sabato 2 giugno 2012

Grembiulino 1



1.     Capitolo. Il primo giorno di scuola.


Eccolo quel bimbetto con la faccia rotonda, gli zigomi leggermente sporgenti e la riga sul lato destro che divide i folti capelli castani: sono io.
E’ il primo giorno di scuola, non posso prendermela comoda quel giorno, anche se, a dire la verità, è mia madre a non essere mai pronta.  Cammino spedito sui gradini del ponte di Rialto.
Fa presto Nicheto che se no rivemo tardi”. Continua a ripetere mia madre.
Questo repentino cambiamento di abitudini mi ha lasciato soprattutto perplesso.
Non capisco tutta questa fretta: non posso svegliarmi al solito con comodo, non posso rimanere lì a giocare col nonno Nicola per convincerlo a comprami dei nuovi soldatini, non posso scendere in calle a trovare gli amici di sempre, ma al contrario devo affannarmi a correre su e giù per i ponti e per le calli di Venezia per arrivare puntuale. Che vita da cani! Ho appena cinque anni e non ho frequentato l’asilo.
Sono un po' preoccupato perché devo fermarmi a scuola anche per colazione. Le suore preparano il primo, io spero ardentemente che la cuoca dell’istituto cucini bene. Sono ghiotto di pastasciutta, come dimostrano le mie guance paffute.
Io sono abituato ad un pasto alla veneta: spaghetti alle vongole o col nero, risotto de bosega, e qualche volta anche lasagne magari anche il pasticcio di pesce. Come farò a rinunciare a tutto ciò per un’intera settimana? Per fortuna che di sera e nei giorni di festa mangio a casa.
Mia madre porta un cestino di vimini con il secondo. E’ troppo grande e troppo pesante per me.
Indosso un grembiule nero col colletto bianco, come tutti i bambini che frequentano l’Istituto.
Da Rialto la strada è lunga, se ci sono anche dei pesi ingombranti da portare non ce la faccio proprio.
Scendo rapido gli scalini irrazionali di casa e mi affaccio stupito della mia nuova divisa in Calle dei Cinque.
Mi riconosceranno i miei conoscenti della Ruga Rialto?
Nicola il fornaio è il primo a salutarmi “Se lavora ancuo?” mi chiede ridendo.
Il profumo del pane sfornato da qualche ora mi risveglia l’appetito.
Sono subito distolto dal saluto del venditore di soldatini che mi invita a passare nel pomeriggio per vedere gli ultimi arrivi.
Il frastuono di voci dei negozianti  della Ruga mi distrae. Sono gli echi delle contrattazioni che i commercianti delle bancarelle, poste in  prima linea rispetto ai negozi che delimitano la Ruga, fanno con i clienti.
 Si vende di tutto biancheria, scarpe, pizzi di Burano e vetri di Murano, ma soprattutto frutta e verdura .
Il rumore, i colori ed i profumi della Naranzeria costituiscono la testimonianza migliore di una Venezia vitale che trova nel ripetersi sereno delle colorate rappresentazioni quotidiane  dei suoi abitanti il suo fascino ora in via di estinzione.
Senza le storie di tutti i giorni dei veneziani la città è destinata a diventare un museo con  tanti, tanti turisti che, emuli del barbaro invasore,  strappano a poco a poco la linfa vitale alla città del leone.
Tagliamo per le calli più nascoste che si incuneano a fianco a S. Giovanni Elemosinario dove passa meno gente per andare più spediti
Sbuchiamo a metà della Ruga degli Orefici all’altezza della chiesa di S. Giacomo di Rialto.
Siamo appena partiti e siamo già passati davanti a due chiese dove puntualmente mi faccio il segno della croce seguendo l’esempio di mia madre.
Prima di attraversare il ponte propongo subito alla mia compagna di viaggio una sosta alla panetteria di Lino; lì si vende il pane dolce con l’uvetta passa che mangio per merenda alle cinque.
Lino il rivenditore di pane si trova in una botegheta  di dieci metri quadrati situata ai piedi del ponte di Rialto.
E’ talmente stretta che i clienti possono entrare due per volta ma c’è un profumo di pane appena sfornato davvero invitante.
Fermemose qua!” imploro tirando per la gonna mia madre.
Sì ma femo presto che xe tardi.
Lino capisce al volo la nostra fretta e ci serve in un lampo:“ Bona scuola” mi incoraggia.
I gradini del ponte sono tanti. Il bordo bianco è scivoloso per l’umidità della notte che non ha fatto ancora a tempo ad asciugarsi.
Arranco su quella salita imponente. Non ci sono alternative. E’ una vera e propria scalata impegnativa per un bambino di neppure sei anni.
Non si può prendere neppure il traghetto perché il trasporto su gondola è alternativo alla mancanza di attraversamenti del canale e qui c’è il ponte. I gondolieri non hanno pensato a noi piccoli scolari!!!
Il ponte si erge sul canale all’altezza necessaria per consentire il passaggio delle barche; le due ali di boteghe che lo accompagnano ne camuffano solo apparentemente la reale elevazione.
Il Da Ponte ha pensato sicuramente a tutto questo affollamento. Non deve essere tanto diverso da quello della fine cinquecento quando primo fra i ponti veneziani è stato costruito per collegare le le due sponde del Canal Grande nel punto in cui si svolgevano con maggiore intensità la vita ed il commercio della città fiorente dopo Lepanto.
Molta gente è lì per ragioni di lavoro ed ha fretta di passare.
Altri sono lì per vacanza.
I turisti si notano subito perché indugiano sulle balaustre di marmo che delimitano le rampe a vedere il traffico di barche ed il panorama.
Ocio a le gambe” urlano i ragazzotti che spingono i carretti ingombri di merci per il mercato.
In quel bailamme generale mi faccio scudo della presenza di mia madre che utilizzo come ariete per fendere la folla.
Da una parte sul canale si affacciano di infilata uno dietro l’altro i fastosi palazzi simbolo della ricchezza della Repubblica : a destra si staglia il rivestimento in pietra d’Istria del Palazzo dei Dieci Savi, seguono il Palazzo Papadopoli, con un timido albero che si lascia intravedere pur sovrastato dalla imponente costruzione,   il Palazzo Bernardo, il Palazzo Grimani, il Palazzo Pisani e in fondo Palazzo Balbi, che vigila sull’ansa del canale ; a sinistra il severo Palazzo Manin il più festoso Palazzo Loredan e il Palazzo Spinelli prima che il canale curvi a sinistra si intravedono i Palazzi Mocenigo.
Dall’altra parte il canale si volge repentinamente a sinistra costringendo i capitani dei vaporetti e le barche ad una attenta manovra per poi proseguire rettilineo.
Sulla destra  qualche speranzoso turista spera di vedere ancora sulle pareti del Fondaco dei Tedeschi le tracce degli affreschi, oramai distrutti dalla salsedine, del giovane Giorgione; subito dopo si ergono  Cà da Mostro, Palazzo Michiel delle Colonne  e facendo opportune contorsioni alcuni più attenti ospiti della città possono intravedere  le incredibili decorazioni marmoree della Cà D’Oro.
Sulla sinistra si scorge il Palazzo dei Camerlenghi poi corre dritta  la fondamenta della Pescheria in fondo il Palazzo Corner della Regina e Palazzo Pesaro che si può vedere solo dopo essere discesi dagli ultimi gradini del ponte.
Le glorie della Repubblica del Leone riemergono dalle oscurità del tempo ogni qualvolta le risveglia la memoria dei cittadini o dei  turisti che conoscono quella storia.
Il ricordo  riporta alla luce i fasti di questi veneziani prodigiosi protagonisti del loro tempo.
Giungiamo rinfrancati dalla discesa in Campo San Bortolomio e giriamo attorno alla statua di Daniele Manin.
Il padre della Repubblica veneta aveva invano aveva tentato di resistere agli austriaci cui Napoleone aveva venduto la Serenissima in nome dei principi di libertà, eguaglianza e fraternità.
Varda che drio el cuo del Manin ghe xe i schei” dice sorridendo mia madre indicandomi la sede della Cassa di Risparmio di Venezia.
Entriamo nel Sotoportego de la Bissa.
Sembra impossibile passare dalla luce del campo al buio delle calli che attraversando il sottoportico.
Venezia è così imprevedibile, segreta, ricca di colpi di scena, palcoscenico ideale della commedia della vita che tutti recitiamo ogni giorno.
Vorrei subito fare una sosta nella rosticceria da dove proviene uno stuzzicante profumo di cibo e dove posso ammirare  un accattivante tripudio di colori che irrompono dai vassoi posti sul lungo bancone: il bianco del baccalà mantecato, il nero delle seppie, il giallo delle mozzarelle  in carrozza - appena tolte dall’olio bollente della frittura - l’arancio bruno delle aragoste , il grigio scuro delle moleche  .
Magnemo, ancuo dopo pranso na mozarea?” mi prenoto anzitempo perché non si sa mai che ci siano altri programmi.
Sì, sì, ma adeso semo in ritardo.”
Arrivati al Ponte Storto ritorniamo a rimirare una fetta di cielo perché a Venezia se non si esce dal groviglio delle Calli non è possibile guardare il cielo per la sua interezza.
Siamo già a metà strada “Manca sto ponte e na cale e po semo rivai” conferma mia madre.
Avanziamo per la Salizzada di S. Lio. Questa è una via del tutto normale con tanti negozi che vi si affacciano, noto che manca il colore tipico delle bancarelle di Rialto.
E’ una strada signorile che porta verso Piazza S. Marco.
Giunti poco prima della Calle delle Bande prendiamo  a sinistra una calle lunga e stretta che sfocia ad angolo retto sulla piccola fondamenta ingombra di bambini.
Bastano una decina di bambini accompagnati dalle loro mamme per creare un affollamento.
La stretta entrata che si apre sulla destra non consente un celere accesso nell’androne dell’austero Istituto.
Mia madre è stata un’allieva delle suore dell’Istituto.
E’ un obbligo per me seguire questa tradizione di famiglia.
I bambini sono entrati subito perché è impossibile aspettare fuori: la fondamenta è troppo piccola.
La suora addetta alla portineria ci accoglie con un sorriso che tenta di nascondere la sua aria burbera e un po’ brontolona addolcendo la sua faccia spigolosa; ci dice di salire su al primo piano.
Di fianco si apre un cortile.
I glicini si inerpicano sul muro che confina col canale. Non ho mai visto in città dei fiori così belli.
“Quello è il cortile dove andrete a giocare” borbotta con un tono che vuole essere accattivante la suora portiera.
Noto subito che all’Istituto non si parla in venezian.
Avanti, avanti! lo scalone mi sembra una salita invalicabile; alla fine sbuchiamo in una grande sala dove ci sono tanti bambini col grembiulino nero ed il colletto bianco.
Qualcuno è contento. Gli scolari di seconda e terza ridono e scherzano con i compagni.
Quelli di quarta e di quinta fanno gruppo a parte. Si sentono veterani e non si mischiano con i più piccoli.
Altri piangono. Sono gli allievi di prima elementare che devono ancora digerire il primo giorno di scuola e non sanno staccarsi dalle gonne delle loro madri.
C’è un gran frastuono.
Mi no vogio star qua” singhiozza una bambinetta scuotendo la testa e facendo dondolare le treccine bionde.
Lei, come me, evidentemente non ha frequentato l’asilo, non è abituata a lasciare le gonne protettive di sua madre e non ha ancora socializzato con i suoi coetanei.
Il sorriso e le carezze materne non possono rincuorarla anzi la consolazione la può trovare solo dopo che se ne sarà andata.
E’ per questo che la suora cerca di spingere la donna fuori dell’uscio per interrompere quel legame ombelicale.
Io pure avrei preferito rimanere a casa.
Starmene a giocare con i soldatini.
Parlare dal balcone con la signora Emma o andare di sopra a fare compagnia allo zio Pasquale e alla zia Nina.
Da oggi devo, invece, recarmi tutti i giorni a scuola.
Che noia! Che disdetta rinunciare ai miei giochi preferiti, non vedere i miei amici del cuore, saltare il pasto di mezzogiorno, magari alla cucina di zio Pasquale, per stare lì inchiodato ad un banco di legno a fare delle aste.
Le aste che non mi vengono neanche troppo dritte: che disastro!
E’ un’ingiustizia perché ho appena cinque anni e la scuola dell’obbligo comincia a sei se non scegli di frequentare un istituto privato di monache.
Vorrei protestare, ma in famiglia nessuno mi ascolta e con le suore non ho alcuna possibilità di farmi sentire perché la loro disciplina non ammette repliche. Devo stare lì e rinunciare ai miei piccoli piaceri.
Basta pastasuta, devo accontentarmi di quello che passa il convento.
Soprattutto minestrone. L’incubo minestrone è costante tutti i giorni. C’è solo la speranza di un miracolo che mi sostiene: un giorno arriverà, ne sono certo, la sospirata pastasuta.
Io detesto la verdura: sempre verdura cotta che riempie di un odore nauseabondo tutto l’austero palazzo!
L’odore intenso della zuppa di verdura sovrasta ogni possibile buon odore della cucina delle suore.
Per fortuna la pietanza me la porto da casa: oggi folpeti, domani cotoletta con l’immancabile panino dolce con l’uvetta. Un po’ di bontà fra cotanto disprezzato minestrone. Mangiare lì è una tortura che fa dimenticare ogni piacere della tavola anche per un palato poco raffinato come quello di un bambino.


3.     Capitolo. Il nonno Nicola.


Il nonno Nicola ha un paio di baffetti bianchi spioventi sulla bocca larga.
Gli occhi azzurro chiaro contrastano colla sua faccia di uomo che viene dal sud.
Sono il suo unico nipote e dopo due figlie femmine questa per lui è una grande soddisfazione.
Ho una grande stima per nonno Nicola; egli ha dato, attraverso quanto realizzato con un duro lavoro, la possibilità alla sua famiglia di tirare avanti decorosamente anche in tempi non propizi.
Il nonno Nicola è venuto a Venezia da Trani ed ha iniziato una attività di oste come altri suoi compaesani.
La terra avara del sud non era in grado di sfamare tutta la famiglia.
Così lui ed alcuni cugini sono saliti al settentrione.
Nelle valigie di cartone portavano gli strascinati, le cime di rapa, le mozzarelle di bufala, l’origano di Puglia.
Con i sapori e gli odori della loro terra portavano il ricordo del torrido caldo dell’estate che il vento di scirocco ti scaglia contro e ti toglie fin il respiro, costringendoti a rimanere all’ombra o all’interno delle abitazioni ad aspettare il fresco della sera.
Il nonno ha lavorato sodo come garzone in una osteria dove mescevano il vino pugliese e davano da mangiare piatti tipici del sud.
Poi si è messo in proprio a commerciare il vino della sua terra.
Dicono sia esperto a tagliare il vino per renderlo meno forte e più gradevole ai gusti dei clienti.
Compera quel vino aspro che ha il sapore della terra di Puglia e lo vende a Venezia.
Fa trasportare le botti su di una barca a vela che risale pigramente l’Adriatico fino ad arrivare in Laguna.
Ha comperato, dopo i primi guadagni, una vecchia osteria nel cuore di Rialto, il quartiere più popolare vicino al mercato della verdura e del pesce.
Si chiama La Madonna.
I suoi clienti abituali sono i facchini del mercato che trasportano le merci nelle prime ore del giorno.
Alle sei l’osteria apre e comincia a servire la trippa calda. Poi arrivano i commercianti e i proprietari dei vari bancheti che vendono le merci ed a metà mattina si godono una meritata ombra e poi, infine, i clienti dei banchi dopo aver fatto la spesa per l’ora dell’aperitivo a gustarsi lo spriz.
D’inverno vengono per scaldarsi e d’estate per rinfrescarsi.
C’è sempre lavoro ed il nonno è sempre indaffarato. Il bancone di legno dell’osteria è sempre ingombro di bicchieri di vino.
E’ proprio buono quel vino dal colore rosso cupo che ti scalda il cuore e ti dà allegria.
Quel vino è profumato di sole, ha un sapore forte ma con un abboccato gradevole fruttato; va giù che è una meraviglia.
I clienti sono soddisfatti ed il nonno è contento dell’attività che gli ha dato una buona posizione economica.
All’osteria lavora anche la nonna Graziella che si occupa della cassa.
La nonna non ha l’aspetto scattante della Mirandolina goldoniana  sempre a sevizio dei suoi avventori per accattivarsi la loro benevolenza.
Ha, piuttosto, l’aria di una matrona imponente con l’occhio deciso che appartiene a quelli che comandano tutti a bacchetta; i capelli raccolti sulla nuca contribuiscono a darle un’espressione severa.
Ho l’aspetto burbero di chi è sempre lì a contare gli incassi o a pagare, tirando sul prezzo, i fornitori che portano le damigiane di vino; è lei la contabile di casa quella che amministra con oculatezza le fortune della famiglia.
Il nonno cura i rapporti con la clientela e collabora al lavoro degli inservienti sorvegliando che tutto proceda per il meglio.
La zia Antonia vive con loro.
Una presenza indispensabile nella casa e nel lavoro.
E’ una vecchietta curva vestita di nero dalla faccia grinzosa che brontola sempre in un pugliese stretto incomprensibile; lei aiuta la famiglia di suo fratello visto che non ne ha una sua.
Non ci pensa nemmeno a vivere per conto suo e spezzare il cordone ombelicale che la lega alla sua famiglia d’origine.
Le due figlie – mia madre e la zia Bice - non hanno messo mai, invece, mettere piede all’Osteria perché non sta bene; non c’è neanche la scusa del bisogno perché gli affari vanno bene.
Le figlie hanno frequentato le elementari poi hanno seguito una scuola di economia domestica. Non hanno studiato per prepararsi ad un lavoro, ma giusto per avere quelle nozioni che servono  per tenere in ordine la casa dopo sposate.
Il nonno ha passato una vita all’osteria La Madonna a vendere il vino del sud.
Nel salone principale dell’osteria dietro il bancone della mescita sono collocate le botti di legno da cui promana un intenso profumo di vino.
Ci sono anche delle salette più piccole dove gli avventori possono mangiare qualche cicheto o qualche piatto caldo: pasta e fasioi, bacalà a la vicentina, cotto col latte su un letto di cipolle, sarde in saor sono i piatti poveri della cucina veneta. Non mancano mai le cartellate preparate nel vino cotto a ricordo delle tradizioni pugliesi.
Il nonno sta al bancone a mescere oppure passa fra i tavoli a dare man forte ai garzoni di bottega quando la sala è particolarmente affollata a portare qualche ombra.
L’osteria è nata  coprendo con un tetto un cortile. Sul tetto il nonno ha piantato una vite rampicante.
Col tempo la vite è cresciuta ed è salita fino al secondo piano dove è situato l’appartamento destinato ad abitazione del nonno.
La vite ha così creato un pergolato che copre il poggiuolo dell’abitazione affacciato sul tetto dell’osteria.
Il nonno ci tiene molto a quella vite - che gli ricorda la sua terra di Puglia e i riti della vendemmia che hanno caratterizzato la sua infanzia - e la cura con tutto il suo amore.
Tutti gli anni viene un contadino che la irrora col verderame.
Alla fine di settembre il nonno con orgoglio ci mostra i grappoli d’uva.
A volte andiamo insieme a vedere sul poggiolo la vite e contiamo, nella stagione della vendemmia, i grappoli di uva che penzolano dai fili di ferro che il nonno ha fatto tendere lungo tutto il poggiolo.
Il nonno dice sempre che quella vite l’ha piantata lui; mi ricorda che ci vuole molta cura perché la vite dia frutto; bisogna potarla, darle il verderame, concimare il terreno se si vuole tenerla in vita e mangiare a settembre l’uva zuccherina.
E’ come la vita: se non la nutri di lavoro e di buoni propositi va a finire male.
Un giorno il nonno ha voluto fare un foto ricordo.
Lui mi tiene in braccio con un grande sorriso di soddisfazione.
Sullo sfondo la fondamenta del Vin con il ponte di Rialto.
Io tengo in mano con grande entusiasmo una macchina rossa; una di quelle che corrono facendo premere le ruote più volte sul pavimento in modo di azionare una piccola ricarica.
La macchina corre per pochi metri e poi si ricomincia.
Il nonno vuole coccolare quel suo unico nipote, per fortuna maschio, come ripete spesso con lo zio Pasquale, che sprizza salute dalla sua faccina paffuta; il nonno vuole proprio godersi quel nipote negli ultimi anni che gli restano dopo una vita di lavoro; il nipote che terrà viva la sua progenie anche se purtroppo non il suo cognome.
Lavorando sodo il nonno ha fatto fortuna vendendo il vino della sua terra. Dopo il locale ha fatto qualche altro investimento per garantirsi la pensione.
Il nonno Nicola ha un segreto per guadagnare: racimola soldo dopo soldo e non spende una lira.
Ha la malattia del mattone; una dopo l’altra ha acquistato nella calle alcune case malandate che demolisce e ricostruisce garantendo alla sua famiglia un certo benessere  e, se non fosse stato per suo fratello Beppino, sarebbe stato un benestante.






















4.     Capitolo. Il fallimento.


Bepino è il fratello piccolo del nonno Nicola. E’ il coccolo che mamma, papà e i parenti tutti fanno a gara per vezzeggiare.
Tutti lavorano sodo e si sporcano le mani; Bepino, anzi il Signor Giuseppe, no.
Bepino fa il commerciante prima di prodotti agricoli, poi di olio.
La moglie Rebecca si dà le arie da gran signora anche se dicono che suo padre ha lavorato al mercato di Rialto a scaricare di notte la frutta e la verdura dai barconi che vengono carichi dalla terraferma.
In un primo tempo gli affari vanno bene e Bepino, spronato dalla moglie Rebecca ad assumere una posizione sociale di rango, si dà delle arie da gran signore.
Bepino va in giro per il mercato con un bel bastone di legno con il manico in argento e ogni tanto, quando è intento a discutere con qualcuno, tira fuori dal taschino un monocolo d'argento con cui squadra da capo a piedi il suo interlocutore.
Gli affari vanno come sempre, ma i soldi a Bepino e soprattutto a Rebecca non bastano mai.
Non si accontentano mai del giusto.
Vogliono dimostrare che loro sono persone che possono concedersi ogni lusso.
A Rebecca piace essere servita in casa.
Ha licenziato la donna a ore per affidare il servizio di casa ad una domestica fissa.
Ha un campanello che tiene sempre a portata di mano con cui chiama la domestica.
Passa delle ore a spiegare alla domestica i lavori di casa che lei ritiene indispensabili fissando le priorità.
Rebecca sta poco in casa; è sempre fuori per andare dalla sarta, fare compere o per bere il the con le amiche.
La sua passione sono gli acquisiti.
La parona compera di tutto specialmente vestiti, tanti vestiti.
Passa gran parte del suo tempo dalla sarta a provare e riprovare abiti per ogni occasione, soprattutto per presentarsi in gran pompa alle cene che dà con regolarità a casa sua.
Per essere introdotta nella società bene veneziana Rebecca vuole ricevere in casa le autorità della città.
La sua massima aspirazione è ricevere il prefetto o il questore o il sindaco ma si accontenta anche di un funzionario di Prefettura o del capo dei vigili urbani per porre in essere la sua scalata sociale.
A differenza di nonno Nicola, che guadagna molto e non spende che lo stretto necessario, Bepino guadagna poco ma spende molto.
Chi non dà fiducia a Bepino che è fratello di Nicola.
Le banche non gli negano certo dei fidi.
Improvvisamente un ritardo eccessivo nel rientrare da una scopertura, peraltro modesta, ha messo in guardia i creditori.
Così in un momento solo tutti si sono presentati contemporaneamente a battere cassa.
Bepino non può fronteggiare una simile richiesta di denaro in un momento solo; pensa di potere diluire il debito per far fronte ai suoi impegni in un tempo molto più lungo.
Ma i crediti, si sa, quando sono esatti devono essere tacitati subito pena le grane della legge.
A quel tempo fallire vuole dire perdere l’onore, non uscire più da casa, essere segnati a dito per la strada.
L’onore allora era una cosa che contava più dei soldi.
Chi non aveva onore era fuori dal consesso degli onesti, diversamente da oggi dove gli onesti tendono ad essere estromessi per fare posto a chi ha più pelo sullo stomaco.
Bepino disperato corre in casa del nonno Nicola che nei tempi di vacche buone tratta con sufficienza come il fratello arricchito ma privo della sua eleganza.
So in rovina” gli dice “se no ti me salvi ti devo andar in tribunal”.
Nicola lo abbraccia “Bepino semo fradei” dice e pone mano al portafoglio.
Sentire solo odore di fallimento è visto dal nonno Nicola come un affronto all’onore del buon nome della famiglia. Non è possibile sopportare quest’onta a costo di dare fondo ai propri risparmi.
Quello slancio di solidarietà costa al nonno Nicola un sacco di guai.
Spendar sempre manco de quelo che se guadagna” è il suo motto ma il nonno Nicola è già impegnato finanziariamente in un grosso intervento immobiliare nel Campo vicino alla chiesa.
Proprio lì in faccia al fronte barocco della chiesa sta realizzando la realizzazione più importante della sua attività immobiliare: vuole costruire un albergo in comproprietà con il fratello Savino.
Quattro piani fuori terra: è proprio soddisfatto.
Xe la mia pension” dice.
L’investimento deve assicurare lavoro o tranquillità economica alla sua famiglia, nipote compreso.
Il nonno va a vedere l’avanzamento dei lavori tutte le mattine prima di recarsi all’osteria.
Si alza un po’ prima perché non vuole sottrarre tempo al suo lavoro normale.
Porta una sporta con alcune bottiglie di vino che lascia al capomastro raccomandandosi “ Che i fioi lo beva a la fine de la zornada de lavor.”
Un po’ perché teme qualche incidente dovuto all’effetto dell’alcool, un po’ perché gli operai non perdano tempo intanto che lavorano.
Quando giunge la richiesta di aiuto economico da parte di Bepino i lavori dell’albergo sono giunti alla metà e lo sforzo finanziario è al culmine, ma il nonno Nicola non può permettere che lui e la sua famiglia siano solo sfiorati da uno scandalo.
Il nonno Nicola va a trovare Nini, l’ultimo fratello, fa presente la sua voglia di aiutare Bepino e si addossa, col suo aiuto, la parte maggiore dell’onere economico per coprire i debiti.
E’ così che l’albergo acquista un altro socio.
La casse del nonno Nicola sono soggette ad una emorragia senza precedenti.
Chiunque altro ci avrebbe pensato due volte o sarebbe stato preso dall’amore del soldo non nonno Nicola che paga come un banco ogni debito fino all’ultimo centesimo
L’intervento provvidenziale consente a Bepino di uscire a testa alta da una valanga di guai.
E’ l’ultima avventura commerciale di Bepino che si ritira in campagna in una casa modesta e si mette a coltivare i campi abbandonando con la moglie le arie di gran signore.


5.     Capitolo. Rialto.


L’istituto delle suore è sito nel sestiere di San Marco.
Il sestiere a Venezia è una delle sei parti in cui è divisa la città. Quello di San Marco è il più signorile.
L’istituto è frequentato dalla buona borghesia veneziana.
E’ una realtà diversa da quella di Rialto da dove io provengo.
Rialto è la parte del sestiere di S. Polo che gravita intorno al mercato.
E’ un mondo fatto di colori sgargianti e di rumori chiassosi mentre il mondo di San Marco vive ancora delle musiche delicate del prete rosso e si intona ai preziosi colori dei mosaici di San Marco.
Il ponte di Rialto segna il confine fra i due sestieri.
Io passo molto del mio tempo fra la riva del Vin dove lavora mio padre ed il campo S. Silvestro.
Lì si trova  l’Oratorio della parrocchia dove  trascorro il tempo libero dalla scuola con tutti i miei amici.
E’ una zona molto popolare che vive sul mercato di frutta, verdura e pesce.
Tutta Venezia viene a fare spesa al mercato di Rialto; sono tutti veneziani quelli che vi abitano.
Rialto è il cuore di Venezia e della sua gente.
Devi venire qui se vuoi conoscere l’anima vera di Venezia.
La puoi riconoscere nei volti delle persone che animano il piccolo commercio  di tutti i giorni.
Quella folla animata e festante è composta per lo più di veneziani.
I turisti li riconosci subito perché non acquistano né pesce né frutta o verdura; al massimo si indugiano davanti a qualche isolato banco che vende i vetri di Murano o i merletti di Burano.
E’ un quartiere fracassone; fin dalle prime ore della giornata la vita pulsa con i ritmi del mercato.
I carretti cominciano presto alla mattina a trasportare merci e ad allestire i banchetti di mercanzia.
Il rumore dei carrettini ed il vociare dei loro conducenti non dà fastidio, a chi come me è abituato; disturba, invece, il rumore delle auto in terraferma
Le merci poggiano su dei tubi di ferro tondi e neri come quelli delle impalcature, allineati con ordine sulla fondamenta che si affaccia sul Canal grande e sulla Ruga.
E’ uno strano spettacolo quello dei banchi prima dell’arrivo delle merci.
Il silenzio e la mancanza di folla contrasta colla tumultuosa animazione delle contrattazioni.
Il ritmo del lavoro è frequentemente spezzato dalla pausa per lo “spriz” che, oltre ad essere un momento di riposo, serve a dare un po’ di energia dopo ore di lavoro all’aperto che si svolge con tutte le temperature.
La pausa serve a scaldare d’inverno e a rinfrescare d’estate.
Basta un calo nell’afflusso dei clienti o un amico che passa di lì - sicuramente non per caso - perché i venditori si fermino un attimo
Andemo a bever un spriz e a magnar un cichetto” si sente ripetere come una giaculatoria.
Lo “spriz” è un bicchiere di vino bianco allungato con dell’acqua frizzante e arricchito con bitter o campari soda per i palati più esigenti.
I cicheti sono delle piccole porzioni di cibo.
Ogni bacaro offre i cicheti più diversi per attirare la clientela rendendo gradita la pausa dal lavoro: polpetine, folpeti, uova, bacalà fritto e altre leccornie frutto dell’invenzione dell’oste e della tradizione più pura.
I venditori dei banchetti sono molto bravi a riconoscere la provenienza dei loro clienti e distinguono i veneziani autentici dagli altri.
Quelli che vengono dalla terraferma sono campagnoli o foresti.
I veneziani sono capaci di distinguere con uno sguardo, abituato a curiosare, il sestiere di provenienza di chi compra.
Chi viene dalla terraferma è riconosciuto subito o per come si muove fra le mercanzie con scarsa esperienza o per l’accento che non può essere quello della Serenissima.
Toni daghe i pomi a la foresta. No sta farla spetar” dice cortesemente il frutariol cercando di accaparrarsi il nuovo cliente.
Chi viene dai sestieri più lontani, magari da Castello, è sicuramente più attrezzato con carrelli e sporte che reggono i carichi più pesanti.
Arrivarci anche in bateo è sicuramente un viaggio di circa un’oretta, ma venire a Rialto è un piacere oltre che una esigenza di risparmiare qualcosa sfruttando la concorrenza fra i banchi.
Done vardè che pomi. Chi xe che vol sta anguria? Bon prezzo che sero botega" grida a perdifiato Nane che non vuole assolutamente riportarsi il carretto pieno di frutta al deposito.
Il dialogo col cliente è continuo per magnificare la mercanzia e accattivarsene la simpatia.
Il complimento per le spose più giovani e carine è tradizione della cerimoniosità  di Bortolo“Bea sposa vien qua che te voio servir mi
Ti xe massa caro. Ieri costava manco e po vegno sempre qua” le giovani massaie non si fanno convincere facilmente e confrontano i prezzi.
Va ben sposa, proprio perché ti xe ti te faso el prezo de ieri” ribatte Bortolo.
Il rapporto di affezione al banchetto paga sempre. Più si decanta la mercanzia e più si ha successo.
Chi ciacera de più, vende de più” dice mia madre che è una affezionata cliente del mercato.
Il suo frigo è sempre vuoto si riempie solo il sabato per far fronte alla necessità del giorno di festa “ Perché me piase magnar le robe fresche non me piase i surgelati”.
Mangiare bene è anche una cultura che tiene i sapori tradizionali e genuini in debito conto e che non si fa convincere da intrugli preconfezionati di cui conosci con difficoltà gli ingredienti e la provenienza.
Per il formaggio mia madre va sempre da Sbrissa sotto i portici. Da buona forchetta, quale lei è, dice che l'asiago ed il verde, così chiama il gorgonzola, che vende Sbrissa non si trovano in altre parti del mercato.
Per la frutta e la verdura lei sceglie a seconda dell’offerta del giorno.
Al mercato bisogna far do giri” dice “ el primo per vardar el secondo par comprar”.
I banchetti sono tanti e bisogna cercare di comperare al meglio approfittando della concorrenza.
Ci sono però tanti banchi ed anche quelli che hanno prezzi più alti vendono lo stesso perché c’è sempre il cliente che vuole risparmiare la coda o che ha una sua fiducia personale sulla qualità di quel determinato banco  e compra ugualmente ad un prezzo meno conveniente.
Poi c’è l’ora delle “spie”.
Le spie sono i clienti che arrivano all’avvicinarsi dell’ora di chiusura approfittando così degli ultimi ribassi dovuti all’esaurimento della merce per risparmiare qualche soldo.
E’ questo il momento migliore per comperare.
I fruttivendoli, infatti, vendono scontati i prodotti che sono soggetti a deperimento.
I venditori fanno credere alle massaie di essere stanchi e di non volere riportare al deposito ancora i carretti col loro carico del mattino così le convincono per l’ultimo acquisto col miraggio di fare un risparmio.
Il vero risparmio, invece, è non comperare ciò di cui non hai bisogno.
Il mercato al minuto è distinto da quello all’ingrosso. La divisione della zona all’ingrosso è fatta con una transenna in legno che divide la zona adiacente al Canal Grande da quella riservata al mercato al minuto. E’ una divisione convenzionale che taglia in due il Campo di Rialto, delimitato fra la facciata della Chiesa di S. Giacometo e il Sotoportego dell’Erberia che chiude ad elle il campo stesso.
Fra le transenne del mercato è rinchiusa la statua del gobo de Rialto dove i veneziani solevano un tempo appendere i sarcasmi e le satire contro i potenti.
E’ considerata da noi ragazzini un’impresa coraggiosa quella di attraversare le transenne di sera, evitando le guardie giurate, per andare a toccare la gobba portafortuna della statua.
Le barche cariche di frutta, verdura e pesce arrivano sulla fondamenta posta dall’altro lato del Sotoportego dell’Erberia per scaricare le merci.
Il mercato della frutta e della verdura è il più esteso e colorato.
I grossisti vendono ai dettaglianti che trasportano le merci o nel mercato che confina proprio lì o negli altri mercati rionali minori.
Il mercato del pesce è collocato in campo de la pescaria al coperto sotto i portici.
Il pesce è tenuto su dei letti di ghiaccio per conservarlo più a lungo. Alcuni pesci sono ancora vivi. Sui banchi c’è un via vai di granchi o di masanete e di qualche pigra lumachina di mare che cercano invano di scappare dalla loro triste sorte ormai segnata; la mano sicura del venditore li avvolge in cartocci di carta gialla e spessa.
Mi voria del pese. Me lo cura?” E’ la domanda che le signore meno esperte di cucina rivolgono al venditore mentre le massaie veneziane più esperte sorridono.
Ma se facile netarlo done!” ripete il bottegante che cerca di evitare questo incomodo.
La contrattazione col venditore si basa anche su questi dettagli che fanno della vendita l’occasione di un gioco antico fra chi compra e chi vende che, alla fine, è un piacevole diversivo alla quotidianità.
A Rialto non si sono ancora installati i supermercati.
Quegli anonimi capannoni dove i clienti silenziosi si aggirano fra i banchi senza che nessuno degli addetti alla vendita riconoscendoli li avvicini con un sorriso o con un complimento.
Nel supermercato uomini e donne si spostano muti fra uno scaffale e l’altro che impediscono persino di avere un contatto visivo fra i clienti : E’ una distrazione che non favorisce gli acquisti.
Non c'è allegria ma solo la fretta di uscire al più presto e di evitare di starsene taciturni in coda alla cassa.
Se qualcuno tenta di sorpassare spostandosi irregolarmente da una fila all’altra le reazioni non sono di cortese presa in giro ma irritate.
Le multinazionali della distribuzione ci hanno tolto il sorriso ed il piacere di fare la spesa.

6.     Capitolo. S. Marco.


Il sestiere di S. Marco è abitato da industriali, magari qualche armatore, albergatori, commercianti, professionisti e nobili.
Le abitudini sono più raffinate, non si va a bere lo spriz nei bacari ,  ma si prende l’aperitivo al bar sotto l’orologio di piazza S. Marco o all’Harris Bar per cercare di incontrare qualcosa che ricordi Hemingway.
Nel quartiere manca un mercato della frutta e verdura; le bancarelle sono rarissime ci sono solo negozi che vendono merci più pregiate.
Puoi trovar negozi di abbigliamento, negozi di elettrodomestici, pelletterie, oreficerie e tanti negozi che vendono le specialità veneziane: preziosi vasi di vetro prodotti a Murano o merletti di Burano.
La presenza dei turisti tende a modificare anche le abitudini dei residenti.
A San Marco la gente sembra fin più elegante e più bella.
Non c’è nessuno vestito male o in tuta per fare i lavori più pesanti che sembrano essere stati relegati agli abitanti di altri sestieri meno nobili.
La vita sembra più facile e più gioiosa.
Il pomeriggio lo si passa seduti al Quadri, al Florian o all’Avena a sorbire un caffè all’aperto al suono delle orchestrine e a godersi il passeggio.
Qui è tutto più rilassato sembra che non ci sia bisogno di lavorare e di fare fatica.
I soldi si guadagnano più facilmente con il commercio di oggetti di lusso.
La nobiltà del sestiere si percepisce soprattutto al tramonto, quando i raggi del sole dormiente fanno risplendere obliqui i mosaici lucenti d’oro della basilica di S. Marco.
Basta chiudere gli occhi per vedere passare nei loro abiti di broccato i Foscari con le loro glorie e miserie, i Morosini , grandi ammiragli conquistatori del Peloponneso , i Querini , conquistatori e signori di Stampalia, i Pesaro, che affittavano navi  e relativi equipaggi per le battaglie navali della Serenissima e tanti e tanti altri padri della Serenissima che trasudano leggenda.
La grande classe dirigente della Repubblica che seppe garantire ai Veneziani del loro tempo le libertà fondamentali di lavorare, di non morire di fame, e di essere tutelati dalle prepotenze e dalle soperchierie dei potenti.
Libertà che ancora oggi sono dure da mantenere e che allora non erano facili da conquistare.
Esistono ancora questi grandi uomini figli della Serenissima Repubblica del Leone?
Forse sì? 
Quello che non esiste più è lo spirito che animava gli abitanti della vecchia Repubblica.
Non esiste più neanche nei sestieri più nobili.
Non c’è più il fervore di partire verso terre lontane.
Il commercio fatto di itinerari avventurosi alla Marco Polo non è più neppure un ricordo.
Si è spento già ai tempi degli ozi nelle ville venete, quando i discendenti dei vecchi conquistatori di rotte commerciali hanno trovato più comoda la vita di campagna a godersi le rendite accumulate ed è stato sepolto definitivamente da Napoleone a Campoformido.
I commerci si sono ridotti alla vendita di cose di poco conto per le orde di turisti. Si è preferito lucrare sull’attività più semplice dell’albergatore di lusso.
C’è una evidente nemesi storica nel fatto che i vecchi dominatori che controllavano l’intero mediterraneo e che, nel periodo di massimo fulgore, tenevano testa all’Europa intera per proteggere i loro commerci, ora siano oggetto dell’invasione di torme di turisti, i novi barbari, che ingombrano, a volte senza alcun rispetto, chiese, musei, calli e fondamenta. 
Pochi sono quelli che conoscono e celebrano la storia della Repubblica del Leone: sono i fedelissimi irriducibili che si ritrovano nella lettura degli scritti di Alvise Zorzi.
A volte mi sono chiesto “ma se ghe fusse ancora il gran consiglio?
Se ci fosse ancora il Doge, il Capo della Serenissima Repubblica, lui che gettava l’anello fuori dalle bocche di porto per celebrare i fasti della grande Venezia con lo sposalizio col mare.
Se ci fossero ancora i Veneziani di allora - quelli che non esitavano ad offrire parte del loro patrimonio per sostenere la Repubblica nel momento del bisogno - cosa avrebbero fatto per dare lustro e gloria allo loro città e  per fare fronte a questi nuovi barbari che calpestano tutti i giorni come formiche i masegni della Serenissima?
Avrebbero trasformato le case in alberghi costringendo gli abitanti ad andarsene, loro che consideravano i cittadini il patrimonio più prezioso della Repubblica?
Avrebbero costruito il Canale dei Petroli loro che avevano disposto pene severissime persino per chi gettava rifiuti nei canali e che avevano istituito il Magistrato delle Acque per preservare gli equilibri lagunari?
Avrebbero costruito una zona industriale a ridosso della città a San Giuliano che funge da maleodorante confine con scarsa attenzione per l’ambiente, loro che punivano col taglio della mano chi gettava rifiuti nelle acque della laguna?
No, non credo.
Non ho la baldanza per dare delle risposte, posso solo formulare delle domande; però non credo, non credo proprio che chi ami veramente Venezia possa essere contento di queste soluzioni.
Certo bisogna contestualizzare le scelte al momento in cui sono state effettuate.
L’esigenza di dare nuove opportunità di lavoro a chi viveva solo di un’avara agricoltura e la politica tesa a favorire i consumi per rendere il tenore delle famiglie più elevato hanno comportato scelte di tutto rispetto.
Queste necessità, però, devono essere coniugate con l’interesse di preservare il territorio e l’ambiente che sono parte del nostro passato e della nostra cultura e bene prezioso per il futuro dei nostri figli.









7.     Capitolo . L’Oratorio di San Silvestro.


Non ho avuto esperienze scolastiche precedenti – sono riuscito a fuggire dall’iscrizione all’asilo infantile - ma la nuova esperienza scolastica mi piace.
Mi piace l’ambiente: la mia maestra è suora Epifania.
L’istituto risente dello stile del sestiere di San Marco.
Spesso vado a giocare con alcuni nuovi compagni in Piazza San Marco o ai Giardinetti Reali.
Più rari sono gli inviti nei Palazzi che circondano Campo Santa Maria Formosa o che si affacciano alla Riva degli Schiavoni, salvo Richi che mi ha invitato alla festa del suo compleanno nella sua bella casa del Ponte Storto.
Io, però, preferisco – nondum matura est? - giocare con i miei amici che frequentano l’oratorio di Campo San Silvestro.
Lì sento più in sintonia con il mio modo di vivere e con le mie abitudini.
L’oratorio è frequentato da un numero esagerato di ragazzini.
Le case di Venezia sono tutte molto popolate; la gente ama abitare in questa città e si accontenta di vivere anche in cinque in un appartamento di due stanze più bagno e cucina.
Nelle case della gente comune non c’è molto spazio per i giochi dei ragazzi.
I giovani passano il tempo libero dai compiti scolastici fra il campo dove giocano a tacco e l’oratorio di San Silvestro. Frequentare l’Oratorio è divertente.
Per essere ammessi bisogna assistere alle lezioni di dottrina di Don Biondo.
Siamo tutti stipati nella grande sacrestia ad ascoltare il Padre che ci impone il silenzio con un semplice gesto della mano che porta il suo indice contro il naso autoritario.
L’autorità di don Biondo impone così il silenzio a quella chiassosa assemblea che esplode in qualche risata solo quando il Don, abile regista, vuole dare un attimo di tregua all’attenzione.
Don Biondo è un amico di nonno Nicola e vede per me un futuro da monsignore.
Te piasaria far el prete?”  mi chiede “el nonno saria contento” precisa con cenno del capo.
La domanda mi sembra così strana che ho difficoltà a rispondergli.
La sua più gran preoccupazione è convincere mia madre a portarmi a fare la prima comunione in parrocchia.
Me piasaria che la comunion..” propone mellifluo.
El fio va dale suore!” afferma categoricamente mia madre.
Neanche la grinta di don Biondo riuscirà a vincere la diplomazia delle suore che hanno proposto una tunica bianca per tutti i comunicandi.
Tutti i giovani scolari sono invitai a fare la comunione nella chiesa dell’istituto.
La xe propio bela la tunica” soggiunge mia madre
Da abile diplomatico Don Biondo ripiega sul corso di chierichetto convincendola più facilmente.
Amo molto destreggiarmi col turibolo e odorare da vicino l’intenso profumo dell’incenso.
Non riesco invece a raggiungere il massimo con i campanelli al sanctus.
Sona più forte” mi suggerisce Don Biondo
Le lezioni di dottrina sono più semplici di quelle della scuola e non c’è il rischio di essere bocciati.
La maggior parte del tempo in Oratorio non la si passa alle lezioni del catechismo ma a giocare con l’unico ping pong o con l’unico biliardo presente nella cappella sconsacrata - vista la presenza di un altare con tanto di tabernacolo – situata sopra la sagrestia di San Silvestro.
L’oratorio è collocato in una sala al primo piano.
Da lì si può vedere il Campo.
D’estate Don Biondo è riuscito ad ottenere l’uso, alle Carampane, di un campetto polveroso, circondato dalle case, che tiene gelosamente chiuso a chiave, dove a giocare a calcio in quattro contro quattro.
Le squadre così composte sono fin troppo numerose per l’estensione del campo di gioco, così per potere giocare tutti si fanno più squadre chi vince rimane in campo e gli altri che perdono escono per fare posto a chi aspetta il suo turno.
Si continua a giocare fino a sera.
Basta stare attenti a non perdere troppi palloni nel giardino del vicino inferocito da un po’ di vocio, come se lui non fosse mai stato ragazzo.
Ve lo spaco sto balon.” Urla ogni volta che riesce a raggiungere prima di noi la palla caduta nella sua proprietà.
Se ci vede mentre andiamo a prendere il pallone sono dolori.
Ghe lo digo mi al prete che ve insegni l’educazion!” continua a ripetere brontolando.
D’altronde al calcio non bisogna chiamare il pallone o imprecare contro il compagno che sbaglia un passaggio?
Per Venezia, soprattutto per Rialto, poter disporre di un campo di calcio è un lusso esagerato.
Quasi come potere vedere il cielo tutto intero e non a spicchi.
Le case sono tanto fitte che il sole si vede solo qualche ora al giorno e ci si deve accontentare di uno spicchio striminzito di cielo se non si alza lo sguardo in qualche fondamenta o in qualche campo.
Frequentano l’oratorio di Campo San Silvestro i figli dei proprietari o dei lavoratori dei banchetti del Mercato di Rialto.
Sono ragazzi da modi un po’ folk, sicuramente meno raffinati dei figli della buona borghesia veneziana che vive nel quartiere di San Marco.
Nessuno ha voglia di uscire dalla sua zona, dalle sue abitudini quotidiane e di lasciare i suoi amici.
Né c’è una particolare urgenza di conquistare dei territori e di sottrarli agli altri ragazzi.
Quando, però, c’è di mezzo l’amicizia, quando un amico di campo San Silvestro si trova in difficoltà ed ha bisogno di dare una lezione a qualche prepotente di un altro sestiere è un’altra faccenda.










8.     Capitolo. La rissa.


Dopo qualche mese di scuola ho, infatti, la sensazione di essere considerato come uno che non è al suo posto.
Come mai uno di Rialto si è permesso di venire ad una scuola di San Marco?
Chi crede di essere? non è del giro giusto; lui deve essere tenuto a debita distanza.
“Chi sono i tuoi amici?” mi chiedono “venditori di pesce, frutta e verdura?”
“Sono dei bovari?” insistono “ magari non sono neanche di Venezia, vengono dalla campagna?”
Non sopporto di essere considerato come un paria.
I me amighi non ga paura de nissun i xe forti e fieri, ve fasso veder mi”.
Come i francesi hanno sfidato gli italiani a Barletta io, a nome dei fioi de San Silvestro, ho sfidato quei de San Marco.
Non so proprio quale deve essere la tenzone. Ma so che li ho sfidati. Deve nascere qualcosa.
La prova si sarebbe improvvisata lì all’ingresso della scuola.
Non mi è difficile convincere gli amici di San Silvestro.
E’ in gioco il nostro onore, bisogna dare una lezione.
Quelli di San Marco sono tutti signorini, non sono capaci di menare le mani e devono imparare a rispettare i ragazzi San Silvestro.
Gli amici dell’Oratorio non sono molto caldi ad accogliere l'invito di effettuare quella trasferta non per timore ma perché non hanno voglia di spostarsi fuori dal loro territorio e dalle loro abitudini.
Prometto a tutti di dare in prestito per un giorno intero il mio monopattino rosso.
Sono convincente.
Alle quattro e mezza del giorno dopo si presentano in massa all’uscita della scuola.
Nane è un ragazzino di altezza normale. E’ magro come una acciuga tanto da sembrare sin più alto di quello che è veramente.
E’ figlio di un ex pescatore che ha un banco di pesce al mercato di Rialto; per il momento frequenta le scuole elementari alla scuola pubblica poi continuerà - è già scritto nel suo destino - il mestiere del padre o forse aprirà un ristorante come lo zio Rico.
Nane si è appollaiato su una delle due colonne che incorniciano l’ingresso della scuola; gli altri - e ce ne sono tanti: Toni, Robi, Cleto, Davide - sono riuniti in silenzio ad aspettare.
C’è anche Marzian che con Rialto non c'entra niente ma che è venuto a dare una mano per simpatia.
Nane attende con aria di sfida.
Le mamme portano via i bambini più piccoli infastidite da questa insolita piccola folla, fortunatamente la suora addetta alla portineria chiude la porta e non si intromette in questa storia.
Sono rimasti lì a vedere il da farsi quelli che mi hanno provocato e deriso.
In prima fila c’è Richi con il suo amico Lino.
Indietro molti altri.
Chi xe che dise che nialtri semo dei venditori de pesse.” interroga Nane.
Il fatto è assodato e non sembra neppure un’offesa troppo grave.
Si fa avanti Richi: "Sono io che lo dico" ammette con coraggio.
La sfida fortunatamente si è così circoscritta a due campioni che devono sostenere due tesi opposte.
E’ Nane che deve difendere la dignità dei ragazzi di S. Silvestro.
Nane assume il ruolo di mio campione, ma anche quello di tutti i figli dei venditori di pesce di Rialto che devono esser trattati con più rispetto.
E’ lui che regge la sfida.
Io sono troppo piccolo per battermi per S. Silvestro.
Tutti gli altri fanno circolo a proteggere i due contendenti da sguardi indiscreti.
Nane picchia sodo.
Richi si difende bene, ma finisce quasi subito a terra.
Non è abituato ad aiutare suo padre a spostare le cassette di pesce o a tirare il carretto per la Ruga e non ha la forza di Nane.
Ritira, dìsi che no xe vero.”  insiste Nane.
La cosa è verissima ma Richi, che deve avere avuto dei diplomatici di carriera in famiglia, prende subito la posizione a lui più favorevole.
“ Non è vero” dice.
Raggiunto l’obiettivo, Nane molla subito la presa. Mai una battaglia che si preannunciava cruenta e interminabile si è risolta in modo così veloce tanto da non attirare l’attenzione né delle suore né dei passanti.
Andemo Nico” mi dice e rivolto agli altri “ se ghe xe problemi tornemo anca solo per farghe cica.” promette.
Di rabbia ne hanno masticata molta quelli di S. Marco che si sono fatti mettere sotto dai dei figli di botteganti.
Abbandoniamo il campo.
La rivincita dei figli del  popolo è fatta.
Il giorno dopo a scuola vedo che sono trattato con maggiore rispetto.
I ragazzi di S. Silvestro non sono stati più considerati solo come figli di venditori di pesce.













9.     Capitolo. La puntureta

 

Quella  stessa settimana ho dei brividi di febbre.
Quando ho un minimo disturbo il mio rifugio è il letto, figurasi quella volta che ho una febbre da cavallo.
Sono sommerso dalle coperte da cui esce a mala pena la testa e passo il tempo dormendo un sonno inquieto per  gli incubi portati da quella che i miei credono influenza.
Non insisto neppure per vedere qualche amico perché continuo a trovare ristoro nel sonno.
La febbre non passa.
Qua ghe vol el dotor” sentenzia mio padre.
L’arrivo del medico è un avvenimento importante.
Il medico è una persona istruita. Va trattata con il dovuto rispetto.
Tutti sono particolarmente tesi per sentire il suo responso.
Speremo che non sia niente” dice mia madre che si preoccupa per un nonnulla.
Qua ghe vol na puntureta de penicilina” diagnostica il medico che sospetta una bronchite.
Tento invano di fare partire un tentativo di contrattazione.
No se pol tor qualcossa par boca” suggerisco temendo la signora Antonia anche quando questa dice di portare delle caramelle.
"No, qua ga da venir la signora Antonia” pontifica lui non ammettendo alcun contraddittorio.
E’ una sentenza di condanna senza appello.
La signora Antonia è l’infermiera che si reca a fare le punture a domicilio.
La signora è conosciuta nel sestiere perché ha un ambulatorio di infermeria e vive facendo iniezioni.
Tutti i ragazzini ne parlano con terrore perché la sua fama nel fare le iniezioni si è sparsa in tutto il sestiere. Quando arriva il pericolo è in vista.
E’ una signora dal fisico asciutto, capelli scuri, ricci ma non troppo perché è passato un po’ di tempo dall’ultima permanete.
Ha avuto la sventura di scegliere, purtroppo per lei, un lavoro odiato da tutti i ragazzini.
La montatura scura e massiccia degli occhiali le da un tono molto serio, la sua aria cupa è accentuata dal fatto che ha una gamba paralizzata che si trascina con grande indifferenza.
Piango, mi dispero. Nulla vale, tutti sono irremovibili.
La mia paura anzi il mio terrore per le iniezioni non convince nessuno a cambiare terapia.
Attendo con trepidazione la signora Antonia.
Lei arriva puntualissima il giorno dopo trascinando la sua gamba immobilizzata dalla poliomielite.
Non l’ho mai vista prima d’ora e mi sembra subito che abbia un aspetto sinistro, non certo accattivante.
Per farsi volere bene blandisce “Te go portà dele caramele”.
Quello che noto subito non sono però le caramelle ma il pentolino di alluminio porta con sé per fare bollire l’ago e la siringa in vetro che è usata per l’occasione.
Vede il mio terrore palese e cerca di rabbonirmi:
Uso un aghetto picolo no te fasso niente” mi sussurra con un vocione roco che vuol essere rassicurante.
Spero sempre che sia una finta, che sia tutto uno scherzo.
Non posso credere ad un così grande sopruso nei miei riguardi da parte di mio padre e mia madre.
Come possono i miei genitori, che mi vogliono bene, sottopormi al supplizio di una puntura.
Realizzo che la cosa è fatta sul serio solo quando la signora Antonia si presenta brandendo l’arma sull’uscio della mia stanza.
Dall’ago che mi sembra di una grandezza esagerata spunta una piccola goccia di liquido.
Il coro delle troiane dopo la distruzione della loro città è nulla rispetto ai miei lamenti.
Mi dispero e mi contraggo sul letto, ma tutto è inutile.
Resisto con tutte le mie forze. Il nemico mi sovrasta.
Cedo dopo che sono immobilizzato da mio padre e mia madre mentre la signora Antonia implacabile esegue la sua missione.
Quando dopo un’oretta la rabbia per il torto subito è sbollita devo convenire “ No  me ga fato miga mal


























10.           Capitolo. L’imbroglio legale.


La signora Emma è una bella signora di quaranta anni. Lei dimostra almeno cinque anni in più della sua età specialmente quando indossa quegli occhiali orrendi da presbite che usa quando lavora da sarta.
Se ne sta tutto il giorno a cucire, confeziona vestiti in casa per tutto il vicinato.
Pur essendo ancora giovane si è indebolita la vista rimanendo tutto il giorno in cucina a imbastire.
E’ costretta per gran parte del tempo ad accendere la luce artificiale anche se  sfrutta al massimo la luce che proviene nelle ore centrali della giornata dallo spicchio di cielo che sovrasta la calle.
La casa è piccola e non ci sono altri spazi oltre la cucina c’è la camera da letto matrimoniale ed una stanzetta più piccola per il loro figliuolo.
Il marito lavora in fabbrica fa il saldatore.
Il sig. Biondo ha i lineamenti signorili; è alto, magro con i capelli brizzolati.
E’ un tipo taciturno, parla solo quando viene chiamato in causa rispondendo prima di tutto con un sorriso amichevole.
E’ abituato a parlare poco sul lavoro. Ha una fotografia che lo ritrae con una maschera da saldatore sul volto mentre in mano tiene una fiamma ossidrica, la tiene in cucina attaccata ad un’anta della madia in bella vista.
Lavora all’Arsenale, un grande cantiere dove costruiscono imbarcazioni.
Parte la mattina alle sette e torna a casa alla sera alle sei e mezza con un breve intervallo per mangiare il cestino che gli prepara la moglie.
Ha un cestino anche lui come me per portarsi il pranzo sul lavoro.
El mio cestin xe più belo del tuo” gli confido.
Andare e  tornare da Rialto all’Arsenale è un bel pezzo di strada.
Il sig. Biondo la percorre tutta a piedi per distrarsi un po’ in mezzo alla gente. I turisti affollano la città.
Lavora tutti i giorni compreso il sabato.
Quarantotto ore alla settimana. I tempi sono duri, si lavora sempre.
Gli resta solo la domenica per sognare la casa col giardino in mezzo al verde della campagna.
La sera quando torna è troppo stanco anche per sognare.
E’ discendente da una nobile famiglia della zona di Treviso.
Suo padre aveva due figli.
Suo fratello, approfittando della malattia del padre che lo ha reso non troppo attento alla gestione dei beni di famiglia e della bontà del sig. Biondo, lo ha depredato dei suoi averi facendosi intestare tutte le proprietà immobiliari della famiglia.
E’ sempre stato per me un mistero come una persona poco lucida di mente possa redigere delle donazioni.
No ghe xe i notai a controlar? “ Chiedo incuriosito.
Il fratello è riuscito a conoscere il notaio Gemma e a diventare suo amico, mi spiega il sig. Bruno.
Un notaio famoso nella sua città per i suoi imbrogli cui però nessuno ha mai rimproverato ufficialmente qualcosa.
E’ esperto soprattutto ad imporre ai più deboli quella legalità che è sita al di qua di quella sottile linea di confine che la divide dalla truffa.
Un legalità formale che equivale ad un sostanziale imbroglio legale.
Così quelli che conoscono il modo di operare del notaio Gemma lo tengono alla larga mentre i poveracci rimangono per lo più fregati.
Per il signor Biondo c’è solo da subire perché a correre dietro a queste ingiustizie si può solo rimettere
Ad andar per avvocati per recuperar il mal tolto - dice il signor Biondo – ghe xe solo da spendar schei”.
Il signor Biondo è fatalista e non è, inoltre, capace di fronteggiare una situazione così complicata
Questa storia, fra l’altro, lo turba profondamente .
Non riesce ad essere lucido.
Si sente incapace sia di convincere il padre a diffidare del fratello sia di impedirgli di dilapidare il suo patrimonio in donazioni.
Si è, pertanto, rassegnato a vedere depredare suo padre che stravede per il fratello.
Il padre, invece, diffida di lui.
Come tutti coloro che apprezzano gli adulatori diffida solamente di chi gli dice la scomoda verità che vuole inconsciamente ignorare.
Molto spesso le persone vogliono sentire solo ciò che fa loro piacere e non vogliono vedere i veri problemi della vita, quelli che impongono dei comportamenti a volte duri, ma necessari.
Alla fine al fratello non era rimasto nulla di quello che aveva sottratto con la frode.
Anche ad avere ottenuto una sentenza di condanna – con i tempi biblici della giustizia - non c’è nulla da guadagnare.
Il fratello aveva dilapidato tutto ancora prima che un solerte avvocato avesse potuto ottenere il sequestro cautelativo.
Il sig. Biondo non avrebbe recuperato un centesimo, gli sarebbe rimasta solo la notula dell’avvocato da pagare.
Di tutti quei beni sottratti con le donazioni illegittime redatte dal notaio Gemma, infatti, non restò nulla nelle tasche del fratello.
Egli dovette cedere tutto a usurai e profittatori per potere fare fronte alla montagna di debiti contratti per condurre, senza lavorare, la sua vita dispendiosa.
Poi il padre è morto ed il fratello, non avendo più nulla da sottrarre, è scomparso nel nulla .
Il signor Biondo ha dovuto impegnare due mesi di risparmi, destinati all’acquisto della casa di campagna per le spese del funerale.
Non voluto affidare i funerali alla carità pubblica per una sorta di dignità personale cui non è mai venuto meno.
Nessuno ha cercato di sapere dove è finito il fratello scomparso.
Il timore di vederlo tornare a riportare guai e così grande che nessuno ne parla più.
Il sig. Biondo si è poi sposato con la sig.ra Emma.
Pazientemente raggranellano soldo dopo soldo per potere comperare in contanti - senza debiti con nessuno tanto meno con le banche, perché ne è ossessionato - la casa in campagna.
Con un solo stipendio non ce la fanno a fare fronte a tutte le spese: far studiare il figlio e mettere da parte i soldi per comperare la casa.
La signora Emma parla sempre di quella casa con un giardino dove si vede sempre il sol.
E’ lì nella campagna verde di Favaro Veneto subito fuori Mestre
La campagna è aperta le altre abitazioni sono distanti e non appiccicate l’una all’altra come qui in questa calle stretta e buia dove il sole si vede solo poche ore al giorno.
La casa non sarà nel centro storico di Venezia ma, in compenso, sarà grande, spaziosa e con un giardino con tanti fiori colorati e profumati che possano fare dimenticare le glorie della città del Leone.
Non riesco proprio a comprendere come un veneziano possa pensare di trasferirsi in terra ferma.
No ti deventarà miga na campagnola?” domando incredulo.
Suo figlio Roberto sarà irrimediabilmente canzonato da tutti gli amici del Campiello: “Campagnoli caga in fosso e se netta col deo grosso”.
Non posso proprio credere a questa eventualità.
I veneziani non capiscono come si possa abitare in un posto diverso da Venezia, stare lontani da Rialto e da San Marco, dovere prendere la filovia, arrivare a Piazzale Roma e poi fare tanta strada per arrivare in centro a Rialto.
Penso proprio sia una idea bislacca.
Non ho proprio capito che la gente si sta stufando di vivere in appartamenti piccoli senza comodità e troppo costosi rispetto alla terraferma.
Il processo che svuoterà Venezia dei suoi abitanti sta cominciando.
Il centro storico sta diventando sede solo di iniziative immobiliari nel settore alberghiero e nella realizzazione di sedi di rappresentanza ad alto livello per attività che trovano nel marchio Venezia un ritorno economico a livello internazionale.



















11.           Capitolo. Le Zattere.

 

Lo zio Pasquale e la zia Nina sono pensionati. Sono originari di Trani come il nonno Nicola.
Lo zio Pasquale è una persona amabile, sempre allegra e disponibile.
Il suo corpo tarchiato confessa che non sa fare a meno di una buona cucina dove l’olio d’oliva ed i condimenti abbondano.
Gli occhi chiari danno luce alla sua faccia rotonda; occhi che ricordano la luce intensa del sole della Puglia.
E’ vivo in lui il ricordo dei bassi, del duomo dalla pietra bianca e del profumo del mare.
Ripete spesso che un giorno sarebbe tornato al paese per finire gli ultimi giorni.
Ho sentito dire dal nonno che lo zio Pasquale vuole tornare a Trani; mi sembra impossibile che ciò possa accadere.
Chissà perché vuole abbandonare Venezia, noi, il nonno e tutti i suoi amici dell’Adriatica?
Non considero che lo zio Pasquale ha la Puglia nel cuore.
Non può dimenticare l’odore salmastro del mare, che lì è più intenso che qui al nord, il colore del sole, che è più caldo, il sapore dei cibi, che è più deciso.
Lo zio Pasquale è una buona forchetta. Spesso si mette a cucinare ed io cerco di aiutarlo.
Una delle operazioni che più mi piace compiere è quella di preparare l’origano.
Gli amici del paese gli portano spesso da Trani delle mazzette di origano già essiccato.
Dice lo zio che l’origano con un profumo così intenso si trova solo in Puglia.
Neanche il sole di Sicilia riesce a produrre un origano dall’aroma più intenso di quello pugliese.
Preparare l’origano è una operazione molto semplice: bisogna separare le foglie essiccate dal loro ramo.
Prendo i rametti ad uno ad uno, li pelo dalle loro foglioline rugose che ripongo in vasetti di vetro dipinto che lo zio Pasquale usa mettere sopra una mensola di una madia in cucina.
Pur nella sua semplicità questa operazione è molto delicata perché non bisogna fare cadere per terra le preziose foglioline per non irritare la zia Nina che si lamenta sempre di come trova la cucina dopo i nostri interventi culinari.
Nasa che profumo” dico avvicinando le mani alle narici dello zio..
Un odore intenso, forte che sa di sole e del sapore di una terra che non si può dimenticare facilmente.
Forse anche per questo lo zio Pasquale vuole tornarci.
La zia Nina si presenta sempre con un bel sorriso simpatico che mette in bella mostra i suoi denti leggermente all’infuori.
E’ una signora che ama stare nella sua casa dove ha sempre mille cose da fare.
Come tutte le donne del sud passa gran tempo a fare la spesa e a preparare manicaretti prelibati.
Tengo costantemente d’occhio i suoi movimenti in cucina e quando mi accorgo che sta preparando le orecchiette alle cime di rapa o le melanzane ripiene e, soprattutto, i panzarotti o le cartellate - di cui sono particolarmente goloso - mi faccio immancabilmente trovare per pranzo.
La loro amicizia per il nonno Nicola è molto forte come tutti i legami dei conterranei che provengono dal sud.
Essa è più salda di una parentela molto stretta.
Gli zii amano i bambini degli altri, perché non hanno potuto averne di loro.
Lo zio Pasquale ha lavorato all’Adriatica, una compagnia di navigazione che ha sede alle Zattere, le fondamenta affacciate al Canale della Giudecca.
Che beo che xe to nevodo” gli dicono i colleghi.
Lo zio è orgoglioso di fare vedere che ha un nipotino, anche se la parentela è molto lontana; lo zio, infatti, è nipote di una lontana cugina del nonno Nicola.
Mi è sempre piaciuto andare alle Zattere a trovare lo zio Pasquale.
Adoro correre su quella fondamenta così lunga e larga inondata di sole con il mio monopattino rosso.
C’è un profumo buono di mare che viene da quel canale così diverso dagli altri rii di Venezia stretti e maleodoranti.
I bar sono affacciati sul canale con le loro terrazze.
Esausto per le corse sul monopattino mi siedo volentieri con lo zio di fronte alla Giudecca in uno dei bar affacciati sulla fondamenta delle Zattere il mio preferito è il Cucciolo.
Oltre che avere una grande terrazza produce dell’ottimo gelato. Lo divoro volentieri , anche se non è gustoso come quello confezionato da mio padre: solo lui riesce a fare dei gelati più buoni del mondo.
La specialità del Cucciolo è il gianduiotto servito in un bicchiere ricolmo di panna montata .
Una vera delizia.
Di fronte alle Zattere si riconosce l’isola delle foche, come chiamano la Giudecca i veneziani:
E’una sottile striscia di terra che affiora dalle barene. Sono così chiamate le zone  della laguna dove le acque sono così basse tanto che si può camminare tranquillamente con l’acqua fino al ginocchio.
Gli abitanti dell’isola sono pochi rispetto alle moltitudini che invadono Venezia e nelle sue calli incombe una tranquillità profonda.
Di fronte al Cucciolo spicca la facciata bianca palladiana della chiesa del Redentore mentre spostando lo sguardo più a destra si scorge l’austero frontale in cotto rosso del Mulino Stucchi.
Gli zii non hanno figli e per loro io sono un divertimento.
Sono sempre da loro a fare grandi discussioni sull’acquisto di nuovi soldatini di gesso.
Lo zio Pasquale è uno dei grandi sponsor della raccolta.
Non riesce a sottrarsi alle mie richieste di acquistare un soldatino nuovo.
C’è in negozietto proprio a due passi da casa in Ruga Rialto. L’attività principale del commercio è la vendita di detersivi ; c’è , però, una vetrinetta laterale, nascosta nel lato interno verso la calle, che espone in bella mostra dei giochi per bambini ed una collezione di soldatini di gesso.
Io, oramai, a furia di chiedere, li ho comprati quasi tutti
Ghe ne go più mi che ti” dico spesso a Toni il titolare dela botega.
Lui è ben felice di questo mio primato che incrementa i suoi affari e sorride soddisfatto invece di essere preoccupato di avere un concorrente, valli a capire questi grandi!
Allora i negozi di specialità veneziane quelli che vendono veri de Muran e mascare per il carnevale non erano così numerosi.  In Ruga c’era anche chi vendeva detersivi e soldatini di gesso.

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