mercoledì 3 ottobre 2012

Beni pubblici. 10 L’utilizzazione.


Capitolo decimo
L’utilizzazione dei beni pubblici.

Guida bibliografica.

1. L’uso diretto.
I beni demaniali possono essere tenuti a disposizione esclusivamente della stessa pubblica amministrazione escludendo ogni altra utilizzazione da parte della collettività. Sandulli 1984, 762.

2. L’uso generale.
La volontà dell’amministrazione di conservare la destinazione del bene all'uso pubblico acquista una particolare rilevanza anche nel procedimento di sdemanializzazione.
Essa, infatti, deve essere motivata a contraris quando si tratta di destinare il bene ad un utilizzo particolare che contrasta coll’uso generale.
La giurisprudenza ha rilevato che la sdemanializzazione di un bene pubblico, quando non derivi da un provvedimento espresso, deve risultare da altri atti e/o comportamenti univoci della p.a. proprietaria che siano concludenti e incompatibili con la volontà di quest'ultima di conservare la destinazione del bene stesso all'uso pubblico oppure da circostanze tali da rendere non configurabile una ipotesi diversa dalla definitiva rinuncia al ripristino della funzione pubblica del bene.
Nel caso di specie si è ritenuto che la sdemanializzazione di una strada non si può desumere dal mero fatto che il bene non è stato più adibito, per un certo tempo, a detto uso. T.A.R. Abruzzo Pescara, 17.10.2005, n. 580, FATAR, 2005, 10 3245.

3. L’uso particolare. La concessione.
La dottrina evidenza la differenza fra autorizzazioni e concessioni nell’utilizzo dei beni pubblici. L’autorizzazione è tesa a verificare la compatibilità fra gli interessi pubblici e quelli privati al fine di controllare il corretto uso dei beni.
La concessione, invece, comporta una valutazione discrezionale che deve valutare la sottrazione del bene all’uso generale per destinarlo all’uso particolare. Galli 1996, 354.

3.1. La concessione e il contratto di locazione.
In taluni casi il rapporto concessorio è instaurato mediante un contratto di diritto civile in attuazione di un atto amministrativo avente natura concessoria. Sandulli 1984, 768.

4. Il trasferimento tra privati di beni in concessione.
La giurisprudenza ha affermato che, qualora sia accertato, attraverso la complessiva interpretazione - riservata al giudice di merito - dell'atto di concessione, che è stato conferito al privato un diritto reale di godimento su un immobile demaniale, l'atto con cui quest'ultimo aliena tale diritto è soggetto ad in.v.im., ai sensi dell'art. 2, 1° co., d.p.r. 26.10.1972 n. 643 e mod. Cass. Civ., sez. trib., 9.3.2004, n. 4769, FACDS, 2004, 658.


5. Il canone delle concessioni.
La giurisprudenza precisa che, nelle controversie sul canone dovuto per una concessione del demanio marittimo, si profila la giurisdizione del g.a. quando la misura del canone costituisce il risultato di scelte discrezionali nella conformazione del rapporto.
La giurisdizione, invece, del giudice ordinario non può essere esclusa quando esistono norme, regolamenti o atti generali emanati dalla p.a. i quali, per la determinazione del canone nel caso concreto, dettano criteri la cui applicazione presuppone non scelte discrezionali, ma apprezzamenti di ordine tecnico. Cons. St., sez. VI, 20.7.2004, n. 5239, DT, 2005, 1095.


6. Gli inventari.
I beni immobili dello Stato possono essere concessi in uso gratuito solo se assegnati ad un servizio governativo secondo la previsione dell'art. 1, r.d. 18.11.1923, n. 2440. Corte Conti, sez. contr., 2.5.1995, n. 62, CS, 1995, II, 1818.
La giurisprudenza ha conseguentemente deciso che l'Ente poste italiane - a seguito della sua trasformazione da Amministrazione delle poste e telecomunicazioni in ente pubblico economico e alla luce della natura interorganica del suo rapporto rispetto allo Stato, oramai fondato su criteri di effettiva autonomia - non può continuare ad avvalersi a titolo gratuito degli immobili demaniali, ai sensi dell'art. 1, 2° co., r.d. 18.11.1923, n. 2440, svolgendo una attività non più qualificabile come servizio governativo. Cons. St. a. gen., 4.6.1998, n. 2, CS, 1999, I, 311.
Solo quando cessi l'uso gratuito che forma oggetto della concessione per una delle cause che comportano il venire meno del provvedimento concessorio il Ministero delle finanze può tornare ad esercitare i propri poteri di amministrazione ed autotutela. Cass. Civ., sez. I, 7.12.2000, n. 15546, GC, 2001, I, 1879.


1. L’uso diretto.

I beni pubblici sono soggetti prima di tutto alla legislazione speciale che li regola.
I procedimenti di acquisizione al demanio di gestione e di sdemanializzazione sono tipici.
1. I beni che costituiscono il patrimonio dello Stato, delle province e dei comuni sono soggetti alle regole particolari che li concernono e, in quanto non è diversamente disposto, alle regole del presente codice.
2. I beni che fanno parte del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano.
(art. 828, c.c.).

Nell’ambito delle facoltà concesse della legge speciale appartiene alla discrezionalità dell'amministrazione l'individuazione delle modalità di utilizzazione del bene pubblico.
La dottrina distingue l’uso diretto che l’amministrazione fa del bene da quello collettivo e dall’uso individuale (Galli 1996, 353).
Esso può avvenire in forma diretta da parte dell'ente proprietario.
Alcuni beni hanno una funzione prettamente strumentale in quanto attraverso il loro utilizzo l’amministrazione è in grado di perseguire i propri scopi istituzionali.
I beni destinati al servizio pubblico - da cui risulti la specifica volontà dell'ente di destinare quel determinato bene ad un pubblico servizio e l'effettiva ed attuale destinazione del bene al pubblico servizio – sono utilizzati direttamente dall'amministrazione e sono incompatibili con il loro uso particolare da parte di singoli privati.
I beni del demanio militare sono destinati alle esigenze della difesa.
I cimiteri comunali sono destinati al culto dei defunti e a risolvere evidenti problemi di igiene pubblica.
Attraverso il demanio aeroportuale si soddisfano le esigenze di trasporto.
Per la giurisprudenza l’uso diretto con cui l’amministrazione voglia utilizzare determinati beni prima destinati ad uso particolare legittima provvedimenti che cambino la destinazione precedentemente attribuita a quei beni.

E’ legittima la possibilità dell’amministrazione di riesaminare, alla luce di nuove e diverse esigenze di interesse pubblico, la determinazione inizialmente adottata in ordine alla sua destinazione, possibilità da ammettersi - a fortiori - qualora si tratta di nuova destinazione ad uso diretto da parte dell'amministrazione stessa e che costituisce la più naturale destinazione dei beni demaniali, oggettivamente e soggettivamente pubblici.



2. L’uso generale.

I beni demaniali appartengono allo Stato e ad altri enti pubblici territoriali e sono riservati all'uso pubblico a favore della collettività.
La scelta dell'Amministrazione di mantenere l'utilizzazione ad uso pubblico di un bene demaniale, pur in presenza di una domanda di concessione, non richiede una motivazione specifica.
E’ sufficiente la concreta indicazione dell'incompatibilità della nuova destinazione con l'uso pubblico del bene demaniale; la motivazione è necessaria nell'ipotesi di adozione di un provvedimento di concessione, dovendo essere indicate le ragioni che inducono a ritenere la destinazione ad un uso diverso da quello istituzionale compatibile e non pregiudizievole per l'interesse generale.
(T.A.R. Sardegna, Sez. I, 3.3.2005, n. 275).

La generalità dei beni appartenenti al demanio marittimo trova la ragione della demanialità nell'essere utilizzati o utilizzabili per i cosiddetti usi del mare e si caratterizza per la naturale attitudine ad essere posti direttamente a servizio dell'interesse sociale.
Tra questi usi del mare rientra la balneazione, modalità di godimento, che permette alla collettività di fruire del bene indistintamente e in modo immediato e diretto, in assenza di ostacoli che si frappongono al libero esercizio.
La spiaggia - comprensiva di tratti di terra prossimi al mare e dall'arenile - presenta una naturale vocazione all'uso generale e diretto, accordato alla collettività, in forza di una ammissione generale implicita nella destinazione.
In capo alla collettività civile sorge un diritto di godimento, qualificato come diritto collettivo reale sul bene o più generalmente quale diritto civico, alias diritto pubblico soggettivo, esperibile erga omnes, anche nei riguardi dell'ente cui i beni appartengono.
Il contenuto del diritto soggettivo di godere del bene marittimo si esplica nel diritto ad accedere liberamente alla spiaggia, senza imposizione di oneri economici, nel diritto di potersi posizionare ovunque, senza preclusioni, di godere dell'habitat marino e nel diritto a non utilizzare strutture offerte da terzi che intendono ricavare utilità economiche dall'offerta dei vari servizi.
Questo diritto spetta ai componenti della collettività, non solo come uti cives, ma addirittura come uti homines.
L’uso generale è quindi la forma maggiormente coerente con la funzione della spiaggia: invero oggi il tratto saliente del demanio marittimo non è tanto la appartenenza del bene all'ente pubblico, ma la utilizzazione che la collettività ne può fare.
L'utilità che dal godimento ciascuna persona può ritrarre, non tanto di natura economica, ma spirituale ed estetica rendono quanto mai necessaria l'introduzione di una tutela in due direzioni: da un lato per la conservazione del bene, cioè la riaffermazione della sua intangibilità; dall'altro per assicurare il godimento pieno e incondizionato a favore dei singoli, di fronte ad un uso invasivo del demanio, volto a sfruttarne prevalentemente le potenzialità economiche.
Quando lo spazio fisico per ospitare strutture su beni demaniali è limitato, a causa della conformazione dei luoghi, deve essere privilegiato l'uso generale del bene, poiché in tal modo si rispetta la sua vocazione naturale, rispettandone l'habitat naturale e il rapporto immediato e diretto uomo-ambiente.



3. L’uso particolare. La concessione.

L'atto di concessione di un bene demaniale è l’unico atto consentito perché i beni demaniali formino oggetto di diritti a favore di terzi.
Le caratteristiche di detto istituto sono la precarietà del rapporto e la sua revocabilità ad nutum da parte della pubblica amministrazione, ove sopravvengano e si manifestino pubbliche esigenze.
La disponibilità dei beni demaniali, attesa la loro destinazione alla diretta realizzazione di interessi pubblici, entro certi limiti e per alcune utilità può essere legittimamente attribuita ad un soggetto diverso dall'ente titolare del bene mediante concessione amministrativa.
A fronte di una domanda di concessione di un bene demaniale, l'amministrazione dispone di un ampio potere discrezionale, nell'ambito del quale deve considerarsi rientrante anche la ponderazione di interessi di ordine generale e di natura diversa da quelli propriamente demaniali, teso ad accertare la compatibilità dell'uso particolare del bene richiesto in concessione con l'uso generale, secondo le finalità ad esso proprie (T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. I, 14.10.2004, n. 2282).
La facoltà dell'amministrazione di consentire a privati l'uso particolare di beni demaniali è del tutto discrezionale.

Nell'esercizio della facoltà (assolutamente discrezionale) dell'amministrazione di consentire a privati l'uso particolare di beni demaniali, all'amministrazione compete certamente l'ulteriore connessa facoltà di determinare la durata della concessione ma tale facoltà deve essere relazionata anche ad altre esigenze concrete quali le (motivate) istanze degli interessati e il positivo riscontro istruttorio sulla base del quale l'amministrazione ha gli strumenti cognitivi per valutare se le richieste degli aspiranti siano compatibili con lo specifico e preminente interesse pubblico.
(Cons. St., sez. VI, 26.7.2005, n. 3978, FACDS, 2005, f. 7/8, 2290).

La giurisprudenza riafferma il potere discrezionale dell’amministrazione marittima.

In caso di richiesta di concessione demaniale marittima, la normativa di settore rimette al potere discrezionale dell'Autorità marittima la valutazione di quale tra i vari usi del bene demaniale si presenti più proficuo rispetto all'interesse della collettività, tenuto conto della circostanza che, comunque, il richiesto uso particolare del bene medesimo costituisce deroga rispetto all'ordinario regime di libera balneazione.

I diritti aventi ad oggetto l'utilizzazione di un bene demaniale che la pubblica amministrazione costituisce in favore dei privati hanno natura di diritti soggettivi perfetti nei rapporti tra i privati e degradano a interessi legittimi nei confronti della pubblica amministrazione concedente (Sandulli 1984, 769).
Nei rapporti tra privati i diritti de quibus, poi, in base all'atto di concessione, possono avere natura personale ovvero reale.
Mediante un atto di concessione, detta appunto costitutiva, infatti, è possibile conferire al privato sul bene demaniale un uso eccezionale, ossia un uso esorbitante dalla normale destinazione del bene, ed in siffatta ipotesi la concessione ingenera nel privato facoltà del tutto nuove e diverse da quelle spettanti alla pubblica amministrazione sul medesimo bene (Cass. Civ., sez. II, 11.6.1975, n. 2308).
Tali facoltà si concretano in diritti di carattere privato, strutturalmente assimilabili alla categoria dei diritti reali su cosa altrui, che, come accennato, hanno natura di diritti soggettivi perfetti nei confronti degli altri privati e di diritti condizionati nei confronti della pubblica amministrazione.
La giurisprudenza ha ritenuto concretare un'ipotesi di uso eccezionale implicante il conferimento di un diritto assimilabile, nei rapporti con gli altri privati, alla categoria dei diritti reali su cosa altrui le concessioni di occupazione di suolo pubblico per fini di utilità esclusivamente privata, effettuate mediante costruzioni o manufatti di carattere permanente (Cass. Civ., I, sez. II, 6.6.1968, n. 1711).
Il potere attribuito al concessionario si estrinseca direttamente sulla cosa che ne costituisce l'oggetto immediato e può esser fatto valere erga omnes, ancorché nei limiti posti dalla natura e dalla funzione della cosa stessa. (Cass. Civ., sez. trib., 9.3.2004, n. 4769, FACDS, 2004, 658).




3.0. La concessione di alloggi di servizio.

La concessione degli alloggi di servizio del personale delle amministrazioni statali trova regolamentazione nella legislazione speciale
La regolamentazione dell'assegnazione degli alloggi di servizio del personale del Ministero della Difesa è contenuta in appositi provvedimenti adottati in applicazione delle specifiche norme di legge riguardanti la costruzione ed utilizzazione degli alloggi medesimi, ex art. 43, l. 18.8.1978, n. 497; d.m. 1.3.1980; art. 9, 7° co., l. 24.12.1993, n. 537; d.m. 31.8.1994; art. 43, l. 23.12.1994, n. 724. (T.A.R. Toscana, sez. I, 27.12.2004, n. 6627, FATAR, 2004, 12 3707).
La concessione di un bene demaniale adibito ad abitazione di un militare comporta una durata non necessariamente in correlazione con quella del servizio, ma, in ogni caso, destinata a venire meno con la perdita del titolo per trasferimento o altro o con la cessazione del servizio, in forza di espressa clausola dell'atto (T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 23.2.1991, n. 67, FA, 1991, 2345).
Il canone degli alloggi è determinato dal Ministero della Difesa.

1. Ai fini dell'adeguamento dei canoni di concessione degli alloggi costituenti il patrimonio abitativo della Difesa, fermo restando la gratuità degli alloggi di cui al n. 1) dell'art. 6, l. 18.8.1978, n. 497, e l'esclusione di quelli di cui al n. 2) del medesimo articolo, il cui importo sarà determinato dal Ministro della difesa con proprio decreto da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, si applica un canone determinato su base nazionale ai sensi dell'articolo 13 della l. 18.8.1978, n. 497, ovvero, se più favorevole all'utente, un canone pari a quello derivante dall'applicazione della normativa vigente in materia di equo canone.
(art. 43, l. 18.8.1978, n. 497).

La giurisprudenza ribadisce il potere dell'amministrazione di emanare gli atti intesi ad assicurare l'effettiva destinazione dell'immobile a soddisfare le esigenze di servizio tra cui il recupero dell'alloggio quando sia utilizzato da un soggetto in assenza di titolo idoneo (T.A.R. Sardegna, 17.12.1987, n. 987, FA, 1988, 3043).



3.1. La concessione e il contratto di locazione.

Nell’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica il rapporto è instaurato mediante un contratto di locazione in attuazione di un atto amministrativo avente natura concessoria (Filograno 2004, 333).
L’assegnazione è il provvedimento amministrativo con il quale si identifica l’idoneità del richiedente a poter stipulare un successivo contratto di locazione di alloggio di edilizia pubblica, regolato dalla normativa speciale (Narducci 2006, 3113).
Il provvedimento non deve necessariamente indicare l’alloggio; con il provvedimento di scelta si realizza la possibilità di stipulare il successivo contratto di locazione.
Il procedimento si articola in due atti distinti: l’assegnazione, come affermazione della posizione utile di chi è collocato in graduatoria alla stipula del contratto, e la scelta, come identificazione dell’oggetto del contratto; essi possono anche essere compresi in un unico atto di assegnazione qualora questo individui anche l’alloggio da assegnare.
L’atto di assegnazione presuppone necessariamente che il richiedente abbia partecipato ad un bando di concorso e sia riconosciuta la sua idoneità ad essere soggetto di un atto di assegnazione.
Questa idoneità si ottiene con l’accertamento dei requisiti necessari per essere ammesso a fruire di un alloggio di edilizia residenziale pubblica.
Il provvedimento è dovuto in relazione alla qualità personale dell’assegnatario; solo l’assegnatario può essere soggetto passivo del provvedimento.
La giurisprudenza conferma che, prima dell’assegnazione dell’alloggio che gli risulta prenotato, il privato non è titolare di diritti soggettivi sullo stesso, ma solo di interessi legittimi all’emanazione del provvedimento amministrativo (Cass. civ., sez. un., 24.10.1997, n. 10457, RN, 1998, 684).
La giurisprudenza è unanime nel riconoscere che il procedimento di assegnazione di alloggi da parte dell’IACP agli aventi diritto si articola in due fasi essenziali: la prima, di natura pubblicistica, culmina con l’assegnazione dell’immobile e radica la giurisdizione sulle relative controversie in capo al giudice amministrativo; la seconda, di natura privatistica, si incentra nella stipula del contratto di locazione tra l’IACP e l’assegnatario, radicando la giurisdizione sulle relative controversie in capo al giudice ordinario (Trib. Latina, 14.9.1993, GM, 1993, 1405).
L’amministrazione ha la possibilità di tutela che comporta la revoca dell’assegnazione qualora vengano meno i requisiti che hanno portato all’assegnazione dell’alloggio.


4. Il trasferimento tra privati di beni in concessione

La concessione amministrativa su beni demaniali o su beni indisponibili può attribuire anche diritti assimilabili a quelli personali di godimento non esclusi dalla previsione dell'art. 823, c. c., e pienamente compatibili con i poteri d'impiego dell'ente concedente a tutela dell'interesse pubblico.
Per stabilire nei singoli casi se a favore del concessionario sia stato costituito un diritto di natura reale ovvero personale occorre accertare, con indagine da compiersi dal giudice del merito secondo i normali criteri d'interpretazione dei contratti e degli atti amministrativi, l'effettiva e concreta consistenza di quel diritto e, se separato, anche del provvedimento amministrativo di concessione (Cass. Civ., sez. I, 8.9.1983, n. 5527).
Al fine di stabilire se una concessione amministrativa su di un bene appartenente al demanio marittimo sia costitutiva di diritti aventi natura reale o meramente obbligatoria, quindi, risulta decisiva la complessiva interpretazione, di competenza del giudice di merito, del titolo costitutivo del diritto e, cioè, dell'atto di concessione, con particolare riferimento alla disciplina relativa alla destinazione delle opere costruite dal concessionario al momento della cessazione del rapporto (Cass. Civ., sez. I, 4.5.1998, n. 4402).
La natura demaniale di un bene non costituisce ostacolo giuridico né alla costituzione in favore di privati, mediante concessione, di diritti reali o personali che abbiano ad oggetto la fruizione del bene medesimo, né alla circolazione tra privati di tali diritti che hanno natura, nei rapporti privatistici, di diritti soggettivi perfetti.
Il carattere pubblicistico della concessione, peraltro, non osta alla costituzione fra privati di rapporti giuridici relativi alla concessione stessa, né, in particolare, al trasferimento, totale o parziale, dei diritti da essa derivanti, salvo che la legge, oltre a vietare la subconcessione, la colpisca anche con la sanzione di nullità.
L'acquisto da parte del terzo del diritto del concessionario è valido ed operante, sia pure nei limiti oggettivi delle facoltà spettanti al concessionario e nei limiti temporali della concessione medesima, fino a quando la pubblica amministrazione non la revochi, per trasgressione al divieto di subconcessione.
Il concessionario, pertanto, se autorizzato dall'amministrazione concedente, può dare in uso a terzi, a titolo oneroso e dietro corrispettivo, terreni demaniali, ovvero anche locali facenti parte del demanio, sia per mezzo di locazione del bene stesso sia attraverso la subconcessione (Cass. Civ., sez. III, 26.4.2000, n. 5346).
Con la stipula della concessione si realizza il trasferimento al subconcessionario non già della concessione, ma delle sole facoltà spettanti al concessionario, ovverosia soltanto di quelle facoltà che si atteggiano, nei rapporti tra privati, come diritti soggettivi perfetti (Cass. Civ., sez. I, 8.9.1982, n. 3324).
La natura demaniale del bene non costituisce ostacolo giuridico né alla costituzione in favore di privati di diritti reali e/o personali che abbiano ad oggetto la fruizione del bene demaniale né, di conseguenza, alla circolazione tra privati di tali diritti.




5. Il canone delle concessioni.

Le leggi speciali determinano l’ammontare del canone delle concessioni.
La determinazione dei canoni d'uso del demanio marittimo è fissata dalla l. 24.11.2003 n. 326.
Detta legge riconosce allo Stato il diritto dominicale di fissare un canone per l'utilizzo dei propri beni demaniali.
La materia è disciplinata dall'art. 32, 21°, 22° e 23° co., l. 326/2003.
L'art. 32, 21° co., l. 326/2003, prevede che con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sono rideterminati i canoni annui di cui all'art. 3, l. 4.12.1993, n. 494.
L'art. 3, 1° co., l. 4.12.1993, n. 494, si occupa dei canoni di concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative, precisando che il decreto ministeriale - ora interministeriale - che li determina deve essere emanato sentita la Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano.
L’art. 32, 22° co., l. 4.12.1993, n. 494, dispone, relativamente a dette concessioni, che con decreto interministeriale, da emanare entro il 30 giugno 2004, sono assicurate maggiori entrate non inferiori a 140 milioni di euro, a decorrere dal 1° gennaio 2004.
In caso di mancata adozione del decreto entro il predetto termine del 30.6.2004, i canoni per la concessione d'uso sono rideterminati, con effetto dal 1.1.2004, nella misura prevista dalle tabelle allegate al d.m. 5.8.1998, n. 342, che approva il regolamento recante norme per la rideterminazione dei canoni relativi a concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative, rivalutate del trecento per cento.
Tali tabelle tengono conto dei criteri di classificazione in base alla diversa valenza turistica delle aree, stabiliti con lo stesso d.m. 5.8.1998, n. 342.
L’art. 32, 23° co., l. 4.12.1993, n. 494, risulta strettamente connesso con il comma precedente. Esso afferma che resta fermo quanto previsto dall'art. 6, d.m. 5.8.1998, n. 342, relativo alla classificazione delle aree da parte delle regioni, in base alla valenza turistica delle stesse. Il riferimento all'art. 6, d.m. 5.8.1998, n. 342, pone in evidenza il ruolo che è stato riservato alle Regioni per la classificazione delle aree secondo la loro valenza turistica. Esso precisa, infatti, che le regioni individuano le aree del proprio territorio da classificare nelle categorie A, B e C, effettuati gli accertamenti dei requisiti di alta, normale e minore valenza turistica.
Sono così previste due diverse modalità di determinazione dei canoni, l'una aperta alla partecipazione regionale, relativa alla classificazione delle aree da parte delle Regioni ed obbligo di sentire la Conferenza Stato-Regioni, l'altra connotata dall'unilateralità della determinazione per legge.
Secondo le Regione, nella vigenza dell'art. 117 cost., è evidente che la competenza legislativa in materia di demanio marittimo rientra nella sfera della legislazione esclusiva regionale o, al più, della legislazione concorrente del governo del territorio.
La Regione ritiene che la prevista uniforme rivalutazione dei canoni per le concessioni d'uso del demanio marittimo per finalità turistico-ricreative esorbita comunque dall'ambito della competenza legislativa statale.
Ammettere che la materia ricada nell'ambito della legislazione concorrente, la predetta rivalutazione, per un verso, non può qualificarsi quale principio fondamentale e, per altro verso, non è stata oggetto di congiunta valutazione da parte dello Stato e delle Regioni.
Tali disposizioni sottraggono illegittimamente alla Regione la possibilità di determinare, attraverso lo strumento legislativo, un'autonoma risorsa finanziaria, comunque attratta nella sfera regionale attraverso il dominio legislativo della materia.
La Corte costituzionale ha giudicato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 32, 22° co., l. 24.11.2003, n. 326, concernente la rideterminazione dei canoni d'uso del demanio marittimo, sollevata in riferimento all'art. 119 cost.
La Corte ha ritenuto evidente l'errore di prospettiva di tale interpretazione, che confonde la proprietà del bene con il potere di disciplinare l'uso del bene stesso.
Poiché lo Stato è ente proprietario dei beni demaniali in questione, non è dubbio che a questo spetti la fissazione e la riscossione dei relativi canoni.
La stessa Corte - a proposito della spettanza della potestà di imposizione e riscossione del canone per la concessione di aree del demanio marittimo - ha sancito che determinante è la titolarità del bene e non invece la titolarità di funzioni legislative e amministrative intestate alle Regioni in ordine all'utilizzazione dei beni stessi (Corte cost. 150/2003).
Il procedimento di determinazione dei canoni d'uso per le concessioni dei beni in questione, inoltre, prevede espressamente il coinvolgimento diretto delle Regioni, le quali sono chiamate a classificare le aree del demanio marittimo in ragione della diversa valenza turistica delle stesse e debbono essere sentite attraverso lo strumento della Conferenza Stato-Regioni, mentre, d'altro canto, la legge fissa unilateralmente l'ammontare dei canoni solo per il caso di mancata adozione d.m.

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 32, 22° co., l. 24.11.2003, n. 326, nella parte in cui riconosce allo Stato il diritto dominicale di fissare un canone per l'utilizzo dei propri beni demaniali, sollevata deducendosi la violazione del principio di leale collaborazione. Deve infatti escludersi la violazione di tale principio qualora, come nella specie, il procedimento di determinazione dei canoni d'uso per le concessioni dei beni demaniali preveda espressamente il coinvolgimento diretto delle regioni, chiamate a classificare le aree del demanio marittimo in ragione della diversa valenza turistica delle stesse, nonché ad essere sentite attraverso lo strumento della Conferenza Stato-regioni.
(Corte cost., 28.7.2004, n. 286, FACDS, 2004, 1982).



5.1. Il canone agevolato alle istituzioni di assistenza e beneficenza.

L'art. 80, 6° co., l. 27.12.2002, n. 289, al fine di favorire l'autonoma iniziativa per lo svolgimento di attività, di interesse generale, in attuazione dell'art. 118, 4° co., cost., prevede che le istituzioni di assistenza e beneficenza e gli enti religiosi che perseguono rilevanti finalità umanitarie o culturali possono ottenere la concessione o locazione di beni immobili demaniali o patrimoniali dello Stato.
Detti beni non devono ancora essere stati trasferiti alla Patrimonio dello Stato s.p.a., né suscettibili di utilizzazione per usi governativi, a un canone ricognitorio determinato ai sensi degli artt. 1 e 4, l. 11.7.1986 n. 390, e mod.
Fino alla previsione da parte del legislatore statale dei principi per la attribuzione a regioni ed enti locali di beni demaniali o patrimoniali dello Stato, detti beni restano a tutti gli effetti nella piena proprietà e disponibilità dello Stato (e per esso dell'Agenzia del demanio) ex art. 119 cost.
Lo Stato incontra nella gestione dei beni il solo vincolo delle leggi di contabilità e delle altre leggi disciplinanti il patrimonio mobiliare ed immobiliare statale, mentre deve escludersi che una manifestazione del potere dominicale dello Stato di disporre dei propri beni incontri i limiti della ripartizione delle competenze secondo le materie.
Le facoltà che spettano allo Stato in quanto proprietario precedono logicamente la ripartizione delle competenze.

Non è fondata, in riferimento agli artt. 117, 2°, 3° e 4° e 119 cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 80, 6° co., l. 27.12.2002, n. 289, il quale, al fine di favorire l'autonoma iniziativa per lo svolgimento di attività, di interesse generale, in attuazione dell'art. 118, 4° co., cost., prevede che le istituzioni di assistenza e beneficenza e gli enti religiosi che perseguono rilevanti finalità umanitarie o culturali possono ottenere la concessione o locazione di beni immobili demaniali o patrimoniali dello Stato, a un canone determinato ai sensi degli artt. 1 e 4, l. 11.7.1986 n. 390, e mod.


6. Gli inventari.

La disciplina dei beni patrimoniali indisponibili è contenuta nel r.d. 18.11.1923, n. 2440, e nel relativo regolamento approvato con r.d. 23.5.1923, n. 827. Essi sono assegnati in amministrazione al Ministero delle finanze.

1. I beni immobili dello Stato, tanto pubblici, quanto posseduti a titolo di privata proprietà, sono amministrati a cura del ministero delle finanze, salve le eccezioni stabilite da leggi speciali.
2. I beni immobili assegnati ad un servizio governativo s'intendono concessi in uso gratuito al ministero da cui il servizio dipende e sono da esso amministrati. Tosto che cessi tale uso passano all'amministrazione delle finanze.
3. Ciascun ministero provvede all'amministrazione dei beni mobili assegnati ad uso proprio o di servizi da esso dipendenti, salve le disposizioni speciali riguardanti i mobili di ufficio.
(art. 1, r.d. 18.11.1923, n. 2440).

I beni immobili patrimoniali assegnati ad un servizio governativo sono invece amministrati dal ministero da cui il servizio stesso dipende. (Resta 1963, 117).

1. A cura del ministro delle finanze deve formarsi l'inventario dei beni immobili di pertinenza dello Stato, distinguendo quelli destinati in servizio governativo dagli altri, e indicando gli elementi atti a farne conoscere la consistenza ed il valore.
2. Ciascun ministro deve far compilare l'inventario dei mobili e dei materiali di spettanza dello Stato.
3. Il regolamento determinerà le norme per la formazione e la conservazione dei detti inventari.
(art. 2, r.d. 18.11.1923, n. 2440).

La dottrina distingue l’inventariazione che esprime una modalità certificatoria di conservazione dall’uso sia esso governativo o affidato a terzi che esprime una modalità gestoria (Colombini 1990, 4).
La giurisprudenza ha affermato che l'ente preposto pervenga in tempi brevi alla tenuta dell'inventario che consenta non solo la individuazione di ciascuna unità immobiliare e, per ciascuna di esse, lo stato di utilizzazione ed il reddito prodotto, ma altresì, il recupero del collegamento responsabilizzante tra singolo cespite ed ufficio od organo affidatario del cespite stesso. (Corte Conti, sez. con. Enti, 18.10.1995, n. 54, RCC, 1995, fasc. 6, 92).
Il ministero che abbia in uso un terreno appartenente al patrimonio dello Stato - assegnatogli dall'amministrazione delle finanze - è legittimato ad agire in via di autotutela per reprimere eventuali turbative al godimento del bene (T.A.R. Lazio, sez. I, 10.2.1987, n. 287, T.A.R., 1987, I, 845).
La giurisprudenza, in ogni caso, ritiene che l’iscrizione nell’inventario abbia solo un effetto dichiarativo ma non costitutivo della qualità di bene patrimoniale indisponibile.
Affinché un bene non appartenente al demanio necessario possa rivestire il carattere pubblico proprio dei beni patrimoniali indisponibili perché "destinati ad un pubblico servizio" ai sensi dell'art. 826, 3° co., c.c. deve sussistere un doppio requisito: la manifestazione di volontà dell'ente titolare del diritto reale pubblico e perciò un atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell'ente di destinare quel determinato bene ad un pubblico servizio e l'effettiva ed attuale destinazione del bene al pubblico servizio.
Conseguentemente, nella specie, il fatto che il terreno sia stato acquistato dal comune di Roma nel 1884 per realizzare una "passeggiata pubblica" o parco e che sia stato iscritto nell'inventario dei beni demaniali comunali, in difetto della concreta ed attuale destinazione al pubblico servizio, non è sufficiente per riconoscere al bene il carattere della indisponibilità.

E’ in corso un’attività di raccolta sistematica dei dati relativi alle singole utilizzazioni alo scopo di costruire un archivio centralizzato da gestirsi con sistemi elettronici con l’intento di recuperare la consistenza dei singoli beni demaniali attraverso le informazioni relative agli usi (Colombini 1990, 9).


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7. La denuncia di trasferimento della detenzione.

L’art. 59, t.u. beni cult., prevede come obbligatoria la denuncia di trasferimento della detenzione di un bene culturale di proprietà di privati.
Il bene mobile o immobile deve essere stato oggetto della dichiarazione di interesse culturale, ex art. 13, t.u. beni cult.

1. Gli atti che trasferiscono, in tutto o in parte, a qualsiasi titolo, la proprietà o la detenzione di beni culturali sono denunciati al Ministero.
2. La denuncia è effettuata entro trenta giorni:
a) dall'alienante o dal cedente la detenzione, in caso di alienazione a titolo oneroso o gratuito o di trasferimento della detenzione;
b) dall'acquirente, in caso di trasferimento avvenuto nell'ambito di procedure di vendita forzata o fallimentare ovvero in forza di sentenza che produca gli effetti di un contratto di alienazione non concluso;
c) dall'erede o dal legatario, in caso di successione a causa di morte. Per l'erede, il termine decorre dall'accettazione dell'eredità o dalla presentazione della dichiarazione ai competenti uffici tributari; per il legatario, il temine decorre dall'apertura della successione, salva rinuncia ai sensi delle disposizioni del codice civile.
3. La denuncia è presentata al competente soprintendente del luogo ove si trovano i beni.
4. La denuncia contiene:
a) i dati identificativi delle parti e la sottoscrizione delle medesime o dei loro rappresentanti legali;
b) i dati identificativi dei beni ;
c) l'indicazione del luogo ove si trovano i beni;
d) l'indicazione della natura e delle condizioni dell'atto di trasferimento;
e) l'indicazione del domicilio in Italia delle parti ai fini delle eventuali comunicazioni previste dal presente Titolo.
5. Si considera non avvenuta la denuncia priva delle indicazioni previste dal comma 4 o con indicazioni incomplete o imprecise.
(art. 59, t.u. beni cult.).

Alla denuncia sono soggetti anche gli enti pubblici e le persone giuridiche private senza fine di lucro.
Lo scopo della denuncia è quello di mettere in grado l’amministrazione competente di ottenere la prelazione nell’acquisto del bene e di esercitare gli ordinari controlli sulla gestione del bene; la conoscenza del soggetto che ha acquistato è, pertanto, indispensabile.
Non basta quindi il solo controllo sull’autorizzazione ma è necessario, per la dottrina, essere notiziati anche dell’acquisto.

A tale esigenza non può rispondere in modo soddisfacente il controllo autorizzatorio sull’alienazione non fosse altro perché tale verifica è antecedente ad una cessione che in concreto potrebbe anche non seguire: è con la denuncia che vi è la certezza dell’avvenuto trasferimento.
(Tamiozzo, 2005, 266).

La denuncia deve essere effettuata nel termine perentorio di trenta giorni dalla data della stipula del contratto.
Non sussiste l’obbligo di provvedere alla denuncia dei contratti di locazione stipulati prima dell’entrata in vigore del d.lg. 42/2004 che sancito l’obbligo espresso di denuncia oltre che per il proprietario anche per il cedente la detenzione.

Il conduttore detentore di un immobile locato con un contratto in corso alla data del 1.5.2004, che abbia omesso di farne denuncia in violazione delle prescrizioni del t.u. 490/1999, non è più tenuto a farla in quanto l’obbligazione della previgente normativa ha determinato il venire meno nei suoi confronti dell’obbligo. Il proprietario dell’immobile, al quale il t.u. 490/1999 imponeva di procedere alla sola denuncia di trasferimento della proprietà, nel codice d.lg. 42/2004 assume anche l’obbligo di denunciare ogni contratto che comporti la cessione della detenzione – quali ad esempio, locazione, affitto, comodato, cessione in uso. Ovviamente solo per i contratti a partire dal 1.5.2004, considerando che sotto la vigenza del t.u. il proprietario non era tenuto a tale incombenza.
(Par.Min. 28.4.2004 n. 10204).


8. La prelazione dello Stato.

Qualora il bene sia venduto dal proprietario a titolo oneroso, il relativo contratto tra venditore ed acquirente non si perfeziona automaticamente, perché l'alienante deve denunciare la vendita all'ente che è titolare della facoltà di prelazione, per metterlo a conoscenza dell'avvenuta vendita.
Come tutti gli atti amministrativi l’atto di prelazione deve essere motivato.

L'atto, mediante il quale è esercitato il diritto di prelazione, deve essere motivato dall'amministrazione in merito all'interesse pubblico attuale all'acquisizione al patrimonio statale al fine della tutela del bene e non anche allo scopo di destinare il bene stesso a sede di pubblici uffici.

La denuncia ha una sua funzione nel macchinoso procedimento, perché dalla comunicazione della denuncia di vendita decorre il termine per esercitare la prelazione.
La dottrina e la giurisprudenza sono concordi nell'affermare che il termine indicato è perentorio. La denuncia deve essere presentata al competente Soprintendente del luogo in cui si trova il bene che è oggetto della vendita, ex art. 59, d.lg. n. 42/2004.
Se l'ente, titolare del diritto di prelazione non lo esercita nel tempo indicato, la proprietà del bene passa definitivamente al compratore. Nel caso in cui la denuncia non sia presentata all’autorità competente la prelazione decorre dalla data della ricezione all’autorità competente.
La denuncia è fatta al Ministero ma è presentata alla soprintendenza del luogo dove si trovano i beni.
Ai sensi dell'art. 58, d.lg. 29.10.1999, n. 490, l'atto privato di compravendita di beni immobili sottoposti a vincolo storico deve essere notificato alla Soprintendenza territorialmente competente e non al Ministero; in ogni caso, il termine di 40 giorni entro il quale le amministrazioni interessate possono esercitare il diritto di prelazione decorre dall'avvenuta notifica dell'atto alla Soprintendenza. Entro il suddetto termine, il diritto di prelazione va esercitato nella forma della dichiarazione della volontà di acquisto, non anche in quella della sua comunicazione ai soggetti interessati.
(Cons. St., sez. VI, 30.9.2004, n. 6350, RGE, 2005, I, 558

Nel caso in cui la denuncia di alienazione di castello sia diretta al Ministro e non sia presentata al soprintendente del luogo dove si trova l'immobile, il termine per esercitare la prelazione decorre dalla data di ricezione della stessa denuncia da parte del soprintendente cui è stata restituita dal Ministro e la proposta di acquisto fatta dal comune è ritualmente esercitata anche senza la necessaria copertura finanziaria. (T.A.R. Molise, 27.3.2003, n. 296, RGE, 2003, I, 1354).
La mancata denuncia, alla amministrazione ministeriale, del negozio traslativo della proprietà di un bene sottoposto a vincolo comporta che la p.a. ha la possibilità di esercitare in ogni tempo il diritto di prelazione, per il permanere dell'obiettiva condizione di assoluta inefficacia del negozio, conseguente alla sua mancata notifica nei modi e termini previsti dalla legge.

La notifica, offrendo la formale conoscenza di tutti gli aspetti del concluso negozio, ha anche lo scopo di costituire in mora l'amministrazione al fine del tempestivo esercizio del diritto di prelazione.

La giurisprudenza prevalente afferma che l'ente che esercita la prelazione deve contemporaneamente emanare il mandato di pagamento perché il pagamento è elemento necessario per l'esercizio della prelazione; se non è stato adempiuto a tanto, la prelazione esercitata è priva di efficacia; né può essere sanata con il rimborso tardivo del prezzo, perché è ormai decorso il termine per l'esatto adempimento che è notoriamente perentorio (Cass. Civ., sez. un., 11.3.1996, n. 1950).


La norma dell’art. 164 d.lg. 42/2004, prima rappresentata dall'art. 61, l. 1039/1939 ha superato la censura di illegittimità costituzionale.
La tardività della prelazione ha posto, infatti, dei problemi in ordine alla corresponsione del prezzo.
La Corte costituzionale ha ritenuto non fondata la censura poiché l’amministrazione nell'esercitare la prelazione - anche se in ritardo per difetto di denuncia - è sempre vincolata al prezzo di vendita fissato dal venditore ed accettato dall’acquirente; prezzo che può eventualmente anche essere superiore al prezzo di alienazione.

È infondata la questione di legittimità costituzionale del disposto coordinato dagli artt. 61, 31, 32, l. 1.6.1939, n. 1089, nella parte in cui, in mancanza di regolare denuncia dell'alienazione di bene vincolato, consente in ogni tempo l'esercizio della prelazione statale su cose di interesse storico - artistico al prezzo dichiarato nell'atto di alienazione, in riferimento agli artt. 3 e 42 cost.
(Corte cost., 20.6.1995, n. 269, FI, 1996, I, 807).



8.1. La nullità degli atti di alienazione.

Teoricamente l’amministrazione può esercitare un’azione civile per fare dichiarare la nullità degli atti di disposizione (Tamiozzo 2005, 735).

1. Le alienazioni, le convenzioni e gli atti giuridici in genere, compiuti contro i divieti stabiliti dalle disposizioni del Titolo I della Patte seconda, o senza l'osservanza delle condizioni e modalità da esse prescritte, sono nulli.
2. Resta salva la facoltà del Ministero di esercitare la prelazione ai sensi dell'articolo 61, 2° co.
(art. 164, d.lg. 42/2004).
Si tratta di un’azione di nullità relativa. Essa può essere fatta valere solo dal Ministro dei beni culturali e ambientali, il cui interesse è stato leso dalla mancata richiesta di autorizzazione (Cass. Civ., sez. III, 12.10.1998, n. 10083).
L’azione non può essere invece fatta valere fra le parti che hanno stipulato l’atto.
Ulteriore corollario della inalienabilità relativa e della nullità relativa, è che la nullità dell'alienazione non preclude, comunque, l'esercizio della prelazione da parte dello Stato in relazione all'atto di alienazione nullo.

L'alienazione di beni immobili di interesse storico-artistico di proprietà di ente pubblico, come conclusa in spregio del diritto di prelazione dell'amministrazione pubblica, non è affetta da nullità assoluta, ma da nullità relativa invocabile dall'amministrazione stessa, legittimata, anche per i beni in oggetto, all'esercizio della prelazione.
(Cons. St., sez. VI, 21.2.2001, n. 923, FA, 2001, 590, RGE, 2001, I, 398).

Successivamente a tale azione l’amministrazione per acquisire il bene - che giustifica il suo intervento – è costretta ad esercitare il diritto di prelazione.
Nel caso in cui l’amministrazione eserciti il suo diritto di prelazione la sanziona della nullità degli atti di disposizione conseguenti ai divieti di alienazione consegue direttamente.
L’accertamento del diritto di prelazione travolge l’atto di disposizione precedente che non deve essere annullato con un'altra eventuale azione civile.
L’amministrazione corrisponde il prezzo di acquisto all'acquirente che può esigere gli interessi medio tempore maturati dalla data dell’atto di trasferimento al pagamento da parte dell’amministrazione (Corte Europea dei diritti dell’Uomo 5.1.2000).




ordinam{ ]= e �k H� Lombardo della Valle del Ticino, stabilendo che i danni arrecati dalla selvaggina alle colture agricole all'interno della fascia di silenzio venatorio saranno risarciti dal Consorzio, previo accertamento del danno, con finanziamenti regionali - si è discusso se il danneggiato abbia una posizione tutelabile avanti al giudice ordinario ovvero se, al contrario, il risarcimento sia pur sempre sottoposto ad un controllo da parte del Consorzio e ad una compatibilità con le disponibilità finanziarie erogate dalla Regione.
L’intervento regionale, infatti, esclude quel carattere di certezza che è tipico del diritto soggettivo e fa viceversa palese la subordinazione - propria dell'interesse legittimo - ad un interesse pubblico prevalente.
Si argomenta, ancora, che le norme sul ristoro dei danni all'interno delle aree protette configurano norme di azione, come si evincerebbe dalla dizione dell'art. 15, 3° e 4° co., della legge quadro 6.12.1991, n. 394, là dove si prevede che l'Ente Parco è tenuto ad indennizzare i danni provocati dalla fauna selvatica del Parco e che il regolamento del Parco stabilisce le modalità per la liquidazione e la corresponsione degli indennizzi.
In detto caso è stato ritenuto che la qualificazione come diritto soggettivo o interesse legittimo delle posizioni giuridiche configurabili a favore degli interessati relativamente ai ristori conseguibili per i pregiudizi arrecati dalla fauna selvatica alle colture agricole non è automaticamente correlata alla ubicazione - all'esterno o all'interno delle zone di protezione - dei fondi danneggiati e deve invece attribuirsi essenziale rilievo al concreto atteggiarsi della disciplina positiva.
In applicazione di tale criterio, deve riconoscersi la natura di diritto soggettivo - comportante la giurisdizione del giudice ordinario - alla pretesa al risarcimento dei danni provocati alle coltivazioni dalla fauna selvatica nell'ambito del Parco lombardo della Valle del Ticino, fondata sull'art. 15 della "legge - quadro" sulle aree protette n. 394 del 1991, che prevede, senza margini di discrezionalità, l'obbligo dell'Ente parco di indennizzare i danni provocati dalla fauna selvatica del parco nel termine di novanta giorni dal loro verificarsi; né portata diversa è attribuibile all'art. 22, 6° co., della l.r. Lombardia n. 33 del 1980 - norme di attuazione del piano territoriale di coordinamento del parco del Ticino - che, nel disciplinare l'aspetto di finanza pubblica, prevedendo finanziamenti regionali, ribadisce l'obbligo del Consorzio di risarcire i danni arrecati dalla selvaggina alle colture all'interno della fascia di silenzio venatorio (Cass. civ., Sez. U., 30.12.1998, n. 12901, GCM, 1998, 2664).



Capitolo diciasettesimo
La giurisdizione del Tribunale delle acque

Guida bibliografica.

1. La giurisdizione del Tribunale delle acque pubbliche.
Il t.u. approvato con r. d. 1775/1933 sulle acque pubbliche istituisce un sistema di giurisdizione in detta materia costituito dai Tribunali regionali e dal Tribunale superiore delle acque pubbliche.
Le particolarità di tali controversie, caratterizzate dalla necessità di una particolare conoscenza tecnica, ha giustificato la composizione di tali collegi nei quali sono presenti gli esperti del settore. Centofanti 2005, 293.

2. La giurisdizione del Tribunale superiore delle acque.
Il Tribunale superiore delle acque pubbliche è giudice in grado di appello di tutte le cause decise in primo grado dal Tribunale regionale, ex art. 142, r. d. 1775/1933. Centofanti 2005, 295.


1. La giurisdizione del Tribunale delle acque pubbliche.

La giurisdizione dei Tribunali delle acque pubbliche è divisa tra quella del Tribunale delle acque pubbliche che decide sulle controversie relative alla demanialità delle acque e quella del Tribunale Superiore delle Acque che è competente sui provvedimenti amministrativi che riguardano l'utilizzazione del demanio idrico.
Ai sensi dell'art. 140, T.U. n. 1775/1933, rientrano nella giurisdizione del Tribunale delle acque pubbliche tutte le controversie relative: a) alla demanialità delle acque; b) ai limiti dei corsi e dei bacini, loro alveo e sponde; c) alle derivazioni e utilizzazioni delle acque e relativi diritti di utenza; d) alle indennità per occupazioni ed espropriazioni occorrenti per l'esecuzione di opere idrauliche; e) al risarcimento dei danni a causa di opere idrauliche eseguite dall'amministrazione.
Le controversie che non hanno per oggetto la demanialità del bene rientrano nella giurisdizione ordinaria.
La norma di cui all'art. 140, 1° co., lett. c) del r.d. n. 1775 del 1933, non comporta la necessità di rimessione alla cognizione del giudice specializzato di tutte le controversie attinenti, direttamente o indirettamente, al regime delle acque pubbliche, presupponendo, per converso, la sola devoluzione, al detto giudice, delle specifiche controversie implicanti la necessità di particolari conoscenze extragiuridiche per la soluzione dei problemi tecnici riconnessivi, con esclusione, pertanto, di ogni questione che, non attenendo al regime delle derivazioni od utilizzazioni di acque pubbliche (e non implicando la soluzione di problemi tecnici, ma solo di tematiche squisitamente giuridiche), possa influire solo indirettamente su tale regime.

La controversia relativa al pagamento di un indennizzo per l'occupazione sine titulo di un suolo - pacificamente appartenente al demanio lacustre - ed all'occupazione di costruzioni ed opere su di esso insistenti (oltre che relativa all'accertamento della titolarità di eventuali diritti reali sui manufatti), non presupponendo la soluzione né di problemi tecnici, né di questioni circa la delimitazione dell'alveo o delle sponde del lago - ovvero l'accertamento della demanialità delle acque - deve ritenersi senz'altro devoluta alla cognizione del giudice ordinario.

Il petitum sostanziale della domanda è determinante per stabilire la competenza del giudice.
Appartengono alla competenza del giudice ordinario (nella specie, il tribunale di Catanzaro), e non a quella del tribunale delle acque pubbliche, alla stregua dell'art. 140 t.u. n. 1775 del 1933, le controversie nelle quali si discuta se un terreno, ubicato nei pressi della foce di un corso d'acqua, appartenente al demanio fluviale ovvero marittimo, sia suscettibile di usucapione, per effetto di una sdemanializzazione tacita, in difetto di uno specifico atto ad hoc della p.a., non venendo, in tal caso, in discussione la demanialità del bene, né dovendosi accertare preliminarmente se, ed entro quali limiti, il bene abbia cessato di fare parte dell'alveo del torrente.


2. La giurisdizione del Tribunale superiore delle acque.

La giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque è fissata dall'art. 143, 1° co., lett. a) del T.U. n. 1775 del 1933.
La norma, infatti, istituisce, in unico grado, un procedimento che ha il carattere di giudizio di impugnazione, per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, contro i provvedimenti definitivi adottati dall'amministrazione in materia di acque pubbliche e, data la sua lata e onnicomprensiva previsione, si attaglia a tutti i provvedimenti amministrativi che, pur costituendo esercizio di un potere non prettamente attinente alla materia, riguardino comunque l'utilizzazione del demanio idrico, incidendo in maniera diretta ed immediata sul regime delle acque pubbliche (Cass., Sez. Un., 15.7.1999, n. 403. Cons. St., Sez. V, 3.12.2001, n. 6012).
La giurisprudenza ha affermato che in relazione al principio desumibile dall'
art. 143, 1° co., lett. a), r.d. 11.12.1933, n. 1775 - che attribuisce alla cognizione diretta del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche i ricorsi per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge avverso i provvedimenti presi dall'amministrazione "in materia di acque pubbliche" - devono ritenersi devoluti alla cognizione del Tribunale Superiore anche i provvedimenti amministrativi che, pur incidendo su interessi più generali e diversi rispetto a quelli specifici relativi alla demanialità delle acque o ai rapporti concessori di beni del demanio idrico, attengano comunque all'utilizzazione di detto demanio idrico, interferendo immediatamente e direttamente sulle opere destinate a tale utilizzazione e, in definitiva, sul regime delle acque pubbliche (Sez. Un. 26.7.2002, n. 11099).
I giudizi d’impugnazione dei provvedimenti amministrativi che attengono all’utilizzazione del demanio idrico - Cass. Civ., sez. un., 26.7.2002, n. 11099 - come appunto il provvedimento d’approvazione di una derivazione d’acque per uso idropotabile della popolazione; nonché sulle occupazioni di fondi che si rendano a tal fine necessarie - Cass. Civ., sez. un., 11.7.2000, n. 479 -; e infine sulle concessioni edilizie strettamente finalizzate alla suddetta utilizzazione delle acque - Cass. Civ., sez. un., 4.8.2000, n. 541 - sono devoluti alla giurisdizione del tribunale superiore delle acque pubbliche, ex art. 143, alinea “a” del r.d. 11.12.1933, n. 1775 sulle acque pubbliche.
(Cons. St., Sez. V, 15.4.2004, n. 2146).

Rientra nella competenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche, nelle materie nelle quali ha giurisdizione, la controversia in tema di legittima determinazione del canone di concessione.
Nella specie, si faceva questione della determinazione del canone per l'utilizzo di porzioni di demanio fluviale (Trib. sup.re acque, 22.2.1999, n. 37, CS, 1999, II, 261).
La giurisprudenza ravvisa il discrimen, che delimita la giurisdizione del
Tribunale superiore delle acque pubbliche rispetto a quella del giudice ordinario, nell’oggetto della richiesta formulata in giudizio.

In tema di diritti esclusivi di pesca, la giurisdizione riservata al tribunale superiore delle acque pubbliche dall'art. 143, r.d. 1775/33, che non è né generale né esclusiva, è limitata in base al collegamento a fattispecie tipiche qualificate dal contenuto e dalla forma dei provvedimenti impugnati, dalla procedura richiesta per la loro emanazione e dalla autorità pubblica da cui promanano, ossia alla cognizione dei ricorsi proposti contro provvedimenti di revoca o di decadenza dei diritti su acque del demanio marittimo, fluviale, lagunare e, in genere, su ogni acqua pubblica, adottati dai ministeri competenti. Pertanto, spetta alla cognizione del giudice ordinario la causa avente ad oggetto la rimozione dell'impianto di itticoltura intensiva, installato da un privato nel tratto di mare, ove si assume esistente il diritto esclusivo di pesca derivante da antiche concessioni, rilasciate ad altro privato, perché caratterizzata dall'accertamento solo incidentale, tra le parti, dall'attuale esistenza del diritto a tutela del quale è stata chiesta la rimozione degli impianti, senza che venga in discussione alcun provvedimento amministrativo.

Del pari gli atti aventi ad oggetto le acque pubbliche non rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo.

Poiché l'art. 143, 1° co., lett. a), r.d. 11.12.1933, n. 1775, attribuisce alla cognizione diretta del tribunale superiore delle acque pubbliche i ricorsi per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge avverso i provvedimenti adottati dall'Amministrazione in "materia di acque pubbliche", esulano dalla giurisdizione del giudice amministrativo (che può rilevarne il difetto in ogni stato e grado del processo) anche i casi in cui l'atto, pur costituendo esercizio di un potere non propriamente attinente alla materia in parola (cioè: pur incidendo su interessi più generali e diversi rispetto a quelli specifici relativi alla demanialità delle acque od ai rapporti concessori di beni del demanio idrico) attenga comunque all'utilizzazione di dette risorse, interferendo immediatamente sulle opere destinate a tale utilizzazione e, in definitiva, sul regime delle acque pubbliche.


















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