mercoledì 3 ottobre 2012

Beni Pubblici 16 Giurisdizione.


Capitolo sedicesimo
La giurisdizione ordinaria

Guida bibliografica.
1.      La giurisdizione ordinaria.
La dottrina nota la differenza strutturale tra mezzi di tutela ordinaria e mezzi di tutela amministrativa.
La tutela amministrativa è disciplinata dalla legge che indica gli usi ammessi del bene pubblico e i comportamenti - definiti per lo più abusivi - che consentono l’esercizio della tutela da parte dell’amministrazione. La legge speciale evidenzia i comportamenti concreti che consentono l’uso della tutela.
La tutela ordinaria è indicata dal codice civile per schemi astratti, ad esempio la turbativa, è il giudice che nel caso concreto deve determinare se il comportamento costituisce concreta offesa al bene pubblico. Cassese 1969, 532.
L’evoluzione legislativa e dottrinale presenta alcune innegabili linee di tendenza che convergono nella direzione dell’ampliamento dell’area del diritto soggettivo. Caringella 2005, 189.

2. L’azione di rivendicazione.
La dottrina afferma che l’azione di rivendicazione non trova neppure motivazione beni demaniali.
Dato che l’ente pubblico ha la proprietà ed il possesso dei beni demaniali esso non può perdere il relativo possesso. La perdita del possesso equivale, infatti, alla cessazione della funzione alla quale il bene è destinato. Nel momento in cui inizia il possesso la demanialità del bene è già cessata con conseguente utilità della azione di rivendicazione. Guicciardi 1934, 416.

3. Le azioni possessorie esercitate dalla pubblica amministrazione.
La dottrina rileva che l’ente pubblico dotato di autotutela fa solitamente ricorso a questa anziché al mezzo di difesa ordinaria. Cassese 1969, 508.

3.1. Le azioni possessorie esercitate da terzi rispetto a beni della pubblica dati in concessione.
La dottrina afferma che l’art. 1145 c.c., ha la funzione di riconoscere il possesso dei beni demaniali da parte di soggetti privati senza tuttavia riconoscere uno degli effetti del possesso: quello di condurre all’acquisto della proprietà. Cassese 1969, 508.

4. La responsabilità per danni. I danni per la cattiva manutenzione del demanio stradale.
E' costante in dottrina l'affermazione che l'ente proprietario della strada, che sia aperta al pubblico transito, abbia l'obbligo di mantenerla in condizioni che non costituiscano per l'utente una situazione di pericolo nascosto. Centofanti 2005, 285.

5. Il danno per l'esecuzione di un'opera pubblica
E’ pacifica la giurisdizione del giudice ordinario. La Corte costituzionale ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 34, 1° co., d. lg. 31.3.1998 n. 80, mod. art. 7, lett. b), l. 21.7.2000, n. 205. Corte cost. 6.7.2004, n. 204.
Il giudice delle leggi, con il sanzionare disposto dell'art. 34, 1° co., d.lg. 80/1998, e l'attribuzione - con riferimento ai comportamenti della pubblica amministrazione in materia urbanistica e dell'edilizia - alla giurisdizione esclusiva, ha rimarcato come il legislatore ordinario ben può ampliare l'area della giurisdizione esclusiva purché lo faccia con riguardo a materie che, in assenza di tale previsione, contemplerebbero pur sempre, in quanto vi opera la pubblica amministrazione-autorità, la giurisdizione generale di legittimità. La Corte ha escluso che la mera partecipazione del soggetto pubblico al giudizio sia sufficiente perché si radichi la giurisdizione del giudice amministrativo e ha evidenziato come non sia sufficiente il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia perché questa possa essere devoluta al giudice amministrativo.
Corollario di tali affermazioni è chela giurisdizione esclusiva nell'attuale assetto costituzionale, non è estensibile alle controversie nelle quali la pubblica amministrazione non esercita - nemmeno mediatamente, e cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici - alcun potere pubblico.

6. Il danno ambientale.
La tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, ex art. 117, 2° co., lett. s, cost., è riservata alla legislazione esclusiva dello Stato.
L’art. 299, d.lg. 3.4.2006, n. 152, riserva al Ministro le funzioni e i compiti spettanti allo Stato in materia di tutela, prevenzione e riparazione dei danni all’ambiente.
Tale accentramento delle funzioni in capo al Ministro solleva dubbi in rapporto alle disposizioni del successivo comma tre dell’art. 117, cost.- che delega alla legislazione concorrente delle regioni la tutela del territorio già riconosciute sotto il profilo della legittimazione attiva all'azione dall’art. 9, d.lg. 18.8.2000, n. 267. Robustella 2006, 787.
La giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del codice ambiente ha precisato che è legittimato al risarcimento del danno ambientale, ai sensi dell'art. 18, 3° co., l. 8.7.1986, n. 349, il solo ente territoriale offeso nell'ambiente come assetto del territorio, che è, appunto elemento costitutivo dell'ente stesso. Cass. pen., sez. III, 13.11.1992, RGA, 1993, 275.
Il risarcimento può spettare al Comune la liquidazione del danno ambientale, salva l'eventuale concorrente legittimazione dello Stato per la parte di danno che si ripercuote sulla collettività generale. Cass. pen., sez. III, 22.12.1999, n. 1928, RP, 2000, 714.
La giurisprudenza ha precisato che anche la regione può costituirsi parte civile nel procedimento penale contro gli autori di fatti produttivi di danno ambientale, per esercitare in quella sede l'azione di risarcimento. Corte Cost., 12.4.1990, n. 195, CS, 1990, II, 675.
La giurisdizione in materia di danno ambientale è attribuita al giudice civile o al giudice penale nel caso di costituzione di parte civile nel relativo giudizio. Dell’Anno 2000, 173.

7. La determinazione del danno.
La dottrina invoca una organizzazione amministrativa capace di raccordare da un lato l'attività del Ministero dell'ambiente (di per sé privo di qualsiasi struttura periferica in grado di raccogliere, ordinare e valutare tutti gli elementi e le conoscenze indispensabili all'utile esercizio dell'azione con riferimento alla singola condotta lesiva dell'ambiente) con i compiti, dall'altro, della locale Avvocatura distrettuale dello Stato, organo tecnico esclusivo titolare della rappresentanza dell'Amministrazione statale nel processo e responsabile delle scelte difensive di volta in volta da compiere. Schiesaro 2003, 1, 173.

8. La legittimazione processuale delle associazioni ambientaliste.
La dottrina considera ammissibile la costituzione di parte civile è quando, avendo le associazioni dato prova di continuità di azione, di aderenza al territorio e della rilevanza del loro contributo, l'interesse diffuso alla tutela ambientale si sia concretizzato in una determinata realtà storica di cui il sodalizio ha fatto il proprio scopo. Morlacchini 2004, 5, 1714.
La giurisprudenza si è posta il problema se le associazioni ambientaliste possano costituirsi parti civili nel giudizio penale.
Alcune sentenze hanno precisato che le associazioni ambientalistiche, anche se riconosciute ai sensi dell’art. 13, l. 349 del 1986, non sono legittimate a costituirsi parti civili solo per la tutela del loro interesse astratto e diffuso all'integrità dell'ambiente. Cass. pen., sez. III, 29.9.1992, FI, 1993, II, 475.
L’indirizzo giurisprudenziale prevalente ammette che le associazioni individuate a norma dell'art. 13, l. 349 del 1986, sono legittimate a costituirsi parte civile nei confronti di imputati di reati produttivi di danno ambientale, in quanto titolari di un vero e proprio diritto soggettivo alla conservazione e integrità dell'ambiente. Pret. Velletri, 9.10.1992, GP, 1993, III, 490.
Anche se è stata limitata la loro azione nel senso che alle associazioni ambientaliste nei giudizi per i danni patrimoniali è consentito solo un intervento ad adiuvandum. Le stesse associazioni, invece, non possono ottenere la liquidazione del danno ambientale in termini monetari. Cass. pen., sez. III, 10.10.1993, RPE, 1995, 372.


9. Il danno arrecato dalla selvaggina protetta.
Altra giurisprudenza ha affermato che le situazioni di eventuale pregiudizio che i proprietari dei tali terreni possono subire, o per limitazioni dirette di attività o per una forma indiretta di limitazione di sfruttamento, derivante dall'impossibilità di abbattimento degli animali selvatici, sono situazioni meramente conseguenti e connesse alla tutela dell'interesse collettivo, rispetto al quale la situazione giuridica del privato è degradata ad interesse.
Occupandosi di una fattispecie in cui il privato aveva lamentato danni a due appezzamenti di terreno inclusi nel comprensorio del Parco naturale dei Monti Sibillini, che erano stati invasi in ore notturne da cinghiali usciti dai boschi circostanti, la giurisprudenza ha posto in risalto la singolarità della figura dei parchi naturali e del regime giuridico dei terreni agricoli in essi compresi, soggetti a forti restrizioni del diritto di proprietà e di godimento in vista delle perseguite finalità di tutela e miglioramento della flora e della fauna e della conservazione dell'ambiente.
L’interpretazione giurisprudenziale ha finito, però, col ritenere risolutivo, ai fini della affermata giurisdizione del giudice amministrativo, il fatto che, coerentemente con tutto questo, nella disciplina dettata dalla l. 12.7.1923, n. 1511 e dal relativo regolamento r.d. 27.9.1923, n. 2124, per il Parco Nazionale d'Abruzzo, non era disposto alcun indennizzo ragguagliato alla effettività dei danni cagionati dagli animali selvatici a singole coltivazioni.
Detta normativa ha previsto solo un compenso che, in assenza di elementi normativamente prefissati per la sua determinazione e liquidazione, non assumeva alcun carattere di certezza, almeno nel quantum, cosicché doveva ritenersi che la situazione vantata al privato danneggiato fosse solo di interesse legittimo. Cass. civ., Sez. U., 23.11.1995, n. 12106, GC, 1996, I, 702.



1. La giurisdizione ordinaria.

La domanda di accertamento di diritti soggettivi rientra nella giurisdizione ordinaria.
Essa comprende le controversie relative al riconoscimento della demanialità del bene oggetto di vertenza, ai rapporti obbligatori tra amministrazione e privati e le controversie sulle indennità relative a concessioni rilasciate dalla pubblica amministrazione.
La controversia che si risolva essenzialmente nell'accertamento del carattere demaniale o meno del suolo stesso è di pertinenza del g.o., in quanto la posizione che fa valere il soggetto che assume di essere proprietario dell'immobile è di diritto soggettivo.

Né ricorrono, nella fattispecie, i presupposti per l'applicazione dell'orientamento giurisprudenziale che afferma la giurisdizione amministrativa qualora il ricorso proposto contro una ingiunzione di sgombero di area demaniale lamenti lo scorretto esercizio dei poteri di autotutela dell'autorità marittima, in particolare sotto il profilo della omessa effettuazione della delimitazione del demanio marittimo ai sensi dell'art. 32 c. nav. e dell'art. 58 del relativo regolamento di esecuzione: l'interessato non aveva, infatti, formulato siffatte censure, limitandosi a contestare la demanialità dell'area in questione.
Nella specie la vertenza aveva come oggetto la richiesta di annullamento di un'ingiunzione di sgombero di suolo demaniale marittimo.
(T.A.R. Calabria Reggio Calabria, 8.9.2005, n. 1399, FATAR, 2005, f. 9, 2984).

Le controversie concernenti le pretese risarcitorie avanzate dalla p.a. nei confronti dei privati per abusiva occupazione di demanio esulano dalla giurisdizione amministrativa, non potendo essere ricondotte all'ambito di applicazione dell'art. 5, l. 6.12.1971, n. 1034.
Si tratta di rapporti obbligatori di dare-avere, senza alcuna interferenza su atti o provvedimenti relativi a concessione del bene pubblico.
Né in dette controversie la giurisprudenza considera applicabile l'art. 34, d.lg. 31.3.1998, n. 80, che regola la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materie di risarcimento del danno poiché si tratta di conseguenze risarcitorie derivanti da comportamenti di privati.
(T.A.R. Sardegna, sez. II, 27.9.2004, n. 1399, FATAR, 2004, 2746).
La giurisprudenza, nelle controversie in materia di indennità, è orientata a considerare che l’art. 5, l. n. 1034/1971 ha inteso far salva la giurisdizione del giudice ordinario soltanto nell’ipotesi in cui la controversia non abbia ad oggetto la determinazione di canoni che implicano l’esercizio di una discrezionalità da parte della p.a., ossia non coinvolga la verifica dell’azione autoritativa di quest’ultima (Cass. civ., sez. un., 31 marzo 2005, n. 6744).
Pertanto, la giurisdizione del giudice ordinario non riguarda tutte le controversie in materia di indennità, canoni e altri corrispettivi.
Essa non è una giurisdizione piena, ma ha ad oggetto solo quelle controversie relative a diritti soggettivi. Restano riservate al giudice ordinario quelle cause che, implicando l’esercizio di poteri discrezionali della p.a., attengono a interessi legittimi.
Se, dunque, la determinazione della misura del canone non consegue all’applicazione di criteri predeterminati, ma presuppone la corretta qualificazione del rapporto concessorio, viene in rilievo l’esercizio di un potere discrezionale della p.a., e si verte in tema di interessi legittimi, con conseguente giurisdizione del g.a.
La giurisdizione del giudice ordinario in tema di canoni, indennità e altri corrispettivi per la concessione di beni demaniali (art. 5, l. n. 1034/1971) non riguarda «tutte» le controversie in materia (non è, altrimenti detto, una giurisdizione «piena»), ma solo quelle relative a diritti soggettivi, restando riservate al giudice ordinario quelle che, implicando l’esercizio di poteri discrezionale della p.a., attengono ad interessi legittimi. Se, dunque, la determinazione della misura del canone non consegue all’applicazione di criteri predeterminati, ma presuppone la corretta qualificazione del rapporto concessorio, viene in rilievo l’esercizio di un potere discrezionale della p.a., e si verte in tema di interessi legittimi, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo.
E’ quanto si verifica nel caso di specie.
Infatti, la determinazione dei canoni e la richiesta di conguaglio sono state l’effetto diretto di una questione di corretta qualificazione del rapporto concessorio: l’amministrazione, che aveva inizialmente qualificato la concessione come attinente ad attività turistico - ricreativa, la ha in un secondo momento qualificata come attinente ad attività riguardante la navigazione. Consequenziale è stata la rideterminazione dei canoni.
(Cons. St., Sez. VI, 27.6.2006, n. 4090).

Dopo la riforma ex legge n. 205 del 2000, il riparto della giurisdizione in materia di concessione di beni pubblici resta regolato dall'art. 5, l. n. 1034 del 1971, con distinzione dei ricorsi contro "atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessioni di beni", devoluti alla competenza dei tribunali amministrativi regionali, dalle controversie concernenti "indennità, canoni ed altri corrispettivi", per i quali resta salva la giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria, la controversia concernente canoni o altri corrispettivi di contenuto meramente patrimoniale e che abbia ad oggetto l'accertamento dei presupposti della loro debenza è riservata alla giurisdizione del g.o. e, poiché il giudizio di specie non coinvolge alcuna verifica dell'azione autoritativa della p.a. sull'intera economia del rapporto concessorio, deve ritenersi che non sia, comunque, attratto nella sfera di competenza del g.a. (T.A.R. Lazio, sez. II, 14.2.2005, n. 1289, GM, 2005, f. 7/8, 1722).


2. L’azione di rivendicazione.

La dottrina ammette che i rimedi petitori devono essere ammessi per i beni pubblici (Cassese 1969, 499).

1. Il proprietario può rivendicare la cosa da chiunque la possiede o detiene e può proseguire l'esercizio dell'azione anche se costui, dopo la domanda, ha cessato, per fatto proprio, di possedere o detenere la cosa. In tal caso il convenuto è obbligato a ricuperarla per l'attore a proprie spese, o, in mancanza, a corrispondergliene il valore, oltre a risarcirgli il danno.
2. Il proprietario, se consegue direttamente dal nuovo possessore o detentore la restituzione della cosa, è tenuto a restituire al precedente possessore o detentore la somma ricevuta in luogo di essa.
3. L'azione di rivendicazione non si prescrive, salvi gli effetti dell'acquisto della proprietà da parte di altri per usucapione.
(art. 948, c.c.).

L'azione di rivendica proposta dal privato contro la pubblica amministrazione diventa contestazione della proprietà pubblica; essa per la giurisprudenza rientra nella giurisdizione ordinaria.

In tema di controversie relative a provvedimenti comunali di classificazione delle strade, laddove il ricorrente contesti la proprietà pubblica della strada, la domanda assume il contenuto di una vera e propria azione di rivendicazione o di accertamento negativo di servitù, che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario.

L'azione di rivendica di beni archeologici ha delle peculiarità del tutto particolari.
Essa è promossa dall'amministrazione statale per affermare la proprietà a titolo originario del bene da parte dello Stato.
Il ritrovamento o la scoperta dei beni stessi in data anteriore all'entrata in vigore della l. 364 del 1909, non è fatto costitutivo negativo del diritto azionato, ma fatto impeditivo che deve essere provato da chi l'eccepisce.
Dal complesso delle disposizioni, contenute nel codice civile e nella legislazione speciale, regolante i ritrovamenti e le scoperte archeologiche, ed il relativo regime di appartenenza, la giurisprudenza ricava il principio generale della proprietà statale delle cose d'interesse archeologico e della eccezionalità delle ipotesi di dominio privato sugli stessi oggetti.
qualora l'amministrazione intenda rientrare in possesso dei beni detenuti da soggetti privati, incombe al possessore l'onere della prova, e della dedotta scoperta, e appropriazione, anteriormente all'entrata in vigore della l. 364 del 1909, a partire dalla quale le cose ritrovate nel sottosuolo appartengono allo Stato.

Poiché, dalla entrata in vigore della l. 20.6.1909, n. 364, la proprietà sui reperti archeologici appartiene, a titolo originario, allo Stato, il privato che rivendichi il proprio diritto di proprietà su detti beni può solo eccepire, fornendone la relativa prova, che i beni stessi sono stati acquisiti in proprietà privata prima del 1909 ovvero far valere una delle ipotesi nelle quali la l. 1.6.1939, n. 1089, consente che quei beni ricadano in proprietà di privati.

La disciplina delle cose d'interesse archeologico non crea un'ingiustificata posizione di privilegio probatorio. Lo Stato, nell'azione di rivendica dei beni archeologici può avvalersi di una presunzione di proprietà statale. La presunzione può essere determinata, oltre che da un id quod plerumque accidit di fatto - nella specie, peraltro, furono rinvenute sugli oggetti tracce di terra, segno della provenienza da scavi - anche da una normalità normativa.

Nel giudizio di accertamento della proprietà pubblica di beni archeologici in possesso di privati, il ritrovamento o la scoperta dei beni stessi in data anteriore all'entrata in vigore della legge n. 364 del 1909, costituente ipotesi di legittimo possesso da parte di privati, deve essere provato, in quanto circostanza eccezionale, da chi l'eccepisce.

Conseguentemente, opponendosi una circostanza eccezionale, idonea a vincere la presunzione, deve darsene la prova (Cass. Civ., sez. I, 18.4.1995, n. 4337).
Spetta inoltre al privato, che ragionevolmente - dato il tempo trascorso, ormai, dal 1909 – deduce di aver ricevuto il bene a titolo derivativo, per successione ereditaria, dare compiuta dimostrazione sia sotto il profilo della ricomprensione del bene nell'asse ereditario, sia del ritrovamento in epoca anteriore alla l. 364 del 1909. A meno che non si tratti di acquisto lecito da chi legittimamente possedeva il bene: ma di ciò deve analogamente darsi dimostrazione.


3. Le azioni possessorie esercitate dalla pubblica amministrazione.

L’esercizio delle azioni possessorie da parte della pubblica amministrazione contro i terzi è alternativo all'utilizzo dell'autotutela possessoria iuris publici.
La dottrina ammette unanimemetne l’azione di amnutenziome. Essa esclude l’azione di rentegrazione.
Il bene infatti o è ancora demaniale e allora non può essere possedutio da un terzo e quindi non sussite lo stesso rpesupposto dell’azione.
Altra ipotesi possibile il ene è in possesso di un terzo e allora non è più demaniale poiché un bene demanile non può essere in possesso di un terzo (Cassese 1969, 508).
Resta ovviamente ferma la possibilità per l’amministrazione di adire la competente autorità giudiziaria attraverso un'azione petitoria diretta a far dichiarare l'accertamento del proprio diritto sul bene immobile in questione.
L'autotutela della pubblica amministrazione è espressione della sua supremazia.
Essa può essere esercitata solo nei confronti di soggetti privati, non anche nei confronti di soggetti che fanno parte anch'essi della pubblica amministrazione e che, in quanto tali, sono nella medesima condizione giuridica.

Pertanto, un Comune non può esercitare i propri poteri di autotutela a difesa della proprietà demaniale, secondo la previsione dell'art. 823, 2° co., c.c., nei confronti di una Regione.
Principio espresso in controversia possessoria promossa dalla Regione nei confronti di un Comune; enunciando il principio di cui in massima, le S.U. hanno dichiarato la giurisdizione del g.o.

3.1. Le azioni possessorie esercitate da terzi rispetto a beni della pubblica dati in concessione.

I privati concessionari di beni pubblici possono esercitare l’azione di spoglio qualora vi siano turbative nel loro possesso da parte di terzi.
La giurisprudenza ha inteso lo spoglio non solo come privazione del possesso, ma anche come ostacolo, impedimento al suo libero ed incondizionato esercizio.

1. Il possesso delle cose di cui non si può acquistare la proprietà è senza effetto.
2. Tuttavia nei rapporti tra privati è concessa l'azione di spoglio rispetto ai beni appartenenti al pubblico demanio e ai beni delle province e dei comuni soggetti al regime proprio del demanio pubblico.
3. Se trattasi di esercizio di facoltà, le quali possono formare oggetto di concessione da parte della pubblica amministrazione, è data altresì l'azione di manutenzione.
(art. 1145, c.c.).

La giurisprudenza ritiene che a tutela del possesso relativo al passaggio esercitato su strada vicinale ad uso pubblico è esperibile, nei rapporti fra privati - ai sensi dell'art. 1145, 2° co., c.c. - l'azione di spoglio.
Tale tutela è concessa indipendentemente dalla titolarità da parte del privato di un uso speciale od eccezionale sul bene.
La lesione del possesso, tutelabile con l'azione di reintegrazione, è causata non soltanto con la privazione del possesso ma anche con gli atti che determinino l'ostacolo o l'impedimento al suo libero ed incondizionato esercizio.

Nella specie la Corte, ha ritenuto corretta la decisione del giudice di merito che aveva qualificato come azione di reintegrazione e non di manutenzione del possesso quella proposta dai ricorrenti a tutela del passaggio da loro esercitato su strada vicinale ad uso pubblico, che era stato ostacolato dalla convenuta, la quale - assumendo di esserne proprietaria - aveva diffidato i ricorrenti a non praticarlo, collocando segnali di divieto di passaggio all'imbocco della strada.

L'esperibilità dell'azione di spoglio anche rispetto ai beni appartenenti al pubblico demanio ed ai beni degli enti pubblici territoriali ad essi equiparati, espressamente ammessa dall'art. 1145 c.c., comporta che la questione in ordine alla natura demaniale o meno del bene è, in materia di azioni possessorie, del tutto ininfluente sul thema decidendum (Cass. Civ., sez. II, 17.8.2005, n. 16967).
La dottrina nega che l’azione di spoglio sia attribuibile per tutti i beni demaniali distinguendo i beni in proprietà ed uso collettivo sottoposti a riserva dai beni in proprietà ed uso esclusivo dell’ente pubblico. I beni del demanio militare di cui l’ente pubblico è esclusivo utilizzatore, ad esempio, ne sono esclusi.
Nel primo caso l’ente pubblico è mero gestore e quindi le azioni a difesa del possesso sono attribuite ai membri della collettività che li utilizzano, mentre nel secondo caso l’ente pubblico è non solo proprietario ma anche unico utilizzatore e quindi solo all’amministrazione spettano le azioni a tutela del possesso (Cassese 1969, 515).


3.2. Le azioni possessorie contro la pubblica amministrazione.

L'azione possessoria contro la pubblica amministrazione è sempre di competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria e il divieto ad essa imposto dall'art. 4 della l. 2248/1865 all. e) - di non revocare o modificare atti amministrativi - opera come limite interno di tale giurisdizione.
Di fatto tale ipotesi si realizza nel caso di occupazione abusiva di beni demaniali di cui l’amministrazione affermi, invece, la demanialità.
L’oggetto del giudizio è quindi l’accertamento della demanialità e l’azione possessoria appare residuale e quindi in pratica difficilmente praticabile.
La giurisprudenza ritiene sussista la giurisdizione amministrativa qualora la controversia sia relativa al sottostante rapporto di concessione che giustifichi il possesso del bene da parte del privato.

In materia di azioni possessorie contro la p.a., la cognizione sulle stesse appartiene al giudice ordinario o a quello amministrativo, a seconda che sulla situazione di potere di fatto dedotta in causa possa farsi astrattamente corrispondere una situazione soggettiva di diritto ovvero di interesse legittimo. Ne segue, per l'effetto, che ove la domanda di reintegra nel possesso abbia ad oggetto un bene del pubblico demanio, di cui il ricorrente godeva in virtù di una concessione-contratto di bene pubblico, la giurisdizione spetta, in via esclusiva, al giudice amministrativo.


4. La responsabilità per danni. I danni per la cattiva manutenzione del demanio stradale.

La discrezionalità della pubblica amministrazione, nella vigilanza e nel controllo dei beni demaniali, è delimitata dal principio del neminem laedere.
E’ configurabile la responsabilità della p.a., a norma dell'art. 2051 c.c., per il danno cagionato al privato da un bene demaniale, atteso che questo, essendo nella custodia dell'amministrazione medesima, rientra nel suo potere di vigilanza e controllo.

Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito.
(art. 2051 c.c.).

Il mancato o negligente esercizio del potere, presunto dall'art. 2051 c.c., segna il limite del potere discrezionale di essa.
La giurisprudenza evidenzia che la presunzione di responsabilità di cui all'art. 2051 c.c. non opera nei confronti della p.a. per danni cagionati a terzi da beni demaniali sui quali è esercitato un uso ordinario, generale e diretto da parte dei cittadini.

Tale presunta responsabilità trova un limite con riguardo ai beni demaniali sui quali è esercitato un uso ordinario generale e diretto da parte dei cittadini (demanio marittimo, fluviale, lacuale stradale, autostradale, strade ferrate), quando cioè l'estensione del bene stesso renda praticamente impossibile l'esercizio di un continuo ed efficace controllo che valga ad impedire l'insorgenza di cause di pericolo per i terzi, restando invece applicabile in relazione ai beni demaniali che, per la loro limitata estensione territoriale, consentono un'adeguata attività di vigilanza, come è nel caso dell'erosione di fette di terreno cagionata dal corso d'acqua di un fiume.
(Trib. sup.re acque, 21.10.2002, n. 131, DT, 2003, 264).

Per quanto attiene al demanio stradale è costante in giurisprudenza l'affermazione che l'ente proprietario della strada, che sia aperta al pubblico transito, abbia l'obbligo di mantenerla in condizioni che non costituiscano per l'utente una situazione di pericolo nascosto.
Si considera che l'utente faccia logicamente affidamento nella apparente agibilità della strada.
Il pericolo sussiste qualora vi sia il requisito oggettivo della non visibilità e quello soggettivo della non prevedibilità del pericolo, il cui accertamento è riservato al giudice di merito.
La discrezionalità amministrativa incontra il suo limite nella regola del neminem laedere, che, in caso di violazione, può dare luogo a responsabilità civile, penale e disciplinare, con conseguente dovere del risarcimento dei danni a favore del cittadino leso dalla incuria della p.a.
Caso tipico, ma non esclusivo, di violazione della regola neminem laedere è, appunto, l'insidia o trabocchetto che cagioni danno all'utente della strada.

Per insidia si deve intendere un inganno, un agguato, un tranello, una trappola, oppure un pericolo non facilmente individuabile; per trabocchetto si deve intendere ciò che nasconde bene una difficoltà o un tranello.
(App. Milano, 3.4.2001, RGPL, 2001, 749).

Il principio è applicabile anche qualora l'insidia derivi da lavori stradali che abbiano comportato insidia o trabocchetto, che hanno provocato il sinistro per mancanza di cartelli di segnalazione, anche se rimossi da terzi e per la conseguente impossibilità di vedere da parte del conducente lo stato della strada.
Per contro l’idonea segnalazione elimina la responsabilità.

Non costituisce insidia, e non può essere quindi fonte di responsabilità per la p.a., una superficie mattonata di un vialetto, appena posta in opera ed asseritamene scivolosa, esistente su demanio comunale, ove l'ente proprietario abbia disposto il divieto di accesso ai pedoni con apposite transenne a causa dei lavori in corso.
(Trib. Brindisi, 21.4.2005).

Il risarcimento è escluso nel caso di anomalie "non strutturali", ai fini della configurabilità del "caso fortuito" nel caso di modificazione repentina, imprevedibile e non evitabile per l'impossibilità di un tempestivo intervento.

Fattispecie in tema di caduta a causa di un avvallamento nella pavimentazione di un marciapiede profondo circa 10 cm e posto tra alcune radici di alberi sporgenti e uno scivolo destinato a facilitare l'attraversamento della strada alle persone non deambulanti.
(Trib. Roma, 15.4.2005).


5. Il danno per l'esecuzione di un'opera pubblica.

La discrezionalità della pubblica amministrazione circa i criteri e le modalità di esecuzione di un opera pubblica in relazione all'apprezzamento ad essa demandato degli interessi e delle esigenze della collettività dei cittadini e degli strumenti atti a soddisfarli, non esime l'amministrazione dall'osservare le specifiche disposizioni di legge e di regolamento e le generali norme di prudenza e diligenza, imposte dal già ricordato precetto del neminem laedere a tutela dell'incolumità dei cittadini e dell'integrità del loro patrimonio.
Se dall’esecuzione dell’opera deriva un danno al terzo, questo ha azione risarcitoria, anche in forma specifica, davanti al giudice ordinario, vertendosi in tema di fatto illecito lesivo di posizioni di diritto soggettivo (Cass. Civ., Sez. Un., 6.12.1988 n. 6635).
Il giudice ordinario, in tali ipotesi, non solo può accertare gli obblighi dell'amministrazione, condannandola al risarcimento del danno, ma può anche pronunciare condanna di essa ad un facere specifico, senza violazione del limite interno delle sue attribuzioni giurisdizionali fissato dall'art. 4, l. 20.3.1865, n. 2248, all. e), perché non operando l'ente pubblico come autorità, detto facere non può considerarsi alla stregua di una attività provvedimentale o comunque riservata all'escluso apprezzamento della competente autorità amministrativa.
La discrezionalità della p.a. circa i criteri e le modalità di esecuzione di un'opera pubblica in relazione all'apprezzamento ad essa demandato degli interessi e delle esigenze della collettività dei cittadini e degli strumenti atti a soddisfarli, non esime l'amministrazione dall'osservare le specifiche disposizioni di legge e di regolamento e le generali norme di prudenza e diligenza, imposte dal precetto del neminem laedere a tutela dell'incolumità dei cittadini e dell'integrità del loro patrimonio, con la conseguenza che se dall'osservanza di tali norme derivi un danno al terzo, deve a questi riconoscersi azione risarcitoria, anche in forma specifica, davanti al g.o., vertendosi in tema di fatto illecito lesivo di posizioni di diritto soggettivo.

Il danno, arrecato alla proprietà immobiliare del privato in conseguenza dell'esecuzione di un'opera pubblica, per essere indennizzabile deve riguardare la perdita o la diminuzione del reddito o del valore di scambio del bene medesimo.
Esso non è ravvisabile quando nella realizzazione dell'opera pubblica la p.a. abbia osservato le norme poste a tutela della proprietà privata.
Non sono, pertanto, indennizzabili la limitazione dell'insolazione e dell'aerazione derivante all'immobile del privato dall'esecuzione di un'opera pubblica eseguita nel rispetto delle leggi, trattandosi di utilità non protette come diritti soggettivi, né la maggiore difficoltà di accesso alla pubblica via a carico dell'immobile del privato non integra perdita di una parte del contenuto patrimoniale del diritto di proprietà.

Nella specie, è stato ritenuto che non integrasse un pregiudizio indennizzabile la circostanza che la strada per accedere al centro abitato era stata interrotta per creare l'attraversamento della autostrada e che in alternativa era stata costruita altra strada per il raggiungimento del centro abitato con un percorso maggiore.
(Cass. Civ., sez. I, 6.4.1982, n. 2106).


6. Il danno ambientale.

L’art. 300, d.lg. 3.4.2006, n. 152, definisce danno ambientale qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima.
Il secondo comma dell’art. 300, d.lg. 3.4.2006, n. 152, contiene un vero e proprio elenco degli ambiti che possono essere oggetto di deterioramento ambientale che restringe apparentemente i fatti che possono essere lesivi dell’ambiente.
La norma afferma che costituisce danno ambientale, in particolare, il deterioramento, in confronto alle condizioni originarie, provocato:
a) alle specie e agli habitat naturali protetti dalla normativa nazionale e comunitaria di cui alla l. 11.2.1992, n. 157, recante norme per la protezione della fauna selvatica, e di cui al d.p.r. 8.9.1997, n. 357, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche, nonché alle aree naturali protette di cui alla l. 6.12.1991, n. 394;
b) alle acque interne, mediante azioni che incidano in modo significativamente negativo sullo stato ecologico, chimico e/o quantitativo oppure sul potenziale ecologico delle acque interessate;
c) alle acque costiere ed a quelle comprese nel mare territoriale mediante le azioni suddette, anche se svolte in acque internazionali;
d) al terreno, mediante qualsiasi contaminazione che crei un rischio significativo di effetti nocivi, anche indiretti, sulla salute umana a seguito dell’introduzione nel suolo, sul suolo o nel sottosuolo di sostanze, preparati, organismi o microrganismi nocivi per l’ambiente.
Tale elenco è da considerarsi esemplificativo e non tassativo.
E’ evidente, infatti, che sono lesivi dell’ambiente tutte le fattispecie di interventi realizzati senza la cosiddetta autorizzazione ambientale, invece che il legislatore fa specifico riferimento a fattispecie definite dalla Direttiva 2004/35/CE.
La giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del codice dell’ambiente ha affermato che l’ipotesi di danno ambientale si realizza nelle seguenti fattispecie.
Nel caso di violazione dell'art. 21, 1° e 3° co., l. 10.5.1976, n. 319, recante norme per la tutela delle acque dall’inquinamento, consistente nello sversamento, nelle acque del torrente Bormida, di reflui di lavorazioni industriali contenenti valori di pH superiori al consentito (Cass. pen., sez. III, 31.3.1994, CP, 1995, 1610).
Nel caso di procedimento per costruzione senza concessione ed in violazione dell'art. 734, c.p., e della l. 8.8.1985, n. 431, e di discarica abusiva per lavori appaltati dal Ministero delle poste e telecomunicazioni, concernenti la realizzazione di una stazione radio con traliccio metallico e posa in opera di cavo coassiale in zona di alto valore paesaggistico e storico (Cass. pen., sez. III, 18.4.1994, CP, 1995, 1932).
Nel caso di sversamento di reflui inquinanti oltre i limiti consentiti comporta un danno all'equilibrio ambientale risarcibile, ex art. 18, l. 8.7.1986, n. 349, nell’ipotesi di una compromissione, di una alterazione, di un deterioramento o, nei casi più gravi, di una distruzione totale o parziale del sistema naturale interessato; tale danno è sicuramente riscontrabile in caso di immissione di un corpo ricettore di inquinanti chimici oltre la soglia ritenuta pericolosa dalla legge (Cass. pen, sez. III, 10.11.1993, RGA, 1995, 91).
Nell'ipotesi della semplice alterazione di una delle componenti ambientali, sicuramente riscontrabile nel caso di immissione in un corpo ricettore di inquinanti chimici oltre la soglia ritenuta pericolosa dalla legge, tale da giustificare addirittura la sanzione penale. Nella specie la suprema Corte ha osservato che per i ripetuti scarichi, alcuni contenenti perfino mercurio, un danno ambientale era stato accertato e giustamente ne erano stati considerati destinatari lo Stato e gli enti territoriali. (Cass. pen., sez. III, 10.11.1993, CP, 1995, 1351).
Esula dal concetto di danno ambientale l'impugnativa di atti di pianificazione del territorio (T.A.R. Toscana, sez. I, 25.5.2005, n. 2576, FATAR, 2005, n. 5, 1463.
Non è consentita un'opposizione di merito alla scelta dell'amministrazione di intervento in una zona della città che, comunque, è idoneo ad incidere sulla morfologia paesaggistico-ambientale della zona, nonché sull'assetto urbanistico e architettonico del centro come negli anni consolidatosi", sostituendo così i propri apprezzamenti estetici e funzionali a quelli che, secondo la legge, sono, invece, riservati all'Amministrazione comunale.
Provoca danno ambientale, secondo detta disposizione, un qualunque fatto doloso o colposo, in violazione di disposizioni di leggi o di provvedimenti adottati in base a legge, che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto od in parte.
Secondo la dottrina si ha responsabilità per danno ambientale non solo quando si lede un vincolo ambientale in senso stretto, ma anche quando è violato uno dei tre settori della legislazione ambientale in senso lato: la bellezza naturale; la difesa dell’ambiente; l’urbanistica (Assini 2005, 2402).
La giurisdizione in materia di danno ambientale è attribuita al giudice civile o al giudice penale nel caso di costituzione di parte civile nel relativo giudizio, ex art. 311, d.lg. 152/2006.

1. Il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio agisce, anche esercitando l'azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale, oppure procede ai sensi delle disposizioni di cui alla parte sesta del presente decreto.
(art. 311, d.lg. 3.4.2006, n. 152)

La giurisprudenza ha precisato le condizioni per l’esperimento dell’azione di risarcimento.
Essa può essere promossa soltanto quando sussista un pregiudizio concreto alla qualità della vita della collettività, sotto il profilo dell'alterazione, del deterioramento o della distruzione, in tutto o in parte, dell'ambiente.
Non danno luogo a risarcimento, di regola, violazioni meramente formali. La lesione dell'immagine dell'ente territoriale, nella specie Comune e Provincia, il quale, dalla commissione di reati ambientali veda compromesso il prestigio derivante dall'affidamento di compiti di controllo o gestione, costituisce danno non risarcibile autonomamente. In tale caso il risarcimento deve essere riconosciuto soltanto quando sia stato concretamente accertato il detto danno ambientale, al quale sia collegata, come aspetto non patrimoniale, la menomazione del rilievo istituzionale dell'ente (Cass. pen., sez. III, 19.3.1992, CP, 1993, 1532).


7. La determinazione del danno.

La l. 349 del 1986 ribadisce che per la determinazione del danno deve essere preso in considerazione il costo del ripristino delle risorse naturali il profitto indebito conseguito dall’autore del danno e del grado della colpa dell’agente.

Per la quantificazione del c.d. danno ambientale è necessario valutare sia l’attività edificatoria, in specie immobili su aree demaniali, che la successiva utilizzazione delle stesse, considerato che l’art. 18, l. 349 del 1996, pone tra i criteri di liquidazione del danno, quello del profitto conseguito dal trasgressore collegato anche all’attività di destinazione e sfruttamento delle opere.
(Trib. Napoli, 10.10.2004).

La giurisprudenza ammette che in mancanza di misurazioni qualitative e quantitative dell'inquinamento, il danno ambientale sia liquidato dal giudice penale sulla scorta dei criteri equitativi dettati dall'art. 18, l. 349 del 1986, ed il suo ammontare, fermo restando il costo di ripristino delle risorse naturali, varia in funzione del grado della colpa e del profitto indebito conseguito dal trasgressore. (Trib. Venezia, 27.11.2002, RgAmb, 2003, 163).
Il giudice deve, comunque, tenere conto della gravità della colpa individuale, delle spese necessarie per il ripristino e del profitto derivato al trasgressore dal suo comportamento di danneggiamento dei beni ambientali.
Qualora più persone abbiano concorso nel compiere lo stesso danno, ciascuno deve rispondere secondo la propria responsabilità individuale.
Ove possibile, il giudice ordina il ripristino dei beni ambientali, a spese del responsabile, nella sentenza di condanna.
La riscossione dei crediti in favore dello Stato risultanti dalle sentenze di condanna lo Stato si effettua a mezzo ruolo.
L’art. 311, 3° co., d.lg. 3.4.2006, n. 152, dà una definizione più compiuta dei criteri per determinare il risarcimento.
Detta precisa, infatti, che alla quantificazione del risarcimento per equivalente patrimoniale il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio provvede in applicazione dei criteri enunciati negli Allegati 3 e 4 al d.lg. 3.4.2006, n. 152.
Il risarcimento di danni provocati da impianti i cui progetti sono sottoposti a VIA, all. 3, deve essere quantificato tenendo in evidenza gli elementi di verifica richiesti per l'assoggettamento a VIA di quei progetti con particolare riferimento alle caratteristiche dei progetti alla loro localizzazione e alle caratteristiche del loro impatto potenziale.


8. La legittimazione processuale delle associazioni ambientaliste.

Le seguenti associazioni di protezione ambientale sono state individuate con decreti del Ministero dell’ambiente: Agriturist; Amici della terra; Associazione Greenpeace; Associazione Kronos 1991; Club Alpino Italiano; Federnatura; Fondo ambiente italiano; Gruppi ricerca ecologica; Italia nostra; Lega ambiente; Lega italiana per i diritti dell’animale; Lega italiana protezione uccelli; Mare vivo; Touring Club Italiano; World Wildelife Fund.
Le associazioni di protezione ambientale hanno le seguenti facoltà:
1) il potere di denunciare, assieme ai cittadini, i fatti che danneggino i beni ambientali di cui siano a conoscenza, con lo scopo di sollecitare l’intervento da parte dei soggetti pubblici autorizzati;
2) il potere d’intervenire nei giudizi per danno ambientale e di ricorrere al tribunale amministrativo per l’annullamento di atti illegittimi, ai sensi dell’art. 18, 4° e 5° co., l. 349 del 1986.
Le associazioni ambientalistiche sono legittimate a ricorrere avverso il rilascio di concessioni edilizie, risultando esteso il concetto di ambiente a problemi di conservazione del paesaggio urbano e rurale nonché del carattere ambientale della città in rapporto al grande sviluppo attuale degli insediamenti edilizi (T.A.R. Toscana, sez. I, 18.3.1994, n. 246, FA, 1994, 1523).
La giurisprudenza ha precisato che l'art. 18, 5° co., della l. 349 del 1986, riconosce alle associazioni di protezione ambientale espressamente individuate, con atto di accertamento avente effetti costitutivi, nel decreto ministeriale emanato ai sensi dell'art. 13, c. 1, della Legge stessa un interesse individuale a ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l'annullamento di atti amministrativi illegittimi, puntualizzandosi in esse la tutela di interessi diffusi e connettendosi a tali interessi, per forza normativa, la garanzia propria degli interessi legittimi (T.A.R. Lazio, sez. I, 21.9.1989, n. 1272, GI, 1992, III, 1, 516).
E' priva della legittimazione ad agire l'associazione ambientalista che non presenti le caratteristiche definite dagli artt. 13 e 18, 5° co., l. 8.7.1986, n. 349, consistenti nell'essere un'associazione nazionale, riconosciuta con decreto del ministro per l'ambiente, presente in almeno cinque regioni (T.A.R. Veneto, sez. II, 9.6.1992, n. 475, FA, 1993, 179).
Le associazioni di protezione ambientale individuate ai sensi dell'art. 13, l. 6.7.1986, n. 349, possono proporre le azioni risarcitorie conseguenti a danno ambientale, di competenza del giudice ordinario, che spettano al comune o alla provincia.

Le associazioni di protezione dell'ambiente possono intervenire nel processo e costituirsi parti civili, in quanto abbiano dato prova di continuità della loro azione, aderenza al territorio, rilevanza del loro contributo, ma soprattutto perché formazioni sociali nelle quali si svolge dinamicamente la personalità di ogni uomo, titolare del diritto all'ambiente.
(Cass. pen., sez. III, 1.10.1996, n. 9837, DPP, 1997, 590).

La giurisprudenza ha precisato che l'eventuale risarcimento del danno deve essere liquidato in favore dell'Ente sostituito (Cass. Pen., sez. III, 3.12.2002, n. 43238, CP, 2004, 1711).
Una diretta partecipazione all'esercizio dell'azione di danno, è stata invece prevista dall'art. 9, d.lg. n. 267/2000, che ha introdotto un meccanismo di sostituzione processuale, in forza del quale le associazioni riconosciute possono proporre le azioni risarcitorie spettanti al Comune o alla Provincia, nei casi in cui tali enti siano rimasti inerti.
Ai fini che qui interessano, giova ricordare che quest'ultimo riconoscimento normativo si è inserito in un sistema processuale diverso da quello vigente al momento dell'approvazione della l. 349/1986, al cui interno gli enti rappresentativi degli interessi lesi dal reato, portatori di un interesse penale alla repressione del fatto criminoso, hanno lo status di autonoma figura soggettiva, munita della facoltà di intervenire nel procedimento, ex artt. 91 e ss. c.p.p.
L'intervento de quo, subordinato al consenso della persona offesa, ex art. 92 c.p.p., è svincolato da finalità di tipo risarcitorio.
In particolare, esso ha la funzione di garantire l'apporto conoscitivo degli enti collettivi al processo, in materie connotate da particolare complessità tecnica - come l’edilizia, l’ambiente e la tutela dei consumatori - e regolate da normative in continua evoluzione, nell'affrontare le quali l'ufficio del pubblico ministero era stato ritenuto incapace di garantire un esercizio tempestivo e costante dell'azione penale.
Le associazioni ambientalistiche sono legittimate a costituirsi parte civile iure proprio, nei procedimenti per reati ambientali.
Niente osta alla costituzione di parte civile delle associazioni ambientalistiche che abbiano subìto un danno risarcibile dal reato, alla stregua di un qualunque soggetto dell'ordinamento.
Si pensi, ad esempio, ai reati contro il patrimonio o contro l'onore, come l’attentato contro la sede dell'associazione, o, più in generale, ai casi in cui il perseguimento dei fini statutari sia stato impedito o ostacolato da comportamenti criminosi spiegati nei confronti dei legali rappresentanti o dei portavoce del sodalizio.
Le stesse considerazioni valgono nei casi di danno ambientale.
Se, pertanto, dal fatto lesivo dell'ambiente sia derivato anche un autonomo danno all'associazione, questa è certamente legittimata, secondo le regole ordinarie, ad esercitare l'azione civile riparatoria, come nell'ipotesi in cui è proprietaria dell'area boschiva danneggiata da una costruzione abusiva, o la sua sede è situata in una zona interessata da un disastro ambientale.
Accanto a questa legittimazione ordinaria, la prevalente giurisprudenza di legittimità, riprendendo idee elaborate sotto la vigenza del c.p.p. del 1930, ammette una legittimazione speciale.
In caso di danno ambientale le associazioni possono costituirsi parte civile in quanto tali, e cioè nella qualità di soggetti che perseguono la finalità statutaria di tutela dell'ambiente.
La tesi si articola nei seguenti passaggi: a) il danno ambientale, in quanto lesivo di un bene rilevante ex art. 2 cost., reca, ipso facto, un'offesa alla persona umana nella sua dimensione individuale e sociale; b) per le associazioni ambientalistiche, la lesione riguarda il diritto della personalità del sodalizio, in relazione allo scopo perseguito; c) il conseguente danno ha natura sia patrimoniale - per i costi sostenuti nello svolgimento delle attività di propaganda e di sensibilizzazione della pubblica opinione - sia non patrimoniale per le frustrazioni degli associati nonché per il discredito derivante dal mancato raggiungimento dello scopo, che potrebbe indurre gli stessi associati a privare il sodalizio del loro sostegno personale e finanziario.


9. Il danno arrecato dalla selvaggina protetta.

Vi è controversia in giurisprudenza sull’attribuzione della giurisdizione
in materia di risarcimento dei danni arrecati dalla selvaggina protetta alle colture agricole.
Un orientamento ritiene che trattandosi di lesione di diritti soggettivi la controversia rientri nella giurisdizione ordinaria.
Occupandosi del caso di un'azienda agricola compresa in una "zona di rifugio" della selvaggina in base all'art. 20 della l.r. Veneto 14.7.1978, le cui colture ad orzo e frumento avevano subito danni a causa della eccessiva quantità di passeri esistenti in tale zona, la giurisprudenza ha attribuito alla posizione del proprietario danneggiato la consistenza di diritto soggettivo.
E’ stato affermata, perciò, la giurisdizione del giudice ordinario - nonostante la ritenuta inconsistenza del richiamo agli artt. 2043 e 2052 cod. civ. ed il riconoscimento che gli uccelli, come fauna selvatica, appartengono al patrimonio indisponibile dello Stato e sono tutelati nell'interesse della comunità nazionale.
Dall’art. 20, l.r. Veneto 14.7.1978, e dagli artt. 6 e 26, legge-quadro 27.12.1977 n. 968, contenente principi generali e disposizioni per la protezione e la tutela faunistica e disciplina della caccia, emerge che l'indennizzo da esse previsto per i terreni, compresi nelle zone di rifugio, i quali ricevano pregiudizio economico a causa della fauna selvatica protetta, ha funzione risarcitoria in senso stretto e, quindi, di reintegrazione patrimoniale, così da doversi escludere un potere discrezionale dell'amministrazione sia in ordine all'an, sia in ordine al quantum debeatur (Cass. civ., Sez. U., 27.10.1995 n. 11173).
In un’altra fattispecie disciplinata dall'art. 22 della l.r. Lombardia 22.3.1980 n. 33 - che detta le norme di attuazione del Piano territoriale di coordinamento del Parco Lombardo della Valle del Ticino, stabilendo che i danni arrecati dalla selvaggina alle colture agricole all'interno della fascia di silenzio venatorio saranno risarciti dal Consorzio, previo accertamento del danno, con finanziamenti regionali - si è discusso se il danneggiato abbia una posizione tutelabile avanti al giudice ordinario ovvero se, al contrario, il risarcimento sia pur sempre sottoposto ad un controllo da parte del Consorzio e ad una compatibilità con le disponibilità finanziarie erogate dalla Regione.
L’intervento regionale, infatti, esclude quel carattere di certezza che è tipico del diritto soggettivo e fa viceversa palese la subordinazione - propria dell'interesse legittimo - ad un interesse pubblico prevalente.
Si argomenta, ancora, che le norme sul ristoro dei danni all'interno delle aree protette configurano norme di azione, come si evincerebbe dalla dizione dell'art. 15, 3° e 4° co., della legge quadro 6.12.1991, n. 394, là dove si prevede che l'Ente Parco è tenuto ad indennizzare i danni provocati dalla fauna selvatica del Parco e che il regolamento del Parco stabilisce le modalità per la liquidazione e la corresponsione degli indennizzi.
In detto caso è stato ritenuto che la qualificazione come diritto soggettivo o interesse legittimo delle posizioni giuridiche configurabili a favore degli interessati relativamente ai ristori conseguibili per i pregiudizi arrecati dalla fauna selvatica alle colture agricole non è automaticamente correlata alla ubicazione - all'esterno o all'interno delle zone di protezione - dei fondi danneggiati e deve invece attribuirsi essenziale rilievo al concreto atteggiarsi della disciplina positiva.
In applicazione di tale criterio, deve riconoscersi la natura di diritto soggettivo - comportante la giurisdizione del giudice ordinario - alla pretesa al risarcimento dei danni provocati alle coltivazioni dalla fauna selvatica nell'ambito del Parco lombardo della Valle del Ticino, fondata sull'art. 15 della "legge - quadro" sulle aree protette n. 394 del 1991, che prevede, senza margini di discrezionalità, l'obbligo dell'Ente parco di indennizzare i danni provocati dalla fauna selvatica del parco nel termine di novanta giorni dal loro verificarsi; né portata diversa è attribuibile all'art. 22, 6° co., della l.r. Lombardia n. 33 del 1980 - norme di attuazione del piano territoriale di coordinamento del parco del Ticino - che, nel disciplinare l'aspetto di finanza pubblica, prevedendo finanziamenti regionali, ribadisce l'obbligo del Consorzio di risarcire i danni arrecati dalla selvaggina alle colture all'interno della fascia di silenzio venatorio (Cass. civ., Sez. U., 30.12.1998, n. 12901, GCM, 1998, 2664).



Capitolo diciasettesimo
La giurisdizione del Tribunale delle acque

Guida bibliografica.

1. La giurisdizione del Tribunale delle acque pubbliche.
Il t.u. approvato con r. d. 1775/1933 sulle acque pubbliche istituisce un sistema di giurisdizione in detta materia costituito dai Tribunali regionali e dal Tribunale superiore delle acque pubbliche.
Le particolarità di tali controversie, caratterizzate dalla necessità di una particolare conoscenza tecnica, ha giustificato la composizione di tali collegi nei quali sono presenti gli esperti del settore. Centofanti 2005, 293.

2. La giurisdizione del Tribunale superiore delle acque.
Il Tribunale superiore delle acque pubbliche è giudice in grado di appello di tutte le cause decise in primo grado dal Tribunale regionale, ex art. 142, r. d. 1775/1933. Centofanti 2005, 295.


1. La giurisdizione del Tribunale delle acque pubbliche.

La giurisdizione dei Tribunali delle acque pubbliche è divisa tra quella del Tribunale delle acque pubbliche che decide sulle controversie relative alla demanialità delle acque e quella del Tribunale Superiore delle Acque che è competente sui provvedimenti amministrativi che riguardano l'utilizzazione del demanio idrico.
Ai sensi dell'art. 140, T.U. n. 1775/1933, rientrano nella giurisdizione del Tribunale delle acque pubbliche tutte le controversie relative: a) alla demanialità delle acque; b) ai limiti dei corsi e dei bacini, loro alveo e sponde; c) alle derivazioni e utilizzazioni delle acque e relativi diritti di utenza; d) alle indennità per occupazioni ed espropriazioni occorrenti per l'esecuzione di opere idrauliche; e) al risarcimento dei danni a causa di opere idrauliche eseguite dall'amministrazione.
Le controversie che non hanno per oggetto la demanialità del bene rientrano nella giurisdizione ordinaria.
La norma di cui all'art. 140, 1° co., lett. c) del r.d. n. 1775 del 1933, non comporta la necessità di rimessione alla cognizione del giudice specializzato di tutte le controversie attinenti, direttamente o indirettamente, al regime delle acque pubbliche, presupponendo, per converso, la sola devoluzione, al detto giudice, delle specifiche controversie implicanti la necessità di particolari conoscenze extragiuridiche per la soluzione dei problemi tecnici riconnessivi, con esclusione, pertanto, di ogni questione che, non attenendo al regime delle derivazioni od utilizzazioni di acque pubbliche (e non implicando la soluzione di problemi tecnici, ma solo di tematiche squisitamente giuridiche), possa influire solo indirettamente su tale regime.

La controversia relativa al pagamento di un indennizzo per l'occupazione sine titulo di un suolo - pacificamente appartenente al demanio lacustre - ed all'occupazione di costruzioni ed opere su di esso insistenti (oltre che relativa all'accertamento della titolarità di eventuali diritti reali sui manufatti), non presupponendo la soluzione né di problemi tecnici, né di questioni circa la delimitazione dell'alveo o delle sponde del lago - ovvero l'accertamento della demanialità delle acque - deve ritenersi senz'altro devoluta alla cognizione del giudice ordinario.

Il petitum sostanziale della domanda è determinante per stabilire la competenza del giudice.
Appartengono alla competenza del giudice ordinario (nella specie, il tribunale di Catanzaro), e non a quella del tribunale delle acque pubbliche, alla stregua dell'art. 140 t.u. n. 1775 del 1933, le controversie nelle quali si discuta se un terreno, ubicato nei pressi della foce di un corso d'acqua, appartenente al demanio fluviale ovvero marittimo, sia suscettibile di usucapione, per effetto di una sdemanializzazione tacita, in difetto di uno specifico atto ad hoc della p.a., non venendo, in tal caso, in discussione la demanialità del bene, né dovendosi accertare preliminarmente se, ed entro quali limiti, il bene abbia cessato di fare parte dell'alveo del torrente.


2. La giurisdizione del Tribunale superiore delle acque.

La giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque è fissata dall'art. 143, 1° co., lett. a) del T.U. n. 1775 del 1933.
La norma, infatti, istituisce, in unico grado, un procedimento che ha il carattere di giudizio di impugnazione, per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, contro i provvedimenti definitivi adottati dall'amministrazione in materia di acque pubbliche e, data la sua lata e onnicomprensiva previsione, si attaglia a tutti i provvedimenti amministrativi che, pur costituendo esercizio di un potere non prettamente attinente alla materia, riguardino comunque l'utilizzazione del demanio idrico, incidendo in maniera diretta ed immediata sul regime delle acque pubbliche (Cass., Sez. Un., 15.7.1999, n. 403. Cons. St., Sez. V, 3.12.2001, n. 6012).
La giurisprudenza ha affermato che in relazione al principio desumibile dall'
art. 143, 1° co., lett. a), r.d. 11.12.1933, n. 1775 - che attribuisce alla cognizione diretta del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche i ricorsi per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge avverso i provvedimenti presi dall'amministrazione "in materia di acque pubbliche" - devono ritenersi devoluti alla cognizione del Tribunale Superiore anche i provvedimenti amministrativi che, pur incidendo su interessi più generali e diversi rispetto a quelli specifici relativi alla demanialità delle acque o ai rapporti concessori di beni del demanio idrico, attengano comunque all'utilizzazione di detto demanio idrico, interferendo immediatamente e direttamente sulle opere destinate a tale utilizzazione e, in definitiva, sul regime delle acque pubbliche (Sez. Un. 26.7.2002, n. 11099).
I giudizi d’impugnazione dei provvedimenti amministrativi che attengono all’utilizzazione del demanio idrico - Cass. Civ., sez. un., 26.7.2002, n. 11099 - come appunto il provvedimento d’approvazione di una derivazione d’acque per uso idropotabile della popolazione; nonché sulle occupazioni di fondi che si rendano a tal fine necessarie - Cass. Civ., sez. un., 11.7.2000, n. 479 -; e infine sulle concessioni edilizie strettamente finalizzate alla suddetta utilizzazione delle acque - Cass. Civ., sez. un., 4.8.2000, n. 541 - sono devoluti alla giurisdizione del tribunale superiore delle acque pubbliche, ex art. 143, alinea “a” del r.d. 11.12.1933, n. 1775 sulle acque pubbliche.
(Cons. St., Sez. V, 15.4.2004, n. 2146).

Rientra nella competenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche, nelle materie nelle quali ha giurisdizione, la controversia in tema di legittima determinazione del canone di concessione.
Nella specie, si faceva questione della determinazione del canone per l'utilizzo di porzioni di demanio fluviale (Trib. sup.re acque, 22.2.1999, n. 37, CS, 1999, II, 261).
La giurisprudenza ravvisa il discrimen, che delimita la giurisdizione del
Tribunale superiore delle acque pubbliche rispetto a quella del giudice ordinario, nell’oggetto della richiesta formulata in giudizio.

In tema di diritti esclusivi di pesca, la giurisdizione riservata al tribunale superiore delle acque pubbliche dall'art. 143, r.d. 1775/33, che non è né generale né esclusiva, è limitata in base al collegamento a fattispecie tipiche qualificate dal contenuto e dalla forma dei provvedimenti impugnati, dalla procedura richiesta per la loro emanazione e dalla autorità pubblica da cui promanano, ossia alla cognizione dei ricorsi proposti contro provvedimenti di revoca o di decadenza dei diritti su acque del demanio marittimo, fluviale, lagunare e, in genere, su ogni acqua pubblica, adottati dai ministeri competenti. Pertanto, spetta alla cognizione del giudice ordinario la causa avente ad oggetto la rimozione dell'impianto di itticoltura intensiva, installato da un privato nel tratto di mare, ove si assume esistente il diritto esclusivo di pesca derivante da antiche concessioni, rilasciate ad altro privato, perché caratterizzata dall'accertamento solo incidentale, tra le parti, dall'attuale esistenza del diritto a tutela del quale è stata chiesta la rimozione degli impianti, senza che venga in discussione alcun provvedimento amministrativo.

Del pari gli atti aventi ad oggetto le acque pubbliche non rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo.

Poiché l'art. 143, 1° co., lett. a), r.d. 11.12.1933, n. 1775, attribuisce alla cognizione diretta del tribunale superiore delle acque pubbliche i ricorsi per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge avverso i provvedimenti adottati dall'Amministrazione in "materia di acque pubbliche", esulano dalla giurisdizione del giudice amministrativo (che può rilevarne il difetto in ogni stato e grado del processo) anche i casi in cui l'atto, pur costituendo esercizio di un potere non propriamente attinente alla materia in parola (cioè: pur incidendo su interessi più generali e diversi rispetto a quelli specifici relativi alla demanialità delle acque od ai rapporti concessori di beni del demanio idrico) attenga comunque all'utilizzazione di dette risorse, interferendo immediatamente sulle opere destinate a tale utilizzazione e, in definitiva, sul regime delle acque pubbliche.


















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