sabato 17 marzo 2012

Il grembiulino nero.

1. Capitolo. Il primo giorno di scuola.

Eccolo quel bimbetto con la faccia rotonda, gli zigomi leggermente sporgenti e la riga sul lato destro che divide i folti capelli castani: sono io.
E’ il primo giorno di scuola, non posso prendermela comoda quel giorno, anche se, a dire la verità, è mia madre a non essere mai pronta. Cammino spedito sui gradini del ponte di Rialto.
“Fa presto Nicheto che se no rivemo tardi”. Continua a ripetere mia madre.
Questo repentino cambiamento di abitudini mi ha lasciato soprattutto perplesso.
Non capisco tutta questa fretta: non posso svegliarmi al solito con comodo, non posso rimanere lì a giocare col nonno Nicola per convincerlo a comprami dei nuovi soldatini, non posso scendere in calle a trovare gli amici di sempre, ma al contrario devo affannarmi a correre su e giù per i ponti e per le calli di Venezia per arrivare puntuale. Che vita da cani! Ho appena cinque anni e non ho frequentato l’asilo.
Sono un po' preoccupato perché devo fermarmi a scuola anche per colazione. Le suore preparano il primo, io spero ardentemente che la cuoca dell’istituto cucini bene. Sono ghiotto di pastasciutta, come dimostrano le mie guance paffute.
Io sono abituato ad un pasto alla veneta: spaghetti alle vongole o col nero, risotto de bosega, e qualche volta anche lasagne magari anche il pasticcio di pesce. Come farò a rinunciare a tutto ciò per un’intera settimana? Per fortuna che di sera e nei giorni di festa mangio a casa.
Mia madre porta un cestino di vimini con il secondo. E’ troppo grande e troppo pesante per me.
Indosso un grembiule nero col colletto bianco, come tutti i bambini che frequentano l’Istituto.
Da Rialto la strada è lunga, se ci sono anche dei pesi ingombranti da portare non ce la faccio proprio.
Scendo rapido gli scalini irrazionali di casa e mi affaccio stupito della mia nuova divisa in Calle dei Cinque.
Mi riconosceranno i miei conoscenti della Ruga Rialto?
Nicola il fornaio è il primo a salutarmi “Se lavora ancuo?” mi chiede ridendo.
Il profumo del pane sfornato da qualche ora mi risveglia l’appetito.
Sono subito distolto dal saluto del venditore di soldatini che mi invita a passare nel pomeriggio per vedere gli ultimi arrivi.
Il frastuono di voci dei negozianti della Ruga mi distrae. Sono gli echi delle contrattazioni che i commercianti delle bancarelle, poste in prima linea rispetto ai negozi che delimitano la Ruga, fanno con i clienti.
Si vende di tutto biancheria, scarpe, pizzi di Burano e vetri di Murano, ma soprattutto frutta e verdura .
Il rumore, i colori ed i profumi della Naranzeria costituiscono la testimonianza migliore di una Venezia vitale che trova nel ripetersi sereno delle colorate rappresentazioni quotidiane dei suoi abitanti il suo fascino ora in via di estinzione.
Senza le storie di tutti i giorni dei veneziani la città è destinata a diventare un museo con tanti, tanti turisti che, emuli del barbaro invasore, strappano a poco a poco la linfa vitale alla città del leone.
Tagliamo per le calli più nascoste che si incuneano a fianco a S. Giovanni Elemosinario dove passa meno gente per andare più spediti
Sbuchiamo a metà della Ruga degli Orefici all’altezza della chiesa di S. Giacomo di Rialto.
Siamo appena partiti e siamo già passati davanti a due chiese dove puntualmente mi faccio il segno della croce seguendo l’esempio di mia madre.
Prima di attraversare il ponte propongo subito alla mia compagna di viaggio una sosta alla panetteria di Lino; lì si vende il pane dolce con l’uvetta passa che mangio per merenda alle cinque.
Lino il rivenditore di pane si trova in una botegheta di dieci metri quadrati situata ai piedi del ponte di Rialto.
E’ talmente stretta che i clienti possono entrare due per volta ma c’è un profumo di pane appena sfornato davvero invitante.
“Fermemose qua!” imploro tirando per la gonna mia madre.
“Sì ma femo presto che xe tardi.”
Lino capisce al volo la nostra fretta e ci serve in un lampo:“ Bona scuola” mi incoraggia.
I gradini del ponte sono tanti. Il bordo bianco è scivoloso per l’umidità della notte che non ha fatto ancora a tempo ad asciugarsi.
Arranco su quella salita imponente. Non ci sono alternative. E’ una vera e propria scalata impegnativa per un bambino di neppure sei anni.
Non si può prendere neppure il traghetto perché il trasporto su gondola è alternativo alla mancanza di attraversamenti del canale e qui c’è il ponte. I gondolieri non hanno pensato a noi piccoli scolari!!!
Il ponte si erge sul canale all’altezza necessaria per consentire il passaggio delle barche; le due ali di boteghe che lo accompagnano ne camuffano solo apparentemente la reale elevazione.
Il Da Ponte ha pensato sicuramente a tutto questo affollamento. Non deve essere tanto diverso da quello della fine cinquecento quando primo fra i ponti veneziani è stato costruito per collegare le le due sponde del Canal Grande nel punto in cui si svolgevano con maggiore intensità la vita ed il commercio della città fiorente dopo Lepanto.
Molta gente è lì per ragioni di lavoro ed ha fretta di passare.
Altri sono lì per vacanza.
I turisti si notano subito perché indugiano sulle balaustre di marmo che delimitano le rampe a vedere il traffico di barche ed il panorama.
“Ocio a le gambe” urlano i ragazzotti che spingono i carretti ingombri di merci per il mercato.
In quel bailamme generale mi faccio scudo della presenza di mia madre che utilizzo come ariete per fendere la folla.
Da una parte sul canale si affacciano di infilata uno dietro l’altro i fastosi palazzi simbolo della ricchezza della Repubblica : a destra si staglia il rivestimento in pietra d’Istria del Palazzo dei Dieci Savi, seguono il Palazzo Papadopoli, con un timido albero che si lascia intravedere pur sovrastato dalla imponente costruzione, il Palazzo Bernardo, il Palazzo Grimani, il Palazzo Pisani e in fondo Palazzo Balbi, che vigila sull’ansa del canale ; a sinistra il severo Palazzo Manin il più festoso Palazzo Loredan e il Palazzo Spinelli prima che il canale curvi a sinistra si intravedono i Palazzi Mocenigo.
Dall’altra parte il canale si volge repentinamente a sinistra costringendo i capitani dei vaporetti e le barche ad una attenta manovra per poi proseguire rettilineo.
Sulla destra qualche speranzoso turista spera di vedere ancora sulle pareti del Fondaco dei Tedeschi le tracce degli affreschi, oramai distrutti dalla salsedine, del giovane Giorgione; subito dopo si ergono Cà da Mostro, Palazzo Michiel delle Colonne e facendo opportune contorsioni alcuni più attenti ospiti della città possono intravedere le incredibili decorazioni marmoree della Cà D’Oro.
Sulla sinistra si scorge il Palazzo dei Camerlenghi poi corre dritta la fondamenta della Pescheria in fondo il Palazzo Corner della Regina e Palazzo Pesaro che si può vedere solo dopo essere discesi dagli ultimi gradini del ponte.
Le glorie della Repubblica del Leone riemergono dalle oscurità del tempo ogni qualvolta le risveglia la memoria dei cittadini o dei turisti che conoscono quella storia.
Il ricordo riporta alla luce i fasti di questi veneziani prodigiosi protagonisti del loro tempo.
Giungiamo rinfrancati dalla discesa in Campo San Bortolomio e giriamo attorno alla statua di Daniele Manin.
Il padre della Repubblica veneta aveva invano aveva tentato di resistere agli austriaci cui Napoleone aveva venduto la Serenissima in nome dei principi di libertà, eguaglianza e fraternità.
“Varda che drio el cuo del Manin ghe xe i schei” dice sorridendo mia madre indicandomi la sede della Cassa di Risparmio di Venezia.
Entriamo nel Sotoportego de la Bissa.
Sembra impossibile passare dalla luce del campo al buio delle calli che attraversando il sottoportico.
Venezia è così imprevedibile, segreta, ricca di colpi di scena, palcoscenico ideale della commedia della vita che tutti recitiamo ogni giorno.
Vorrei subito fare una sosta nella rosticceria da dove proviene uno stuzzicante profumo di cibo e dove posso ammirare un accattivante tripudio di colori che irrompono dai vassoi posti sul lungo bancone: il bianco del baccalà mantecato, il nero delle seppie, il giallo delle mozzarelle in carrozza - appena tolte dall’olio bollente della frittura - l’arancio bruno delle aragoste , il grigio scuro delle moleche .
“Magnemo, ancuo dopo pranso na mozarea?” mi prenoto anzitempo perché non si sa mai che ci siano altri programmi.
“Sì, sì, ma adeso semo in ritardo.”
Arrivati al Ponte Storto ritorniamo a rimirare una fetta di cielo perché a Venezia se non si esce dal groviglio delle Calli non è possibile guardare il cielo per la sua interezza.
Siamo già a metà strada “Manca sto ponte e na cale e po semo rivai” conferma mia madre.
Avanziamo per la Salizzada di S. Lio. Questa è una via del tutto normale con tanti negozi che vi si affacciano, noto che manca il colore tipico delle bancarelle di Rialto.
E’ una strada signorile che porta verso Piazza S. Marco.
Giunti poco prima della Calle delle Bande prendiamo a sinistra una calle lunga e stretta che sfocia ad angolo retto sulla piccola fondamenta ingombra di bambini.
Bastano una decina di bambini accompagnati dalle loro mamme per creare un affollamento.
La stretta entrata che si apre sulla destra non consente un celere accesso nell’androne dell’austero Istituto.
Mia madre è stata un’allieva delle suore dell’Istituto.
E’ un obbligo per me seguire questa tradizione di famiglia.
I bambini sono entrati subito perché è impossibile aspettare fuori: la fondamenta è troppo piccola.
La suora addetta alla portineria ci accoglie con un sorriso che tenta di nascondere la sua aria burbera e un po’ brontolona addolcendo la sua faccia spigolosa; ci dice di salire su al primo piano.
Di fianco si apre un cortile.
I glicini si inerpicano sul muro che confina col canale. Non ho mai visto in città dei fiori così belli.
“Quello è il cortile dove andrete a giocare” borbotta con un tono che vuole essere accattivante la suora portiera.
Noto subito che all’Istituto non si parla in venezian.
Avanti, avanti! lo scalone mi sembra una salita invalicabile; alla fine sbuchiamo in una grande sala dove ci sono tanti bambini col grembiulino nero ed il colletto bianco.
Qualcuno è contento. Gli scolari di seconda e terza ridono e scherzano con i compagni.
Quelli di quarta e di quinta fanno gruppo a parte. Si sentono veterani e non si mischiano con i più piccoli.
Altri piangono. Sono gli allievi di prima elementare che devono ancora digerire il primo giorno di scuola e non sanno staccarsi dalle gonne delle loro madri.
C’è un gran frastuono.
“Mi no vogio star qua” singhiozza una bambinetta scuotendo la testa e facendo dondolare le treccine bionde.
Lei, come me, evidentemente non ha frequentato l’asilo, non è abituata a lasciare le gonne protettive di sua madre e non ha ancora socializzato con i suoi coetanei.
Il sorriso e le carezze materne non possono rincuorarla anzi la consolazione la può trovare solo dopo che se ne sarà andata.
E’ per questo che la suora cerca di spingere la donna fuori dell’uscio per interrompere quel legame ombelicale.
Io pure avrei preferito rimanere a casa.
Starmene a giocare con i soldatini.
Parlare dal balcone con la signora Emma o andare di sopra a fare compagnia allo zio Pasquale e alla zia Nina.
Da oggi devo, invece, recarmi tutti i giorni a scuola.
Che noia! Che disdetta rinunciare ai miei giochi preferiti, non vedere i miei amici del cuore, saltare il pasto di mezzogiorno, magari alla cucina di zio Pasquale, per stare lì inchiodato ad un banco di legno a fare delle aste.
Le aste che non mi vengono neanche troppo dritte: che disastro!
E’ un’ingiustizia perché ho appena cinque anni e la scuola dell’obbligo comincia a sei se non scegli di frequentare un istituto privato di monache.
Vorrei protestare, ma in famiglia nessuno mi ascolta e con le suore non ho alcuna possibilità di farmi sentire perché la loro disciplina non ammette repliche. Devo stare lì e rinunciare ai miei piccoli piaceri.
Basta pastasuta, devo accontentarmi di quello che passa il convento.
Soprattutto minestrone. L’incubo minestrone è costante tutti i giorni. C’è solo la speranza di un miracolo che mi sostiene: un giorno arriverà, ne sono certo, la sospirata pastasuta.
Io detesto la verdura: sempre verdura cotta che riempie di un odore nauseabondo tutto l’austero palazzo!
L’odore intenso della zuppa di verdura sovrasta ogni possibile buon odore della cucina delle suore.
Per fortuna la pietanza me la porto da casa: oggi folpeti, domani cotoletta con l’immancabile panino dolce con l’uvetta. Un po’ di bontà fra cotanto disprezzato minestrone. Mangiare lì è una tortura che fa dimenticare ogni piacere della tavola anche per un palato poco raffinato come quello di un bambino.

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