da definirsi con indicazioni planimetriche e catastali; essa determina vincolo temporaneo di inedificabilità nelle aree di proprietà privata.
La condizione per il venire meno, nelle zone espressamente identificate con l'apposita deliberazione, dell'applicazione di tali misure di salvaguardia, è costituita esclusivamente dall'intervenuta approvazione dei piani paesistici ovvero dei piani territoriali di coordinamento.
(Cons. St., sez. VI, 13.10.1993, n. 713, FA, 1994, 1174).

Le misure di salvaguardia possono essere derogate da interventi autorizzati in virtù della legislazione speciale, come, ad esempio, nel caso della realizzazione di nuove strutture alberghiere.

La dichiarazione di rilevanza economico - sociale della realizzazione di una nuova struttura alberghiera, preordinata allo stralcio dell'area di pertinenza dalle zone individuate ai sensi dell'art. 1, ter, l. 8.8.1985, n. 431, nelle quali è vietata ogni modificazione dell'assetto del territorio fino all'adozione dei piani paesistici da parte delle regioni, ai fini dell'edificabilità anticipata dell'area, trattandosi di opera riconducibile ad una tipologia di interventi pre-individuata dal legislatore come rispondente ad obiettivi di interesse generale, non richiede una specifica motivazione che dia esatto conto, in via preventiva, della necessità di nuove strutture in rapporto all'insufficienza dell'apparato ricettivo esistente, ogni qualvolta possano acclararsi, anche a posteriori, le potenzialità di sviluppo turistico di una zona.
(T.A.R. Lombardia Milano, sez. I, 5.6.2002, n. 2320, FATAR, 2002, 1885).

La legislazione regionale prevede, peraltro, a partire dalla data di adozione del piano paesistico ambientale, la sospensione delle autorizzazioni in contrasto col piano medesimo.

In base all'art. 11, 2° co., l. r. Marche, 8.6.1987, n. 26, è sospeso, dalla data di adozione del piano paesistico ambientale regionale, il rilascio dell'autorizzazione di cui all'art. 7, l. 29.6.1939, n. 1497, per opere ed interventi non conformi alle prescrizioni dettate per le zone di particolare interesse paesistico ambientale, per le quali costituiscono direttive vincolati i contenuti del piano.
(T.A.R. Marche, 15.5.1992, n. 316, T.A.R., 1992, I, 2832).



6. Le disposizioni regionali. I problemi di costituzionalità.

Legislazione cost. art. 117 - l. 1150/1942, artt. 5 e 6.

Le regioni non hanno la possibilità di modificare di ufficio gli strumenti urbanistici comunali vigenti in rapporto alle disposizioni del piano territoriale di coordinamento paesistico. Essi devono essere adeguati dall’ente locale secondo le normali procedure, consentendo l’eventuale contraddittorio agli interessati.

Il piano territoriale di coordinamento paesistico non si sovrappone direttamente e con immediata operatività ai preesistenti strumenti urbanistici, bensì comporta per i comuni l'obbligo di adeguare gli stessi alle proprie previsioni.
(T.A.R. Liguria, sez. I, 27.10.1992, n. 389, FA, 1993, 769).

La legislazione regionale ha previsto l’obbligo del recepimento del piano da parte della pianificazione urbanistica comunale.

Il termine di 360 giorni previsto dall'art. 1 della l. r. Abruzzo 5.9.1991, n. 59 per il recepimento, da parte dei comuni, del piano regionale paesistico, ha carattere ordinatorio, sicché il suo inutile decorso, in mancanza di idonei
atti, non comporta l'automatica efficacia del piano, rimanendo in vita, nelle more, le prescrizioni contenute negli strumenti urbanistici comunali generali o esecutivi vigenti alla data di approvazione del piano medesimo.
(T.A.R. Abruzzo, sez. L'Aquila, 27.9.1994, n. 655, FA, 1995, 167).

La Corte costituzionale ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento alle disposizioni regionali. Esse possono legittimamente disporre che le prescrizioni contenute nel piano territoriale paesistico regionale, che comportano vincoli di carattere generale o particolare, sono immediatamente precettive nei confronti di chiunque e prevalgono sulle diverse destinazioni d'uso contenute negli strumenti urbanistici vigenti o adottati.
Le norme regionali, inoltre, possono applicare le misure di salvaguardia sulla domanda di rilascio di concessione edilizia, ora permesso di costruire, quale conseguenza dell'adozione dei predetti piani e protrarre i predetti effetti in regime transitorio.
Nella specie è stata sancita la legittimità costituzionale degli artt. 5, 3° co., e 6, 2° co., l. r. Emilia Romagna 7.12.1978, n. 47, in relazione agli artt. 5 e 6, l. n. 1150 del 1942, rispetto agli artt. 117 cost. e 128 cost.
Il piano territoriale paesistico regionale, infatti, deve avere gli effetti tipici che la legislazione regionale prevede per questo tipo di piani.
Esso può quindi essere adottato non solo per produrre gli effetti propri di un piano territoriale di coordinamento urbanistico, destinato ad orientare e condizionare con direttive l'azione dei soggetti pubblici investiti di competenze di pianificazione urbanistica, ma anche per avere, relativamente alla parte contenente previsioni e prescrizioni comportanti vincoli di carattere generale o particolare, efficacia di impedire e paralizzare qualsiasi intervento edificatorio difforme.
Quanto alla lamentata violazione dell'art. 128 cost., le leggi regionali non possono mai comprimere la posizione di autonomia del comune fino a negarla, ma l'autonomia comunale non implica una riserva intangibile di funzioni e non esclude che il legislatore regionale possa, nell'esercizio della sua competenza, individuare le dimensioni della stessa autonomia, valutando la maggiore efficienza della gestione a livello sovracomunale degli interessi coinvolti.
Con riguardo alla materia urbanistica il potere dei comuni di autodeterminarsi in ordine all'assetto è garantito, dall'art. 128 cost., non solo nei confronti dello Stato, ma anche nei rapporti con le stesse regioni (Corte cost., 27.7.2000, n. 378, Re, 2001, 106, nota Groppi).
La giurisprudenza ha, inoltre, stabilito che il vincolo panoramico non è soggetto alla disciplina della temporaneità, ai sensi dell'art. 2, l. 19.11.1968, n. 1187, che è dichiaratamente applicabile ai soli vincoli di piano regolatore.
Il vincolo non è quindi soggetto a decadenza nel caso di mancata approvazione del piano particolareggiato nel termine previsto, essendo correlato alla tutela del paesaggio in virtù delle caratteristiche paesistiche che i beni che sono ad esso sottoposti possiedono naturalmente (Cass. civ., 12.6.1991, n. 6649).
La distinzione, contenuta nell’art. 2, l. 19.11.1968, n. 1187, tra vincoli preordinati a esproprio e vincoli che comportano l'inedificabilità, è da riferire, rispettivamente, alle previsioni funzionali alla realizzazione dell'opera pubblica, con imposizioni a titolo particolare su determinate aree, e alle situazioni di temporanea neutralizzazione dello ius aedificandi in attesa di successive regolamentazioni particolareggiate, applicate in via generale a consistenti estensioni territoriali, nella logica della zonizzazione, sempre comunque nell’ambito delle previsioni di piano stese nell'esercizio del potere di pianificazione.
Il sistema di tutela del paesaggio, dell'ambiente, del patrimonio storico e artistico, giustificano l'affermazione di limitazioni all'uso della proprietà dei beni vincolati - senza inibirne, peraltro, la commerciabilità, o una redditività diversa da quella dello sfruttamento edilizio - alla luce dell'equilibrio costituzionale tra gli interessi in gioco che vede alcune delle facoltà del diritto dominicale recessive di fronte all’esigenza di salvaguardia dei valori culturali ed ambientali, ex art. 9 cost., in attuazione della funzione sociale della proprietà, ex art. 42, 2° co. cost. (Cass. civ., Sez. I, 19.7.2002, n. 10542).



7. Il piano di bacino.

Legislazione l. 183/1989, art. 17.
Bibliografia D'Angelo 1990 (2) - Mengoli 2003.

Il piano di bacino di cui all’art. 17, l. 183/1989, non è un vero piano urbanistico - intendendosi con questo uno strumento volto alla regolamentazione dei centri abitati - ma uno strumento di prescrizioni e vincoli finalizzati alla conservazione del territorio (Mengoli 2003, 421).
Le opere previste sono essenzialmente dirette a prevenire i pericoli di inondazioni o di dissesto del suolo oppure a proteggere i litorali marini, a combattere l'inquinamento, a programmare l'utilizzo delle risorse idriche, agrarie, forestali, estrattive.

1. Il piano di bacino ha valore di piano territoriale di settore ed è lo strumento conoscitivo, normativo e tecnico-operativo mediante il quale sono pianificate e programmate le azioni e le norme d'uso finalizzate alla conservazione, alla difesa e alla valorizzazione del suolo e la corretta utilizzazione delle acque, sulla base delle caratteristiche fisiche ed ambientali del territorio interessato.
(Art. 17, l. 183/1989).

In relazione a questi contenuti ed ai conseguenti vincoli di destinazione, il piano deve sviluppare o meglio deve porsi a confronto con la pianificazione esistente, i piani paesistici, i piani di risanamento delle acque, i piani di smaltimento dei rifiuti, i piani di disinquinamento delle acque.

Il piano di bacino di cui alla l. 18.5.1989, n. 183, per l'ampiezza delle finalità e dei contenuti funzionali descritti agli artt. 3 e 17 e per la sua collocazione di vertice nel sistema di pianificazione ambientale, si pone quale valido strumento generale di coordinamento delle diverse funzioni amministrative in materia di tutela dell'ambiente.
(Trib. sup. acque, 2.2.1995, n. 13, FA, 1995, 1184, nota Marrone).

Il piano ha valore di piano territoriale, con funzioni di indirizzo e coordinamento (D'Angelo 1990 (2), II, 70).
La predisposizione dei piani è affidata ad autorità diverse a seconda che siano bacini a livello nazionale, di competenza del Comitato
Istituzionale e del Comitato Tecnico, interregionali o regionali.



8. Le misure di salvaguardia.

La legge attribuisce all'autorità di bacino il potere di adottare le direttive e le misure di salvaguardia.

6-bis. In attesa dell'approvazione del piano di bacino, le autorità di bacino, tramite il comitato istituzionale, adottano misure di salvaguardia con particolare riferimento ai bacini montani, ai torrenti di alta valle ed ai corsi d'acqua di fondo valle ed ai contenuti di cui alle lettere b), c), f), l) ed m) del comma 3. Le misure di salvaguardia sono immediatamente vincolanti e restano in vigore sino all'approvazione del piano di bacino e comunque per un periodo non superiore a tre anni. In caso di mancata attuazione o di inosservanza, da parte delle regioni, delle province e dei comuni, delle misure di salvaguardia e qualora da ciò possa derivare un grave danno al territorio, il Ministro dei lavori pubblici, previa diffida ad adempiere entro congruo termine da indicarsi nella diffida medesima, adotta con ordinanza cautelare le necessarie misure provvisorie di salvaguardia, anche a carattere inibitorio di opere, di lavori o di attività antropiche, dandone comunicazione preventiva alle amministrazioni competenti. Se la mancata attuazione o l'inosservanza di cui al presente comma riguarda un ufficio periferico dello Stato, il Ministro dei lavori pubblici informa senza indugio il Ministro competente da cui l'ufficio dipende, il quale assume le misure necessarie per assicurare l'adempimento. Se permane la necessità di un intervento cautelare per evitare un grave danno al territorio, il Ministro competente, di concerto con il Ministro dei lavori pubblici, adotta l'ordinanza cautelare di cui al presente comma”
(Art. 17, l. 183/1989, comma aggiunto dall'art. 12, l. 4.12.1994, n. 493).

La giurisprudenza ha precisato che detto potere sussiste anche indipendentemente dall'avvenuta formale adozione del piano da parte dell'organo deliberante (Trib. sup. acque, 18.3.1996, n. 29, RGA, 1996, 710).
Altro indirizzo ritiene necessaria almeno l’adozione del piano di bacino per l’esercizio del potere di applicare le misure di salvaguardia, pertanto, non sussiste alcuna legittimazione quando il piano medesimo non sia stato ancora adottato.

Le misure di salvaguardia di competenza dell'Autorità di bacino, ai sensi dell'art. 17, 6° co. bis, l. 183 del 1989, configurano un'anticipazione dell'operatività di determinazioni già prese e di contenuto noto o conoscibile e sono rivolte ad evitare che i tempi occorrenti per il completamento dell'iter procedimentale, a sua volta necessario per l'efficacia di quelle determinazioni, possano vanificare gli obbiettivi perseguiti, consentendo (o addirittura stimolando) comportamenti divergenti dal tenore dell'atto in corso di approvazione.
Esse, pertanto, presuppongono l'adozione di un piano di bacino in attesa di approvazione che, ove mancasse, porrebbe di fronte ad un'anomala ed inammissibile funzione di supplenza indirizzate ad ovviare all'inerzia degli organi competenti nel promuovere e concludere le fasi procedimentali della sua predisposizione e adozione.

Le disposizioni di piano non possono in alcun caso essere invocate per ottenere un indennizzo per i vincoli posti alla proprietà privata in quanto accertano la natura dei luoghi che non possono essere oggetto di edificazione.

La natura ambientale e non urbanistica dei vincoli antiesondazione riconducibili ai piani di bacino, in materia di acque pubbliche, impedisce di configurare esigenze indennitarie o risarcitorie, dato che la disciplina ed i vincoli di tal genere condividono la natura e l'efficacia di quelli paesistico-ambientali, ex l. 431 del 1985, nonché di quelli concernenti le bellezze naturali, ex l. 1497 del 1939, la pianificazione delle c.d. aree protette, ex l. 394 del 1991, la sicurezza idraulica, ex t.u. 523 del 1904, e gli interventi idrogeologici, ex r.d. n. 3267 del 1923.
(Trib. sup.re acque, 15.12.2003, n. 165).


9. La tutela giurisdizionale.

Legislazione l. 349/1986, art. 18.
Bibliografia Filippi 1996.

I soggetti che possono procedere all’impugnazione degli strumenti urbanistici sovracomunali sono i privati, gli enti locali e le associazioni ambientalistiche che si ritengano lesi nelle loro posizioni giuridiche (Filippi 1996, 197).
Il privato ha tutela contro i provvedimenti lesivi delle sue posizioni giuridiche.
Secondo i principi generali le posizioni giuridiche consolidate possono essere oggetto di provvedimenti restrittivi solo se questi sono congruamente motivati:

Illegittimamente il consiglio regionale, in sede di approvazione del piano territoriale paesistico, omette di valutare adeguatamente la situazione urbanistica dei luoghi, nonché gli affidamenti della stessa situazione ingenerati in capo ai privati, i quali, avendo avuto già assentita la possibilità di utilizzazione edificatoria delle rispettive proprietà, vengano a subire un grave pregiudizio economico, la cui eventuale imposizione richiede, in ogni caso, un contemperamento con le esigenze di pubblico interesse, che, se prevalenti, debbono essere giustificate con una adeguata esternazione, onde consentire al privato di valutare la correttezza e logicità delle scelte compiute, anche ai fini di un eventuale sindacato.
(T.A.R. Marche 22.3.1991, n. 134, RGE, 1991, I, 938).

Il piano territoriale paesistico regionale è immediatamente impugnabile fin dalla sua adozione poiché le sue prescrizioni sono rivolte direttamente alla proprietà fondiaria che, colla applicazione delle misure di salvaguardia, è direttamente soggetta alle sue disposizioni.

Ai sensi della l. 8.8.1985, n. 431, nonché dell'art. 35, l. r. Veneto 27.6.1985, n. 61, il piano di area, avendo natura urbanistico territoriale, anche se prevalentemente finalizzato alla protezione di valori paesistico ambientali, è immediatamente impugnabile anche nella fase di semplice adozione, come gli ordinari strumenti urbanistici generali, perché dà luogo all'applicazione di misure di salvaguardia.
(T.A.R. Veneto, sez. I, 3.6.1997, n. 942, FA, 1998, 139).

I comuni, essendo soggetti portatori di esigenze che possono trovare accoglimento nello stesso procedimento formativo del piano, hanno un evidente interesse processuale.

I comuni, che abbiano partecipato alle varie fasi procedimentali per la formazione del piano territoriale di coordinamento paesistico, possono eventualmente dolersi della lesività di esso solo nei limiti in cui la regione abbia immotivatamente disatteso specifiche osservazioni contrastanti espresse dai comuni medesimi.
(T.A.R. Liguria, sez. I, 27.10.1992, n. 389, FA, 1993, 769).

L’interesse ad agire delle associazioni ambientaliste trova sostegno nella legittimazione riconosciuta dall'art. 18 della l. 349/1986.
Esse sono legittimate ad impugnare le deliberazioni comunali nei casi in cui, pur presentando aspetti urbanistici e sanitari, sono suscettibili di pregiudicare il bene dell'ambiente, compromettendone l'adeguata tutela (T.A.R. Liguria, sez. I, 3.2.2003, n. 129, FATAR, 2003, 485, 875 nota Gandino).

La lega ambiente regionale è legittimata a proporre intervento ad opponendum nel ricorso rivolto contro il provvedimento regionale che dispone la sospensione dei lavori in zona tutelata dal piano territoriale paesistico regionale in quanto il suo presidente ha, in ambito regionale, la rappresentanza della lega ambiente nazionale, con conseguente riconoscimento anche della legittimazione processuale.
(T.A.R. Emilia Romagna, sez. II, Bologna, 19.8.1994, n. 488, TAR, 1994, I, 3681).

La giurisprudenza ammette l’impugnazione del piano di bacino da parte dei proprietari delle aree da esso interessate (Milone A. 2003, 3299).
Il piano di bacino ben può essere impugnato dai proprietari dei terreni inclusi nelle aree a rischio idrogeologico, atteso che, per effetto del piano, si verificano immediati effetti limitativi delle potestà urbanistico-edilizie dei comuni e dei connessi diritti ed interessi edificatori dei privati.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ritiene che il sindacato giurisdizionale amministrativo sugli atti che costituiscono espressione di discrezionalità tecnica dell'amministrazione, benché sempre ammissibile, senza limiti precostituiti, debba essere graduato in relazione al peculiare atteggiarsi dell'esercizio di tale funzione concretizzatosi nell'atto oggetto di sindacato.
Ricorrono sovente fattispecie in cui la discrezionalità tecnica è indissolubilmente legata a valutazioni di opportunità e di convenienza nelle quali si manifesta la potestà di scelta contenutistica di merito riservata alla p.a.
In siffatti casi, la giurisprudenza ha osservato che il sindacato del giudice amministrativo sulla discrezionalità tecnica non può spingersi fino ad una forma di controllo cosiddetto forte ovvero fino al sovrapporre alla valutazione tecnica dell'amministrazione - che è anche scelta di merito - una nuova valutazione tecnica del giudice acquisita a mezzo di una consulenza tecnica d'ufficio, ma deve configurarsi in termini di controllo cosiddetto debole, in cui le cognizioni tecniche acquisite vengono utilizzate solo allo scopo di effettuare un controllo di ragionevolezza e coerenza tecnica della decisione amministrativa.
In tali decisioni viene sottolineato altresì come la distinzione tra il carattere di opinabilità dei giudizi tecnici attratti nella
cognizione del giudice e i profili della opportunità sottratti al sindacato non è sufficientemente netta in presenza di valutazioni complesse dell'amministrazione, sicché in tali ipotesi deve escludersi il sindacato giurisdizionale di tipo forte sostitutivo e deve ammettersi solo il sopra descritto controllo di tipo debole (Cons. St., sez. VI, 23.4.2002, n. 2199. Cons. St., sez. VI, 4.11.2002 n. 6004).

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